GTA Marittime

Moderator: Moderatori

Post Reply
User avatar
awretus
Utente Molto Attivo
Posts: 469
Joined: Wed Jan 04, 2017 21:35
Location: Regno del Prete Gianni
Contact:

GTA Marittime

Post by awretus »

«…e sia specialmente per l'abbondanza del selvaggiume»

Il colle marca il confine dei grandi prati che abbiamo risalito finora e anche del pendio baciato dal sole. Oltre, un pianoro di massi brulli già nell'ombra della sera ci separa dal precipizio sul bacino del Chiotas. Poco prima del salto, un laghetto addolcisce il suo aspetto severo. All'improvviso ci accorgiamo che un selvatico cammina sulle sue sponde. Da questa distanza e nell'oscurità non è facile capire se sia un camoscio o uno stambecco. Con andatura quieta punta verso di noi. Ci fermiamo e ci facciamo da parte, accostandoci alla parete, che delimita la sella, per non intralciarlo nel suo passaggio. A mano a mano che si avvicina ci rendiamo conto che è una giovane femmina di stambecco. Poco discosta da lei, un'altra la segue. Più in altro tre cuccioli di quest'anno seguono una linea più circospetta. Viene sicura e decisa verso di noi, estraendo e ritraendo la lingua per captare le molecole volatili del cibo. Traiamo allora un pezzo di pane dallo zaino e glielo porgiamo. Come una capra domestica, viene fin quasi a prenderlo dalle nostre mani, presto imitata dalla collega. Solo i cuccioli più giovani si mantengono a distanza di sicurezza.
L'abbondanza di selvatici di queste montagne entusiasmò molto anche Vittorio Emanuele II, quando venne qui in soggiorno alle Terme di Valdieri, anche se per motivi meno disinteressati: era infatti soprannominato il roi chasseur. I suoi occhi luccicanti credo di averli visti una volta, nella faccia olivastra di un cacciatore sardo, mentre pensava ai caprioli dei boschi appenninici. Allora di stambecchi ce n'erano ben pochi, quasi estinti dalla caccia per il trofeo, ma i camosci non mancavano, tra queste rupi con poco spazio per il bestiame domestico. Gli amministratori locali non si fecero sfuggire l'occasione e concessero subito i diritti di caccia esclusiva al re. La riserva si accrebbe sempre di più negli anni successivi e i soggiorni del re e dei suoi successori si fecero abituali. Come sperato, questo generò un enorme indotto, come si direbbe oggi, che portò benefici a pioggia su una valle molto povera. Con le parole di un giornale del 1857: «ai braccianti e mulattieri lavoro, ed ai cacciatori occupazione con larga mercede, ed infine alla classe misera larghissimi soccorsi». Furono infatti arruolati dei guardacaccia stabili, furono costruite delle residenze e delle mulattiere. Tuttavia era durante i periodi di soggiorno per la caccia e la pesca, che veniva messa in moto un'imponente macchina organizzativa, che coinvolgeva una miriade di persone e di funzioni. Di essa conosciamo quasi ogni piega, fin nei più minuti dettagli, perché tutto era gestito da una burocrazia ipertrofica, che si alimentava di relazioni quotidiane, preventivi, ragguagli, lettere e aveva bisogno di coinvolgere un ministero romano per decidere la sorte di una tazzina sbrecciata. Articolatissimi erano anche i contratti tra la casa reale e i pastori che portavano le greggi al pascolo nella riserva, perché gli attriti tra le due attività non erano da poco e non fu facile delimitare i rispettivi campi d'azione. Anche l'impossibilità di cacciare sulle proprie montagne, alla lunga portò i valligiani a sentire la riserva come un peso. L'8 settembre fu un liberatutti che innescò una caccia al camoscio dai contorni dell'ecocidio: «le strade erano rosse, impastate del sangue che colava dai carri carichi di camosci uccisi. Dal Praiet, dal Vei dal Bouc scendeva una scia rossa… Alla fine anche per i camosci era scoppiata la guerra», racconta un testimone.
L'ottica della gestione faunistica non era quella moderna di preservare un'area dall'azione distruttiva dell'uomo, ma di offrire quanta più selvaggina possibile ai cacciatori. Per questo i selvatici non erano poi così selvatici, perché potevano anche essere allevati e persino allattati dall'uomo, per mantenere alto il proprio numero. Valeva sia per le prede da cacciare quanto per i pesci da pescare, in particolare nel Novecento, perché la regina Elena era una grande appassionata di questa seconda attività. Inoltre venivano perseguitati i cosiddetti animali “nocivi” (per le tasche dei cacciatori): volpi, linci, mustelidi, lontre (che oggi mi risultano estinte), corvidi e rapaci, per la cui uccisione erano anche previsti dei premi. Dopo la fine della monarchia, la riserva continuò a essere gestita con i medesimi criteri a beneficio di un'élite di cacciatori. Negli anni maturò però la sensibilità ambientale, anche in seguito alla costruzione degli impianti idroelettrici, cosicché nel 1980 la regione la trasformò in parco.

I gratta

Rispetto ai tempi del re, le attività tradizionali si sono molto modificate. Oggi i pascoli che attraversiamo sono frequentati quasi esclusivamente da mandrie di vacche, anche in posti rocciosi che a prima vista sembrano poco adatti a loro; questo per via delle sovvenzioni regionali che le favoriscono. Una volta invece qui erano le pecore ad essere più numerose (le capre diminuirono già a inizio Novecento, a causa di regolamenti che ne vietavano il pascolo nei boschi). Sfruttavano ogni fazzoletto erboso, anche il più disagiato, mentre le vacche pascolavano solo nei prati più accessibili. Ad esempio, salendo dal gias delle Mosche ai laghi di Fremamorta, ad un certo punto un occhio attento nota sotto il sentiero il basamento del muro perimetrale di una costruzione, diruta da molto tempo ormai. È circondato da Rumex alpinus, una pianta che prolifica dove si accumulano le deiezioni del bestiame: anche qui, dove a malapena cresce un po' d'erba, c'era un alpeggio, come confermano le testimonianze dei vecchi pastori. Andavano persino intorno al rifugio Morelli-Buzzi, dove non ho visto che pietre. La razza era quella roaschina, apprezzata soprattutto per i derivati del latte, ricotta in primis.
I pastori transumanti di Roaschia, un paese in un vallone laterale della valle Gesso, che la GTA lambisce, erano famosi fino nelle lontane valli di Lanzo, tanto da connotare il paese, anche al di là della loro effettiva consistenza numerica. Data la scarsità di buona erba nella loro zona di origine, durante l'estate si sparpagliavano dalle Alpi Liguri fino alle Graie. Questo era per loro il periodo della solitudine, tra i pericoli della montagna, perché vivevano in alpeggio con il gregge, con al massimo la compagnia di un garzone. «La montagna è bella per farci una gita, ma stare lassù: tuoni, fulmini, di tutto», racconta un protagonista dell'ultima fase. In ogni caso, erano abbastanza accorti da programmare la gravidanza delle pecore in modo che gli agnelli nascessero al momento della demonticazione, in modo da non avere la necessità di difenderli dai predatori della montagna, come le aquile e le volpi (i lupi erano già stati sterminati a inizio Ottocento). L'estate era tuttavia anche il periodo dell'ozio, perché le pecore gravide smettevano di dare latte a inizio stagione e bisognava solo custodirle, senza altre incombenze. Diversi di loro ne approfittavano per mollare tutto il gregge al garzone e rientrare al paese, dove la moglie curava l'orto e i figli frequentavano la scuola estiva; per chi incominciava la vita adulta, questo era anche il periodo dei matrimoni. Ad ogni modo, cascasse il mondo, tutti abbandonavano le incombenze e rientravano in paese il 20 agosto, in occasione della festa patronale di san Bernardo. Era il momento di massima socialità, in cui si acuivano pur tuttavia le tensioni con i contadini, che spesso sfociavano in risse. (Questa peculiarità di celebrare con risse i momenti di festa, mi era riferita anche da mio padre, a proposito dei suoi colleghi della FIAT che provenivano da paesini di montagna.) Le due comunità erano infatti molto separate (i matrimoni misti erano rari) e in conflitto culturale: entrambe erano orgogliose della propria identità professionale e disprezzavano l'altra, seppur per motivi opposti.
Tra settembre e ottobre cominciava poi la demonticazione, che aveva come meta finale le cascine del Monferrato e dell'alessandrino, anche se soprattutto dal dopoguerra, quando i camion e i treni resero più comoda la transumanza, qualcuno si spingeva fino all'Emilia, dove i loro prodotti caseari erano molto apprezzati. Nella bassa le deiezioni delle pecore erano molto gradite come concime, prima che si diffondessero i fertilizzanti azotati. Il pastore e la sua famiglia si spostavano sul cartoun, un carro trainato da un asino, e vivevano all'aria aperta fino alle prime brine. Il viaggio durava il più possibile, perché una volta in cascina sarebbero stati dipendenti dal fieno, che era un costo. In questi periodi il pastore transumante si insinuava tra gli interstizi lasciati liberi dai contadini, a volte valicandoli anche. Per questo a Roaschia erano soprannominati gratta, da un termine gergale che significa rubare. I pastori erano ben consci di questa loro condizione di alterità rispetto ai sedentari, quasi di invasori, ma erano anche orgogliosi delle abilità che servivano per sopravvivere in queste condizioni di marginalità. Ai Santi vendevano gli agnelli e partiva la stagione della produzione di formaggi e ricotta, che vendevano sui mercati locali.
Anche se erano sparpagliati nelle cascine, non perdevano i contatti tra di loro, perché si incontravano in occasione dei mercati settimanali principali. I rapporti con i colleghi erano formati da un misto di solidarietà di corpo e concorrenza al limite della slealtà. La prima si manifestava ad esempio al momento della tosatura, a gennaio, quando era necessario lavorare in gruppo. La seconda invece nelle annuali aste per l'assegnazione dei pascoli, momenti molto dinamici in cui alleanze e conflitti nascevano e morivano. Emblematica in questo senso la già citata festa patronale di san Bernardo, in cui si cementava la solidarietà professionale in opposizione alle altre categorie, ma in cui c'era anche concorrenza tra i priori (i capi delle celebrazioni), che si succedevano annualmente, per apparire più benestanti e generosi dei predecessori. I rapporti con i sedentari, invece, erano regolati da un sistema di regole che potremmo definire di incastro: i pastori sfruttavano gli spazi lasciati liberi dagli stanziali e convivevano con essi, fino a che i rispettivi calendari non entravano in conflitto. Arrivavano in cascina ai Santi, quando erano terminati i lavori agricoli, per poi andarsene a San Giuseppe, quando riprendevano. Nei momenti girovaghi c'era conflitto: gli stessi pastori avevano la percezione di rubare l'erba ai contadini, mentre vagabondavano tra le colline, prima e dopo il periodo trascorso sulle montagne.

I contadini e i famij

Una forma di incastro tra i diversi gruppi sociali era anche l'aiuto fornito dai garzoni durante l'alpeggio e il soggiorno invernale in cascina. L'azienda del pastore era fondamentalmente familiare: la moglie e i figli lo seguivano nella transumanza in Monferrato, ed erano loro che prima di tutti lo aiutavano. Il pastore era infatti privo di radici, in quanto non aveva una comunità stabile di riferimento a cui chiedere supporto: l'unica forma sociale permanente era appunto la sua famiglia. Tuttavia non sempre era attivabile: la moglie poteva essere incinta, i figli troppo piccoli o già sposati. Si ricorreva allora a un famìj, un bambino o un ragazzo esterno. Erano normalmente figli di contadini, che erano ben contenti di avere una bocca in meno da sfamare e lo affittavano al pastore in cambio del vitto e di una paga misera (alcuni pastori tirchieggiavano anche sul vitto, ma c'era una certa mobilità, per cui i più bravi potevano scegliere le condizioni migliori). Per quella categoria sociale, era normale trascorrere qualche anno in questo modo. Ne beneficiavano insomma sia la famiglia del pastore che quella del contadino. Solo per una piccola parte, che si trovava in condizioni di svantaggio sociale, diventava una condizione permanente. Tuttavia questo non produceva integrazione tra le due categorie, perché restavano le diffidenze culturali sui diversi stili di vita.
L'affitto dei bambini e dei ragazzi non era limitato ai pastori di pecore, ma era generalizzato. I bambini, fin dall'età di otto-nove anni erano dati anche ai pastori di vacche, ai contadini più ricchi della pianura e, nel caso delle femmine, alle famiglie borghesi di città, come sërvente. Potevano anche finire negli stabilimenti tessili (fino all'avvento delle fibre sintetiche la produzione di bachi da seta e la coltivazione di canapa con le relative industrie erano molto fiorenti). Nei mercati settimanali dei centri principali c'era un'area apposita, dove i genitori potevano mettere in mostra i figli da affittare. Spesso erano loro stessi che imploravano i compratori di prenderseli in carico, per avere il sollievo di una bocca in meno da sfamare.
Le famiglie contadine da cui provenivano i garzoni conducevano infatti una vita aspra. A parte le verdure dell'orto, i prodotti alimentari coltivabili in montagna erano quasi solo segale e patate, quelli che meglio si adattano al freddo (d'altronde anche i pastori mangiavano quasi esclusivamente polenta e latte). Le famiglie contadine tenevano anche qualche animale, il cui letame serviva a concimare i campi e che aiutavano nei lavori. Anche qui la cellula economica era la numerosa famiglia patriarcale. Il padre e i fratelli maggiori erano la principale forza lavoro, ma anche i bambini piccoli erano tenuti a lavorare duramente. Le mogli si sobbarcavano pure i lavori domestici e la cura dei figli piccoli; nonostante tutto questo impegno, il loro riconoscimento sociale era pressoché nullo. Spesso il reddito procurato dall'agricoltura era insufficiente e gli uomini d'inverno dovevano emigrare per integrarlo, tipicamente verso la Francia del sud. Il viaggio di solito era condotto a piedi, perché il treno costava diverse giornate di lavoro. Le donne invece restavano a casa, dove impiegavano il tempo con le lavorazioni di lana e canapa.

Il viaggio: tuder, ebrei, italiani e increduli

Il nostro viaggio a piedi va da Vernante ad Aisone, dal Vermenagna alla Stura di Demonte, i due torrenti che delimitano le Alpi Marittime. Tuttavia parte in qualche modo dalla stazione ferroviaria di Borgo San Dalmazzo, al fondo della Pianura Padana, dove chiudiamo un anello sfruttando il treno e il bus. Accanto ai binari, è parcheggiato un carro bestiame, dove è ospitato il Museo della Deportazione. Dopo l'8 settembre circa ottocento ebrei, che provenivano da tutta Europa e avevano trovato rifugio nel domicilio coatto in una zona d'oltralpe sotto controllo italiano, attraversarono il colle della Finestra o il colle di Ciriegia insieme all'esercito italiano in rotta, sperando invano di trovare rifugio in Italia. Infatti il comando tedesco ne ordinò l'internamento in un campo di concentramento provvisorio e poi deportò verso i campi di sterminio trecento di loro, che non erano riusciti a trovare rifugio presso la popolazione locale. Noi ripercorreremo in parte la loro strada, oltre a molte altre mulattiere e carrozzabili costruite apposta per preparare la pugnalata alla schiena della Francia. Oggi sono percorse a fini turistici, paradossalmente soprattutto da tedeschi.
Questa settimana di viaggio è solo una minima frazione di un percorso molto più lungo, la Grande Traversata delle Alpi (GTA), un sentiero che percorre l'intero arco alpino piemontese, dalle valli Walser dell'Ossola fino alle montagne carsiche del Marguareis, ma che molti prolungano fino al Mediterraneo. Fu ideata negli Anni Settanta e resa popolare negli Anni Ottanta da Werner Bätzing, geografo tedesco specializzato nelle Alpi, con il risultato che oggi è percorsa prevalentemente da escursionisti della sua patria, oltre a qualche altro più esotico e pressoché nessun italiano. Naturalmente quasi nessuno la percorre tutta di fila, ma molti tornano ogni anno per percorrerne un pezzo. Quelli che incrociamo non danno l'impressione di essere dei bionici prestazionali, ma persone qualunque, che però passano le proprie vacanze o la propria pensione in un modo che valica l'inventività e la sedentarietà degli italiani. La guida tedesca più aggiornata scrive d'altronde che gli italiani «vanno in montagna solo per un picnic vicino all'auto», o per seguire la via più breve fino alla cima, aggiungo io. L'idea di viaggiare a piedi per i monti non è contemplata. Gli stessi albergatori sono stupiti che degli italiani, dei piemontesi per di più, ne percorrano una porzione. Anche un operaio forestale della zona, che al nostro passaggio sta sistemando il sentiero, ci mette un po' a capacitarsi che stiamo percorrendo un trek settimanale, anziché una gita in giornata.
Rispetto ai nostri mastri contabili, ci distinguiamo per prendercela comoda oltre ogni limite. Ci alziamo a sole levato, facciamo pause a ogni pretesto, chiacchieriamo con chi lavora sui monti, ci fermiamo a osservare tutti gli animali che incontriamo, anche quelli domestici, ispezioniamo le architetture rurali abbandonate e contempliamo le cime imbiancate dalla prima nevicata. Una gestrice si dice stupita e quasi non ci aspetta più, perché terminiamo una tappa alle 18, mentre i tedeschi a suo dire sono soliti arrivare tra le 14 e le 15. Noi però non siamo dei muli di Mario in marcia forzata: siamo qui in ferie per goderci i posti e le giornate. Che senso avrebbe superare tutto in cavalleria e arrivare così presto, senza poi avere nulla da fare per tutto il pomeriggio? Meglio trascorrere il tempo insieme ai camosci tra i dirupi, che davanti a un tè o una birra nel chiuso del rifugio.
Anche per far combaciare quattro piani ferie, abbiamo scelto la seconda metà di settembre, al lembo terminale della stagione. I rifugi e i posti tappa sono ormai vuoti e i monti lasciati ai selvatici: di escursionisti ne sono rimasti pochi e anche il bestiame sta scendendo a valle. Anche a causa dell'eccezionale siccità di quest'anno, troviamo nevai, terreno, ruscelli, laghi ormai secchi e persino delle foglie a terra, con un mese d'anticipo. L'aria è già autunnale, tersa e senza risalita di nebbie o rischi di temporali di calore. Il sole, basso fino a metà mattina e da metà pomeriggio, lascia in ombra ampie zone e dona tridimensionalità ai versanti, di solito appiattiti dalla luce zenitale di luglio. Le notti si impadroniscono del cielo già a ora di cena e offrono lo spettacolo della Via Lattea. Il rovescio della medaglia è la carenza di fiori, che qui sono particolarmente spettacolari. Le Alpi Marittime hanno una biodiversità molto superiore a quella del resto dell'arco alpino occidentale, per una serie di fattori storici e climatici. I ghiacciai pleistocenici ebbero un'estensione più ridotta che altrove, per cui la zona funzionò da rifugio per molte specie meno adatte al freddo, che poi restarono qui. Inoltre sono favorevoli alla vegetazione le elevate precipitazioni e il clima temperato, dovuti alla vicinanza del mare: da alcuni posti di questi monti si vede il Mediterraneo. Raggiungerlo a piedi è un'idea per il prossimo anno.

Vernante-Palanfrè

1 Memorabile della Deportazione, Borgo San Dalmazzo
Image

2 Tetti Colletta
Image

3 Radici di faggio
Image

4 Tetti Doni
Image


La prima tappa si svolge al di fuori del tracciato ufficiale della GTA, lungo un sentiero che la congiunge al paese di Vernante, che è un buon punto di partenza grazie alla storica linea ferroviaria Cuneo-Ventimiglia. Abbiamo infatti lasciato l'auto a Borgo San Dalmazzo e siamo saliti qui con il treno. Questa tappa è conosciuta come Via di Teit, cioè via delle frazioni rurali, perché era il sentiero di collegamento tra il paese di fondovalle e alcune borgate, oggi dirute.

Vernante è noto per essere il paese dove trascorse i suoi ultimi anni Attilio Mussino, primo illustratore di Pinocchio. In sua memoria, in giro per il paese ci sono dei murales sul burattino, dipinti nello stile delle sue tavole. Proviamo anche a fare un giro nella chiesa in pietra, ma ci arriviamo proprio mentre incomincia la messa. Ammiriamo da lontano la torre che resta del castello medievale, chiamato turusela, senza salirci. Tra le vie del paese un vecchio ci chiede se siamo ancora gli Alpini della festa di qualche settimana or sono, mentre altri si stupiscono di vederci in tenuta da escursionismo, con gli zaini e gli scarponi. Sarà che di solito gli escursionisti non partono mai dai paesi, ma salgono in auto fino all'ultima piazzola. Risaliamo per un breve tratto la strada per Palanfrè e poi imbocchiamo sulla destra la sterrata, su cui si snoda il primo tratto della Via di Teit.
La strada risale a ripidi tornanti un bosco, per giungere in breve alla cava di Bec Moler. Il toponimo viene dai primordi dell'attività estrattiva, quando era coltivata per la produzione di macine. Sopra la galleria principale si può ancora intuire la forma di qualche intaglio circolare. A colpi di scalpello si scavava una cavità attorno al pezzo scelto, che aveva una misura standard di due metri di diametro per venti centimetri di spessore. Il blocco restava agganciato alla parete con una specie di gambo, che poi si staccava da solo sotto il peso della macina scalpellata. In tempi posteriori divenne una cava di silice per l'industria vetraria, che operò in paese dal 1956 al 1975 e accelerò il processo di spopolamento delle borgate rurali che andremo ad attraversare. Offriva infatti stabilità e un reddito sicuro e permanente, non garantito dall'agricoltura montana, che andava integrata con l'emigrazione invernale verso la Francia. La perdita della vita all'aria aperta era un prezzo che i contadini erano ben disposti a pagare. Nella miniera invece i vernantini erano meno disposti a lavorare, per timore della silicosi, di cui ci si ammalava anche solo dopo quindici-vent'anni di lavoro; si ricorse perciò a immigrati calabresi. Il bricco oggi è sfruttato dai rocciatori come palestra. La galleria principale della miniera, che fora la rocca da parte a parte, è aperta. La percorriamo tutta, calpestando la sabbia bianca, fino a uno spiazzo, da cui ci affacciamo su Vernante. Ripresa la pista e giunti in cima alla rocca, dove termina la strada, tra i castagni imbocchiamo il sentiero. Presto raggiunge una dorsale e grossomodo la segue, rimanendo ora su un versante, ora sull'altro. Come al solito, la vegetazione muta repentinamente insieme all'esposizione: querce e carpini sui versanti solatii, faggi all'ombra, quindi castagni e betulle ritornati al sole. Sull'inverso molto muschio è seccato, a causa della storica siccità di questo infausto 2017, quando sia l'inverno che l'estate sono stati avari di precipitazioni. Le felci dei versanti solatii hanno subito la stessa sorte e così anche le specie arboree più esigenti in fatto di acqua, come i faggi: sul pendio a monte di Tetti Colletta a molti sono cadute le foglie prima del tempo. Più in alto già sono esplosi i colori autunnali. Le specie termofile sembrano invece essersela cavata meglio.

Facciamo una pausa solatia su una piccola radura, poco prima che il sentiero confluisca sulla sterrata che sale da Tetti Buin. La temperatura è decisamente salita rispetto a quella molto fresca del mattino; c'è inoltre una forte escursione tra sole e ombra. Il cielo è molto mosso, con grossi cumuli che corrono sospinti dal vento in quota, che ogni tanto scende anche qui con qualche folata. Ci bastano pochi minuti per raggiungere la prima frazione, Tetti Colletta, dove c'è un pilone votivo, su cui è raffigurato San Nicolao che benedice la cisterna idrica della frazione. Probabilmente la posizione sulla dorsale, se da un lato forniva una buona insolazione, dall'altro rendeva critico l'approvvigionamento idrico, in assenza di torrenti e sorgenti. D'altra parte, il vallone accanto si chiama Vallone Secco. Come suggerisce il nome, non era molto ospitale: la sua terra era così dura da lavorare, che si spopolò abbastanza rapidamente già nel primo dopoguerra per l'emigrazione verso la Francia. La prima casa che si incontra ha subito rimaneggiamenti recenti, di poco prima dell'abbandono. Innanzitutto il muro è rivestito di calce, per migliorare l'isolamento termico, tecnica diffusasi solo intorno a inizio Novecento, con la liberalizzazione della sua cottura. Inoltre all'interno si notano delle volte in mattoni rossi legati con cemento. I mattoni sono un prodotto importato della pianura, che si rese disponibile solo quando i trasporti divennero più facili. Sotto la volta c'era la stalla, che in questa posizione serviva anche a riscaldare il resto dell'abitazione, grazie al calore corporale del bestiame. Durante il freddo invernale anche le persone si rifugiavano al suo interno.
Il sentiero prosegue in quota bordeggiato da frassini secolari, le cui foglie fornivano nutrimento alle vacche negli anni magri di erba. Qualche punto panoramico offre un po' di vista sulla zona. Anche qui gli alberi sono rinsecchiti per la siccità. Attraversiamo un passaggio tra le rocce su una dorsale, chiamato la Bercia (la breccia). Passata Tetti David, che si chiamava così per la presenza di una comunità ebraica, secondo il ruas'cin del gruppo, arriviamo a Tetti Bertaina, dove ci aspetta un gruppo di escursionisti fermi per il picnic. Dai loro discorsi non sembrano dei grandi camminatori. Ci fermiamo anche noi, perché è giusto ora di pranzo. Ci copriamo ben bene, perché tra ombra delle nuvole e brezza l'aria si è fatta frizzante. I tetti di questa frazione erano fatti con la paglia della segale. La roccia calcarea di questa zona non si presta alla produzione di lose per i tetti, per cui si riutilizzava l'inutile paglia del cereale che meglio si adatta al freddo dell'alta montagna. Oggi naturalmente della paglia non è rimasto nulla, perché è troppo deperibile, come del resto delle coltivazioni di segale, per cui i tetti sono stati coperti dalla lamiera. È rimasta però visibile la struttura di rami che sosteneva la copertura. A monte della frazione c'è una baita isolata, dove è legato un cane molto timido. Al di sopra ci sono delle pareti di calcare. La frazione fu gravemente danneggiata nell'aprile del 1945 da una rappresaglia dei tedeschi, che erano alla ricerca di alcuni partigiani; gli abitanti si videro portare via il bestiame e rischiarono anche di essere fucilati, perché si rifiutavano di rivelare la loro localizzazione.

Un traverso lungo un altro filare di frassini secolari ci porta a un impluvio pelato, dove d'inverno si scaricano le slavine. La prima volta che passai di qui era inizio maggio e ancora si dovevano attraversare i resti delle valanghe invernali, neve accartocciata e abbastanza impressionante. Attraversiamo una faggeta e arriviamo alla dorsale, dove sorge Tetti Doni. Si trova nei pressi di una sorgente, come del resto le due frazioni viste in precedenza. Lì l'abbeveratoio per le bestie era quasi secco, mentre qui la portata è più generosa. Le rocce calcaree inghiottono gran parte dell'acqua nelle proprie profondità, per cui queste sorgenti sono una benedizione. Lo sa bene il pastore, che vediamo nei prati a valle del paese con le sue pecore. Su una pietra accanto alla sorgente ha infatti ingenuamente scritto “Dio vede provede”. Nel paese, tra varie case diroccate, ne sopravvive una in cui è ancora conservata l'intelaiatura di un letto. Oltre ci sono degli aceri monumentali. Il sole è tornato a fare capolino e noi approfittiamo del ritrovato tepore per una pausa, che a Tetti Bertaina era stata troncata dall'aria fredda.
Al bivio per il colle della Maddalena troviamo dei muli, che vengono a scrutarci dall'alto. Proseguendo, arriviamo all'impluvio del vallone di Pioccia, dove scorre lo stesso un rivolo d'acqua, nonostante la siccità. Il sentiero prosegue in traverso nella faggeta, dove qualche punto di pendio molto ripido è stato attrezzato con passerelle di legno. Sentiamo intanto i richiami del pastore. Dopo un altro impluvio minore, arriviamo ad un punto da cui si apprezza la visione del vallone di Pioccia. È così profondo e buio che qui una volta c'era il nevaio quasi permanente più basso di questa zona e forse anche il più meridionale delle Alpi, alimentato dalle slavine scaricate dal Bussaia. Scrivo quasi perché, secondo i vecchi, un uomo difficilmente poteva vederlo asciutto per più di due volte nella vita. Con il riscaldamento climatico e l e minori precipitazioni nevose, oggi invece è la normalità. La neve compatta era usata come riserva di ghiaccio per l'estate, prima che con il boom economico si diffondessero i frigoriferi. Un signore di Roaschia mi ha raccontato che, durante la Seconda Guerra Mondiale, un gruppo di ebrei si rifugiò qui, perché neanche le efficienti SS arrivarono mai in queste profondità. Un fornaio di Roaschia veniva ogni giorno per cuocere loro il pane. Altri si rifugiarono nelle grotte a monte di Tetti Bertaina e poterono contare anch'essi sulla collaborazione delle popolazioni locali. Da questo punto panoramico capiamo anche il senso dei richiami del pastore: sta portando il gregge all'abbeverata. Le pecore tendono a disperdersi, ma i due cani obbediscono ai suoi comandi e le radunano per dirigerle verso la sorgente.
Arriviamo a una dorsale dove c'è la base di un rudere. Di questo posto non è conservato neppure il nome, sulla nostra carta. I prati sono secchi. Solo negli impluvi è rimasto un po' di verde. Superati Tetti Cucet, arriviamo ad affacciarci su Palanfrè. Scendiamo per un sentiero sassoso e poi bradi per prati arriviamo alla borgata, che si trova su un cordone morenico, come noteremo domani, osservandola dal colle della Garbella. Al posto tappa erano increduli che degli italiani percorressero la GTA, quando prenotai. Ci trattano perciò con i guanti e ci vezzeggiano, come una specie rara. Siamo un po' come l'endemico coleottero recentemente individuato nel vallone degli Arbergh, dopo che per quasi un secolo era conosciuto solo per gli esemplari conservati in una collezione naturalistica a Francoforte. La sera due di noi conquistano ancor di più le loro simpatie gorgheggiando un repertorio vintage che ha il suo climax nei Righeira. Non chiedevo la psichedelia di 29 settembre o l'avanguardia della Mela di Odessa fischiettata, ma almeno a Lucio Dalla avrebbero potuto spingersi. Socializziamo poi con un barbuto tedesco partito da Susa, che punta a Ventimiglia. È insieme alla moglie e a una ragazza alta e magra, che, partita da sola, si è unita a loro per aiutarsi vicendevolmente.

Palanfrè-Trinità

5 Palanfrè
Image

6 Bosco di Palanfrè
Image

7 Epilobi
Image

8 Monte Garbella
Image

9 Costa Pianard
Image

10 Rocca d’Orel
Image

11 Caire di Portera
Image

12
Image

Tappa di notevole interesse naturalistico, per l'attraversamento del bosco di faggi secolari a monte di Palanfrè e il passaggio dalle montagne calcaree al massiccio cristallino dell'Argentera, con un repentino cambiamento dell'aspetto dei monti.

Quando sporgo il naso fuori dalla porta, intorno alle 7, fa freddissimo e l'aurora è ingrigita da spesse velature. Per stasera è prevista neve fino alle medie quote. Per fortuna alle 9.30, quando partiamo, la temperatura è più sopportabile, anche se comunque oggi staremo tutto il giorno coperti, pure in salita. Nel primo tratto seguiamo una strada, asfaltata fino a una piccola azienda casearia, poi sterrata. Ad un bivio imbocchiamo la pista di destra e poi il sentiero che ne taglia un tornante e attraversa il secolare Bosco del Bandito. Il nome deriva da un divieto di taglio dei faggi, documentato dal XVIII secolo ma probabilmente preesistente, in quanto Vernante era abitata già in epoca pre-romana e la colonizzazione stabile dell'alta montagna data al più tardi all'Optimum Climatico bassomedievale. Erano protetti perché riparavano Palanfrè dalle slavine che si staccano da un canalone a monte dell'abitato. Alcuni faggi sono davvero imponenti; sono ricoperti di muschio, per via di un clima più piovoso di quello del resto delle Alpi Occidentali, dove in genere la loro corteccia è spoglia. La piovosità sembra compatibile con la presenza di abeti bianchi, che però non in questo bosco ci sono, pur se tuttavia la zona sopra tetti Bertaina si chiama Costa Sapè, da sap, il loro nome patois; è quindi possibile che fossero diffusi in passato, quando il clima era più rigido. Sempre grazie all'elevata piovosità, intorno al bosco proliferano gli ontani. Diversi tronchi sono incurvati alla base, per effetto del peso della neve, che almeno una volta era assai abbondante (in quota le precipitazioni invernali erano di 300 mm, nel periodo 1921-1950). La neve copiosa ha anche reso molte chiome irregolari. Nella zona che attraversiamo noi, gli alberi non sono eccessivamente fitti, ma in compenso imponenti. Non ci sono molti rami o altri residui vegetali accumulati sul terreno, nonostante il divieto di raccolta, perché la velocità di decomposizione della lettiera è sufficiente. Nella zona bassa, il sottobosco è poco sviluppato, per via dell'ombreggiatura, anche dovuta all'esposizione a nord, mentre in alto, dove gli alberi sono più piccoli e lasciano filtrare più luce, è costituito da mirtillo e erbe, senza cespugli né felci. Il sottobosco rado è molto amato dagli uccelli, che hanno maggiori possibilità di muoversi, per cui questo bosco ne ha un'elevata biodiversità, nonostante la limitata estensione.
Di nuovo sulla strada, la seguiamo per un altro tratto. Incontriamo un pastore che sta riavvolgendo il filo che delimita l'area di pascolo delle vacche. Ci dice che quest'anno c'è pochissima erba e pochissima acqua, tanto che è costretto a scendere ogni sera verso valle per farle bere. Spera nelle quattro gocce previste per stasera per poter tirare ancora un po' in lungo la stagione; è da un bel po' che va avanti così, giorno per giorno. Poco più avanti il sentiero si stacca dalla strada e sale verso il colle della Garbella con un ampio giro. Per questo i soliti vettaroli, qui diretti al Bussaia, consigliano di trascurarlo e proseguire diritti verso un evidente canalone di frana e salirlo per la diretta, per arrivare prima.
All'imbocco un cartello segnala che sono in corso dei lavori di sistemazione del sentiero finanziati dalla regione. Il tracciato bordeggia un alpeggio e poi punta verso la base del Monte Garbella, per un largo canale colonizzato da cespugli. Qui la vegetazione ha già assunto i colori autunnali e il mio obiettivo si lascia attrarre in particolare dagli epilobi d'argento. Peccato solo che il sole sia velato, perché altrimenti anche i faggi contro il cielo azzurro sarebbero un soggetto molto fotogenico, per non parlare di aceri e frassini solitari. Arrivati quasi ai piedi di una parete calcarea, sulle cui cenge crescono un acero e dei cespugli di mugo, ci copriamo con il guscio, per ha preso a soffiare un vento freddo e teso. Questa zona sembra essere un circo glaciale pleistocenico, ma non ne sono sicuro del tutto, perché la roccia calcarea tende e perdere facilmente le forme glaciali, per via dell'erosione dovuta all'acqua. Sui tornanti che ci portano alla dorsale troviamo gli operai forestali, intenti ad allargare con un ruspino la traccia del sentiero; altri poi provvederanno a rinfrescare le segnalazioni di vernice ormai sbiadite. Ci spiegano che la regione ha finanziato dei lavori di ripristino della GTA, perché è un'attrattiva turistica per gli stranieri. Il caposquadra non si capacita che degli italiani come noi la stiano percorrendo e ci interroga incredulo.
Ancora pochi passi e siamo sulla dorsale. Il cielo resta grigio, con il sole coperto da velature, ma i colori sono lo stesso attraenti: il calcare bianco, i mirtilli rossi, l'erba dorata, i mughi verdi. Tra l'altro credo che questi mughi siano al limite del loro areale: sono infatti presenti sulle Alpi Liguri, per poi scomparire dal resto delle Alpi Occidentali, dove la loro nicchia ecologica è occupata dai cembri e dagli uncinati. Riappaiono infine nelle Alpi Orientali, dove colonizzano diffusamente i ghiaioni ai piedi delle guglie dolomitiche. Questa vicarianza geografica tra i due estremi delle Alpi è molto comune e vale per un sacco di ambienti e specie. Restiamo sulla dorsale e puntiamo verso la piramide della Rocca d'Orel, osservando delle nuvole risalire dalla pianura verso le valli. Dalla dorsale si riconosce chiaramente la forma morenica del dosso su cui sorge Palanfrè e si notano le estese tracce di bestiame intorno al dimenticato gias Pianard, quasi un'installazione di land art bestiale. Il termine occitano gias designa il letto di paglia su cui stanno gli animali in stalla e, per sineddoche, tutto il ricovero del pascolo estivo. Proseguiamo oltre il colle per cercarci un luogo riparato dove pranzare. Lo troviamo su una spalla, lungo il traverso verso il Caire di Porcera.

Da questa posizione apprezziamo molto bene la diversa morfologia dei due versanti del vallone del Sabbione. Il nostro è quasi interamente erboso, mentre l'altro è assai dirupato e quasi privo di fazzoletti verdi. La roccia sotto i nostri piedi sta infatti completamente cambiando natura. Di qua è calcare, proveniente da sedimenti della placca oceanica, molto erodibile, che produce vaste estensioni di terra, anche parecchio fertile. Di là ci sono invece i graniti e gli gneiss della placca africana, molto coriacei, che non si sfaldano. La valle Gesso è quasi interamente costituita da questi ultimi, per cui, come ben sa chi l'ha girata, presenta pochissime zone erbose adatte al pascolo, essenzialmente sui vecchi bacini lacustri di origine glaciale colmati dai detriti. Osservando il versante opposto, notiamo inoltre dei sistemi di cenge e ci chiediamo se vi corressero dei sentieri di cui si è persa la memoria. Difficile dire se ci fossero degli alpeggi su quel versante così impervio, ma camosci e cacciatori ci saranno sicuramente andati. Quando ero ragazzo, un vecchio genovese, che veniva in vacanza a Entracque fin dal dopoguerra, mi raccontò di una traccia di selvatici, che dal passo Carbonè proseguiva lungo la cresta, fino a non ricordo più bene dove.
Il sole ci regala del tepore passeggero filtrando a tratti tra le nubi. Il sentiero prosegue poi perdendo gradualmente quota fino al Caire di Porcera. Penso che la prima parte di questo toponimo indichi un luogo che precipita quasi verticale su un versante, perché lo ritroveremo anche domani in una cima dalla forma simile. Quanto ai maiali, una volta si usava allevarli insieme agli animali da latte, nutrendoli con il siero che altrimenti sarebbe stato sprecato, ma da secoli ormai questa tradizione è andata esaurendosi. Ci affacciamo sul precipizio, che fa girare la testa.
Il sentiero scende poi a stretti tornanti verso una zona molto infossata. In alto attraversa prati, ma poi compare la vegetazione legnosa, a maggioranza di ontani, la vegetazione tipica dei canaloni di slavina. Due del gruppo in avanscoperta affermano di vedere uno stambecco, che si dilegua tra i dirupi. Su una spalla, mi sembra di riconoscere un vecchio tracciato, ora sommerso dagli ontani. Questi cespugli sono molto efficaci nel far sparire i sentieri, perché i loro rami lo invadono, piegandosi sotto il peso della neve e formando un groviglio insuperabile. Il nuovo sentiero punta a una zona più riparata e meno invasa dalla vegetazione, andando ad affrontare un paio di salti di roccia, non esposti, ma che se bagnati richiedono cautela. Lungo il sentiero notiamo delle bacche di sorbo dell'uccellatore private della polpa e sputate, non so se da uccelli o da qualche piccolo mammifero in grado di arrampicarsi sui suoi rami. Dopo una serie di tornanti in faggeta, il tracciato scende poi nella fossa attraversando una zona rocciosa, dove sono state sistemate delle corde fisse. La gestrice di Trinità ci dirà che degli inglesi diretti a sud, poco avvezzi alla montagna, ritornarono immediatamente indietro una volta trovatisi al cospetto di questi passaggi. Al fondo del canalone, il torrente è ingombro di tronchi e rami trascinati a valle dalle valanghe e decorticati dal flusso dell'acqua.
Facciamo ancora una breve pausa, in un prato raggiunto da una sterrata. La temperatura è calata sensibilmente, nonostante la quota a cui ci troviamo ora sia più bassa. Proseguiamo per detta sterrata, che più a valle diventa asfaltata. Un vecchio sta osservando delle vacche e dei vitelli fermi in un prato. È il suocero del loro pastore. Ci dice che una vacca sta per partorire e sta cercando di isolarsi dalle altre. È ormai ora di portarle in pianura, perché in alto non c'è più erba, a causa della siccità. Sverneranno a Scarnafigi, nella bassa tra Saluzzo e Savigliano. Prima di arrivare al posto tappa, faccio ancora in tempo a notare un'enorme morena laterale, che riconoscerò nelle foto scattate dal Caire di Porcera. Domami dovremo risalirla. Al posto tappa incontriamo una coppia formata da uno scozzese e un'olandese, entrambi sulla sessantina. Lei ha percorso la GTA parecchi anni or sono; ora sono qui stanziali e stanno facendo delle gite in giornata. A lui mi dimentico di raccontare di Gurro, il paese della val Cannobina (lago Maggiore) in cui sostengono di discendere da una legione di mercenari scozzesi, arenatasi lì nel Medioevo non ricordo più bene perché. Per cena ci aspetta un cinghiale criminale giustiziato dai guardaparco, con la grave imputazione di essersi avvicinato alle case. Chiacchieriamo con il figlio dei proprietari, che è un buon camminatore.

Trinità-San Giacomo

13 Monte Aiera
Image

14 Serrera dei Castagni
Image

15
Image

16 Mulattiera a Tetti d’Ambrin
Image

17 Dorsale del M. Bussaia
Image

18 Lago della Piastra e Entracque
Image

19 Monte Gelas
Image


Oggi tappa di bassa quota, miscela di spunti naturalistici e antropici: saliamo per una morena wurmiana e scendiamo per un ardito sentiero dei carbonai. Il paesaggio ammirato dal traverso in quota, tra il Caire di Cabanas e il Caire della Truccia, è uno dei più spettacolari di questo tratto di GTA. Forse mal consigliati, i due tedeschi della guida rossa Rother lo evitano.

Ci svegliamo con il cielo azzurro e le montagne spruzzate di neve. I pendii sotto il colle della Garbella valicato ieri sono bianchi, l'aria è frizzante. Partiamo puntando verso il fondo della valle, passando sotto un arco in pietra. Su un muretto è seduta una coppia di ragazzi francesi in maglietta e pantaloncini; lei sta battendo i denti. Lungo il sentiero, fangoso per la pioggia della notte, ci sono tracce di un cucciolo di cinghiale, forse il figlio venuto a piangere la mamma che abbiamo mangiato ieri sera… Una passerella sul torrente ci porta a un edificio diroccato, presso cui parte il ripido sentiero che risale la morena vista ieri, chiamata Serrera dei Castagni. Il nome deve riferirsi a un periodo molto antico, perché già a metà Ottocento, quando l'agricoltura di montagna era ancora vitale, le castagne non era citate tra i prodotti del comune di Entracque.
Sarebbe impossibile sopravvalutare l'importanza del castagno nell'economia montana: basti dire che qui il termine dialettale che lo designa è arbu, cioè albero, appellativo del resto comune in molti dialetti piemontesi della bassa montagna, da qui all'Ossola. Le castagne maturano in periodi diversi rispetto all'erba o ai cereali, per cui le stagioni magre sono in genere diverse e ne sono perciò un'alternativa. Per fortuna, dopo la fine dell'economia di sussistenza, non siamo più vincolati al km 0 e possiamo importare da lontano i generi alimentari, grazie ai redditi delle produzioni industriali e del terziario: le carestie sono infatti terminate con l'inizio della Rivoluzione Industriale, e non con il progresso dell'agricoltura, come si potrebbe pensare. L'ultima carestia europea, quella irlandese della patata di metà Ottocento, è emblematica in tal senso. All'inizio, la mancata produzione non fu un problema, perché l'amministrazione inglese comprò cibo con i proventi fiscali del resto delle produzioni del regno; successivamente, subentrato un governo che lasciò gli irlandesi a sé stessi, questi non ebbero fonti alternative di reddito e morirono letteralmente di fame.
A dispetto del nome della morena, attraversiamo dunque un'umida faggeta: sia gli alberi che i massi erratici di bianco calcare sono coperti di muschio. Un cartello che mette in guardia da una curva, surreale per un escursionista, ci fa pensare che questo sentiero sia anche usato dai ciclisti come pista di downhill. Senza cali di pendenza, raggiungiamo la cresta della morena e la valichiamo, portandoci su una pista sterrata. Attraversiamo un bosco misto, dove molte specie diverse vivono affiancate; è raro vedere tanta biodiversità. Secondo la guida e la cartina, dovremmo seguire la pista fino ad Airetta, ma in tempi più recenti è stata recuperata e segnalata una vecchia mulattiera, che punta verso Tetti d'Ambrin e poi risale il bosco di Costa Ganola, per sbucare infine su una sterrata a monte di Tetti Jose, dove si riallaccia al vecchio percorso. Questo tragitto in parte segue una vecchia mulattiera, bordata di muri a secco ricoperti di muschio, in parte sembra ricalcare una canaletta per l'acqua, che serviva a irrigare i prati di Tetti d'Ambrin. Qui il bosco è misto di faggi e betulle, un'associazione insolita, in quanto i primi prediligono ambienti ombrosi, mentre le seconde solatii. Credo che queste si siano stanziate qui quando il bosco era tagliato per fare legna. Dopo la canaletta, risaliamo il corso del torrente, lo superiamo su una passerella di legno e in breve siamo alla sterrata, dove ci riallacciamo al percorso descritto nella guida.
Superato il bivio per i laghi di Steirate, facciamo una pausa nel bosco, durante la quale finiamo con il parlare di “Cuore di tenebra” di Conrad. Un topolino viene a origliare. Il sentiero prosegue risalendo a zig-zag la faggeta. Qualche punto di bosco rado ci fa notare che la neve è già quasi tutta fusa. La salita giunge al culmine ad un colletto, dove c'è una piazzola dei carbonai. Saliamo a mangiare sulle rocce soprastanti, dove un faggio dal portamento cespuglioso e contorto cerca di sopravvivere eroicamente tra le fessure. Poco più il là c'è la rocca del Caire Cabanas, di fronte tutta la dorsale che separa la valle Gesso dal vallone di Roaschia e culmina nel monte Bussaia, dalla cui cima ieri non siamo transitati molto lontani. Il Bussaia è anche conosciuto come Bec d'Orel, voce derivata da Bec dou Rei, becco del re. Il nome è figlio di una leggenda sulla bellissima Giovanna d'Angiò, la popolare Reino Jano della cultura provenzale, a cui sono anche dedicate le Gorge della Reina vicino a Entracque (con una leggenda analoga). Si narra che il figlio re di Francia si fosse invaghito di lei e la stesse inseguendo. Lei non lo ricambiava e cercò rifugio a Palanfrè. Il re, giunto a Roaschia, chiese agli abitanti dove si trovasse l'amata, ma quelli non collaborarono. Allora il principe salì sulla montagna più alta della zona, il Bussaia appunto, per vedere dove fosse, ma quella si spaccò in due facendolo precipitare.

Il sentiero dei carbonai procede in traverso sospeso su ripidissimi pendii boscati, tra rocce e faggi, un tratto purtroppo poco rappresentabile in foto, ma davvero spettacolare, di dirupi inaccessibili. Dal punto di vista dei montanari era una zona improduttiva, del tutto inadatta all'agricoltura come al pascolo. I suoi alberi vennero perciò sfruttati per ricavarne il carbone, risorsa importante in una nazione priva di miniere di questo combustibile. La produzione di carbone da legna aveva pertanto un ruolo non marginale nell'economia dell'alta montagna. I montanari non avevano infatti altre risorse oltre a quelle prodotte dalla natura locale, per cui ogni lembo di territorio era prezioso e andava sfruttato. Il legno di faggio era il più usato per produrre carbone da riscaldamento, perché genera un prodotto che sviluppa più calore. Alcuni artigiani, come i fabbri, preferivano invece legno di castagno ceduo, perché bruciava meno. La legna da carbonizzare era accatastata molto fittamente su piazzole appositamente spianate, lasciando un camino al suo centro, per poi essere ricoperta da uno strato di terra. Nella terra erano praticati dei fori, che servivano a regolare il flusso di aria; la quantità di fori era calibrata dall'abilità del carbonaio. Lo scopo era di farla bruciare in carenza di ossigeno, in modo che si decomponesse senza incenerirsi. La lenta combustione durava qualche giorno, quindi i carbonai disfacevano la catasta, eventualmente spegnendo a secchiate i pezzi di carbone ancora roventi. Chissà quanto monossido di carbonio avranno respirato, oltre che a fuliggine, particolato, aldeidi, ammoniaca e altri composti tossici. Nei vecchi dagherrotipi hanno sempre la faccia nera.
Intravediamo il lago artificiale della Piastra tra le foglie diradate di un autunno reso precoce dalla siccità: a terra ci sono infatti molte foglie, anche verdi. Ci affacciamo ad ammirare il lago da un poggio panoramico, da cui vediamo anche Entracque a valle. La sua conca è molto boscosa, nonostante abbia fianchi impervi, anche per effetto di rimboschimenti effettuati negli anni Venti-Trenta del Novecento, per rendere la valle più gradevole per i regnanti, che soggiornavano a Sant'Anna di Valdieri d'estate. Dal lato opposto ci sono invece i severi dirupi del vallone della Rovina, da dipinto romantico. Sul pendio a monte del pianoro, un intrico di rocce aguzze e faggi. Il sentiero, visto da qui, sembra proseguire in quota, puntando ad altri poggi protesi sui precipizi. Il posto è così bello, il sole che ha preso a filtrare tra le nuvole così mite, che facciamo una nuova pausa, nonostante siamo appena ripartiti. Nel proseguio il sentiero tiene fede alle aspettative e traversa senza scendere; restando molto panoramico, costeggia un primo poggio e poi un secondo. Affacciandoci su quest'ultimo, ci troviamo di fronte il Gelas innevato, che riluce sopra la penombra della valle senza sole. La visione è degna dei migliori sogni di Friederich, anche per il cielo cupo che sovrasta la brillante cima imbiancata.
A questo punto il sentiero, più che scendere, rotola rovinosamente a valle, per un espluvio ripidissimo. Probabilmente è l'unica via possibile al riparo dalle slavine e dalle piene (ad un certo punto costeggiamo un canalone sufficientemente orrido). È affrontato un po' per la diretta e un po' a tornanti strettissimi, che sarebbero da giramenti di testa, se affrontati alla bersagliera. Verso il basso c'è un tratto attrezzato con corde metalliche, ma con il fondo asciutto sono superflue. Una serie di tornanti più regolari in faggeta ci porta sul fondo del vallone, a un bivio nei pressi del ponte della Rovina. Ci fermiamo cinque minuti, per dare sollievo alle ginocchia e consumare le ultime provviste.
Il sentiero costeggia il torrente. Ci sono altre piazzole dei carbonai, ma anche delle abitazioni con miseri terrazzamenti. La vita in questa forra doveva essere assai grama, tra la scarsa insolazione, l'umidità penetrante e la poca terra strappata alle rocce. Tra le svolte del torrente, in qualche punto compare nuovamente il Gelas. Mi faccio tentare da un ponte pericolante per una foto scenica, secondo il neologismo di uno del gruppo, ma non appena appoggio il primo piede sulle assi marce, mi ritraggo schizzando come un gatto sotto la doccia. L'ora abbondante che ci separa da San Giacomo sembra non finire mai, tra saliscendi estenuanti e il menzognero cartello al bivio. Ad ogni modo, alcune sculture fatte con i sassi anticipano il campeggio e poi il posto tappa.
A San Giacomo c'è una delle case di caccia dei reali. C'era inoltre un ricovero per i passeggeri diretti nella contea di Nizza per il colle delle Finestre. La strada, che percorreremo domani, ha oggi l'impronta delle opere del Vallo Alpino, ma fu resa carrozzabile già nel 1793; il colle rislutava già menzionato nel 1041. Prima che fosse costruita la rotabile del colle di Tenda, questa era la principale via di collegamento con la contea di Nizza. Da un punto di vista naturalistico, c'è da segnalare che qui vicino c'era un lago che ha completato in tempi recenti il processo di interramento. Nell'Ottocento era conosciuto come lago di Moncolombo.
Il gestore è di origine roaschina e ci racconta un sacco di aneddoti su quel vallone: i pastori di pecore, gli emigranti che aprivano latterie a Torino, gli aerei caduti (di cui tiene delle foto in bella mostra e su cui si dilunga in minuti dettagli, in particolare sui saccheggi delle spoglie). Ci dà anche informazioni false e tendenziose: secondo lui, la lana roaschina serviva a fare i drappi prodotti a Entracque; leggo invece altrove che la lana delle roaschine era di cattiva qualità, per cui per i drappi era piuttosto importata da Marsiglia. Ci dice anche che la frazione in cui c'erano i filatoi si chiamava Fabbriche, come quella di Voltri in cui c'erano le cartiere, ma questo toponimo purtroppo non è riportato sulla mia cartina. Si dilunga anche a parlare dei personaggi pubblici, soprattutto politici di primo piano, che frequentano questo angolo remoto di Piemonte. Nonostante la sera sia fredda e umida, esco lo stesso a fare una puntata fino a un luogo buio, per ammirare la Via Lattea, che solca il cielo allo zenit.

San Giacomo-Lago del Chiotas

20 Vallone Gesso della Barra
Image

21 Monte Gelas
Image

22 Colle di Fenestrelle
Image

23 Stambecchi al colle di Fenestrelle
Image

24 Cima dell'Agnel e Caire dell'Agnel
Image


Insieme alla successiva, la tappa più alpina per la doppia visuale su Argentera e Gelas. Probabilmente anche quella con i paesaggi più belli.

Prima di colazione scendono per la strada militare alcune vacche bianche. Pensiamo che sia l'avanguardia della demonticazione, invece il pastore le viene a riprendere: sono scese di propria iniziativa, forse esasperate dall'erba sempre più secca, che quest'anno hanno dovuto brucare. Molto prima che il sole si spinga fino a queste profondità, nel fresco dell'ombra, ci incamminiamo lungo la rotabile militare che risale il vallone del Gesso della Barra, diretta al Pian del Praiet. Il sole, per la verità, non è molto sopra di noi, sulle balze di erba e roccia alla nostra destra. Un fuoristrada dei pastori fa su e giù, poi ne scarica uno che va a radunare delle vacche, che stanno pascolando lungo il torrente, uno dei pochi posti dove è rimasta un po' d'erba verde. Ne superiamo un affluente secco, sulla cui riva un salice è divenuta una presenza incongrua. A una piazzola detta Piazzale dei Cannoni, perché nel 1940 era la sede di quattro mortai, un pannello ricorda i profughi ebrei, di cui c'è il memoriale nella stazione di Borgo San Dalmazzo, che dopo l'8 settembre percorsero questa strada, nella speranza di un illusorio rifugio in Italia. Nei pressi di un doppio tornante oltrepassiamo la linea d'ombra e ci fermiamo a toglierci gli strati termici. Un vecchio diretto al Soria-Ellena ci raggiunge e supera. Siamo ai piedi del Gelas, dove durante il Pleistocene scendeva la colata glaciale, come si nota dalla presenza di rocce montonate sul pendio a valle della cima. La vegetazione arborea è scomparsa da un po', suppongo per ragioni di sfruttamento pascolivo, e un sorbo montano ne è una delle ultime presenze solitarie. Più in alto ci sono solo dei pini cembri, che come al solito sono cresciuti in fessure, dove la nocciolaia nasconde e poi dimentica i semi delle sue pigne.
I fianchi del vallone sono molto rocciosi e ripidi. Per questa conformazione, la zona fu scelta come luogo più adatto al ripopolamento di stambecchi, negli Anni Venti. I primi tentativi furono infruttuosi, per i motivi più disparati, non ultimo le pallottole dei bracconieri, che trovarono facili prede in animali che non temono l'uomo. Si dovette pertanto cambiare strategia più e più volte, fino a quando la costanza fu premiata dal successo.
La strada continua a guadagnare quota, attraversando una zona di massi dove hanno la tana delle marmotte. Vediamo anche una vipera, che sguscia via da un tornante, e dei camosci sulle rocce a monte. Attraversiamo una zona di sorgenti, ormai in vista del Soria-Ellena, per poi raggiungere in breve il bivio. Qui vediamo un branco di giovani camosci, che al nostro arrivo si allontana, ma senza agitarsi, risalendo con calma un cono di deiezione sotto una parete rocciosa. Anzi, un adulto se ne resta tranquillo a brucare in riva al torrente e si fa pure fotografare. Alcuni codirossi ci svolazzano intorno. Sono tra i pochi passeriformi che riesco a riconoscere grazie al vistoso colore, e al fatto che li vedo anche in città, dove migrano durante la stagione fredda.
La strada principale prosegue in direzione del colle della Finestra, sullo spartiacque alpino, dove oggi corre il confine con la Francia. Fino al secondo conflitto mondiale, invece, anche una zona delle alte valli della Vèsubie e della Tinée era italiana. Questo perché, quando Vittorio Emanuele II cedette la contea di Nizza alla Francia, in cambio dell'aiuto concesso nella Seconda Guerra d'Indipendenza, la riserva reale di caccia rimase interamente sotto il controllo del neonato Regno d'Italia, insieme all'alta val Roya. Con il trattato di pace del 1947 passò alla Francia e, dopo una lunga gestazione, divenne il nucleo del parco del Mercantour. La comunicazione tra questa zona e il resto del paese era molto difficile, perché possibile solo su strade di alta montagna come questa e solo nella bella stagione. Scrive il Casalis: «Nel passaggio di quei due colli [del Sabbione e delle Finestre, n.d.r.] s'incontrano gravi rischi, massime nell'invernale stagione; che vi soffiano bene spesso terribili venti capaci di atterrare uomini e bestie: onde i passeggieri nel cattivo tempo si uniscono diversi insieme per prestarsi vicendevole soccorso, e a malgrado di siffatta precauzione, accade talvolta che vi rimangano vittime. Un altro pericolo si è quello delle valanghe della neve, che nei giorni umidi staccandosi dai superiori monti, rotola precipitosamente sino al basso in enormissima quantità riunita, e niuna forza si potrebbe opporre per allontanarne il pericolo, e gli infelici che passano in quell'istante vi restano sepolti sino alla primavera, al liquefarsi della neve ammassata.»

Proseguiamo ancora per pochi minuti e facciamo una pausa su un roccione piatto a valle del sentiero, in magnifica posizione panoramica sul vallone e sul Gelas. Da qui al colle il panorama non farà che ampliarsi. La salita prosegue a tornanti regolari. Ho l'impressione di essere su una morena vegetata, perché ci sono massi di tutte le dimensioni, mentre sui coni di deiezione che vedo sotto le pareti sono minuti e uniformi. Uno del gruppo che prima stentava a vedere i camosci vicini, riesce a individuare un minuscolo ricovero militare al colle di Finestra, pressoché invisibile nel buio dell'ombra. Acume selettivo. In senso opposto scendono due ragazzi tedeschi seguiti a ruota da due signore di mezza età. Arriviamo a un gias diruto, costruito al riparo di un dosso morenico. Ne è rimasto solo il perimetro di base, ma accanto si è conservata la vegetazione nitrofila, seccata dalla siccità. Qui pranziamo e ci stravacchiamo al tiepido sole.
La mulattiera continua a guadagnare quota con regolarità, arriva in vista di un cocuzzolo su cui pascolano dei camosci e rimonta l'ultimo dosso, dove ci sono i resti di un ricovero militare. Siamo ormai alla quota del colle, da cui ci separa un piccolo avvallamento. L'altro versante è molto pietroso; il pendio non scende subito, ma forma un pianoro roccioso ingentilito da un laghetto. Facciamo una breve pausa, prima che l'ombra della montagna ci raggiunga. Sulla riva del laghetto vediamo camminare quello che ci sembra un piccolo camoscio. Questo punta diretto verso di noi. Ne vediamo poi un altro che rimane sulle rocce più a monte. Quando si avvicina, ci accorgiamo che è una giovane femmina di stambecco. Ci viene a due passi a mendicare il nostro pane, manco fosse una capra domestica. L'altro la imita. Restano più discosti, abbarbicati su un roccione, dei cuccioli di quest'anno.
Intanto l'ombra ci ha raggiunto e decidiamo perciò di partire, prima di cominciare a sentire freddo. Percorriamo l'avvallamento e ci affacciamo su ciò che resta del bacino del Chiotas, prosciugato dalla siccità, e sulla mole dell'Argentera, che sta per finire in ombra. È anche ben visibile il canale che dovremo risalire domani verso il colle del Chiapous. Un paio di camosci stanno pascolando presso la mulattiera e si allontanano tra le pareti di roccia, al nostro arrivo. Tento di fotografarne uno contro l'Argentera, ma ne colgo solo il fondoschiena. Uno stambecco con due corna enormi, forse un vecchio rimasto isolato, invece ci ignora. La mulattiera traversa, allontanandosi dalla parete, e torna perciò al sole. Ne beneficiamo su un poggio, dove mangiamo la mela del cestino del picnic. Mentre il pendio di salita era erboso e morbido, questo versante è molto dirupato, per cui il tracciato deve seguire un percorso molto articolato per trovare una via percorribile, anche con qualche risalita. La discesa termina su un pianoro erboso costellato di grossi massi, dove alcune marmotte assistono indifferenti al nostro passaggio. Se ne stanno così ferme che alcune le vedrò solo ingrandendo le foto. Sbuchiamo sulla strada che costeggia l'invaso e la percorriamo in direzione del rifugio. Mi attardo lungamente per fotografare la bellissima luce di quest'ora tardo-pomeridiana. In un tratto c'è del ghiaccio. Anche il livello del lago Brocan è sottozero.
Abbiamo qualche timore sull'accoglienza, perché delle persone incontrate qualche giorno fa hanno avuto dei disguidi. Scopriamo però che il gestore è molto gentile e disponibile ad ascoltare le nostre esigenze; i problemi erano solo nati dalla sua idiosincrasia per l'internet. Il rifugio è moderno, perché fu costruito dopo che il precedente fu sommerso dall'invaso artificiale. Tuttavia è pur sempre stato costruito prima che gli escursionisti cominciassero a lavarsi e a respirare. La doccia, in particolare, è ampia, ma ha a disposizione una spazio minuscolo tra la porta e il box, dove poter sistemare l'abbigliamento e le ciabatte; bisogna pertanto elaborare un piano accurato per potersi lavare senza doverne uscire nudi. Comunque l'acqua è caldissima e non serve il gettone. La sera è più mite che nei giorni precedenti, nonostante siamo più in alto. Il faro del rifugio oscura la Via Lattea e non ho voglia di indossare gli scarponi per cercare un luogo buoi dove ammirarla.

Lago del Chiotas-Terme di Valdieri

25 Rifugio Genova
Image

26 Lago del Chiotas
Image

27 Vallone di Lourousa e Monte Matto
Image

28 Larice
Image

29 Lagarot di Lourousa
Image

30 Canalone di Lourousa
Image

Tappa su mulattiere di origine militare. Scendendo il vallone di Lorousa, non avrei scommesso un centesimo che interessasse anche i pastori, ma poi ho scoperto che mi sbagliavo: una volta le pecore pascolavano attorno al Morelli-Buzzi, per quanto possa sembrare incredibile. Gli ambienti attraversati sono molto severi e austeri.

Per questa mattina avevo programmato un'uscita fotografica all'aurora. Mi ero segnato gli azimut e gli orari del sole nascente sul notes. Ieri sera, tuttavia, il livello infimo dei laghi mi aveva convinto a lasciar perdere. Tuttavia, stamattina vedo l'Argentera incendiarsi dalla finestra del bagno, mentre mi sciacquo la faccia (radermi è fuori discussione, con quest'acqua gelida) e non resisto alla tentazione: corro in stanza, indosso un paio di pile, afferro la fotocamera e mi lancio fuori al gelo. Senza allontanarmi dal rifugio, corro freneticamente a destra e a manca, alla ricerca dei soggetti e della luce migliore. Qualche scatto lo porto a casa.
Il lago è talmente basso che potremmo evitare il giro dalla diga, percorrendo invece la strada sul lato dell'Argentera, normalmente sommersa. Decidiamo però lo stesso di seguire la strada principale, per affacciarci dalla diga verso valle, spettacolo che ricordo impressionante. Non si vede invece il vecchio rifugio, forse coperto dai sedimenti. Il lago, con quello sottostante della Piastra che abbiamo visto qualche giorno fa, forma un sistema che può sia generare energia che immagazzinarla, attraverso un sistema di pompe e turbine che possono mandare l'acqua in entrambe le direzioni. Quando partiamo, fa ancora talmente freddo che indosso i guanti e il cappello. I rivoli ghiacciati sulla strada sono sempre lì da ieri sera. In mezzo alla sterrata, giacciono delle bacche di sorbo succhiate, come quelle di qualche giorno fa. Superiamo il troppo pieno, inutile come non mai, e andiamo a finire sulla strada asfaltata, finché dopo una breve galleria sbuchiamo finalmente al sole, poco prima di finire sulla diga. La temperatura diventa subito piacevole.
Oltrepassato l'altissimo muro di cemento armato, imbocchiamo la mulattiera, che sale con un'interminabile serie di tornanti. Ogni tanto si intreccia con il tracciato di una strada più ampia, abbandonata o forse solo sbozzata e mai realizzata. I fazzoletti erbosi sono molto magri e prevale la pietraia. Ci fermiamo ad osservare alcuni cuccioli di stambecco, che mantengono la distanza di sicurezza. Alcuni si allontanano, uno si sdraia su un masso e aspetta che passiamo oltre. Verso quota 2400, la mulattiera, che si era tenuta sul versante orografico sinistro, traversa e si sposta sul versante opposto, per poi rimontare a zig-zag una zolla erbosa. Peccato non essere con un pullman da cinquanta persone: il serpentone sulla serpentina avrebbe prodotto una bella foto… In alto le pietraie diventano ancora più estese, fino a far scomparire quasi del tutto i già stentati prati. Superato il bivio per il passaggio del Porco, oltrepassiamo una spalla che ci immette in una grande conca di sfasciumi. Alle nostre spalle è intanto di nuovo spuntato il Gelas. Con un traverso, raggiungiamo il colle del Chiapous, dove ci fermiamo per una pausa. Ci accomodiamo presso un diruto ricovero militare, su un prato di erba pungente, al sole e al riparo dalla brezza fresca che soffia da nord.

Il vallone di Lourousa, che ci apprestiamo a discendere, è ancora più pietroso del canale di salita, se possibile. Il panorama è dominato sullo sfondo dal Monte Matto, che potrebbe chiamarsi così per via delle slavine, che i suoi ripidi canaloni riversano copiosamente a valle delle Terme, anche in periodi non sospetti, rendendole inaccessibili per gran parte dell'inverno. Il sentiero di discesa è molto sassoso e lo dobbiamo perciò percorrere a piccoli passi, per evitare di prenderci una storta o di rotolare su una pietra mobile. È una purga moderata. Non so perché, ma mi ricordo bene che, quando anni fa lo percorsi in senso inverso, in questo tratto tentavo di spiegare le meraviglie della regola di Scheimpflug al mio compagno di viaggio. Al Morelli-Buzzi ci attende una famiglia di stambecchi. Il maschio sta leccando il sale dalle pietre sul piazzale dove ci sono i tavoli esterni, mentre la femmina e il cucciolo se ne stanno più in disparte. Il maschio non mostra timore, ma mantiene comunque uno spazio di sicurezza tra noi e lui. Ad un certo punto notiamo che la femmina perde bava dalla bocca. Ci chiediamo se sia dovuto al sale che stanno leccando o a qualche malattia (ad esempio la rabbia dà questi sintomi). Negli ultimi anni il numero di stambecchi si è ridotto per l'aumento della mortalità infantile. Arriva poi un signore francese molto chiuso e solitario, che sta facendo un giro appoggiandosi ai locali invernali dei rifugi; ieri sera era al Remondino, ha svalicato dal passo del Brocan e stasera dorme qui. Il rifugio ha dovuto chiudere anche per mancanza di acqua, ma dopo la pioggia di qualche giorno fa, oggi la sorgente è di nuovo attiva e butta acqua ghiacciata.
La discesa prosegue tra altre pietraie, fino ai primi imponenti larici secolari, che sopravvivono isolati in questo ambiente estremo. Ce ne sono di analoghi in altri posti simili, come ad esempio la val Morta che sale dal Piano del Valasco all'omonimo colletto. Il sole sta nel frattempo per scendere dietro la pareti alla nostra sinistra. Meno male che il sentiero si mantiene sul lato meglio esposto: all'ombra non ci stiamo che per pochi istanti, quando ci avviciniamo al centro. Dove tornano finalmente ad apparire dei prati, incrociamo una coppia di trentenni francesi diretti al Genova. Lei sembra molto provata dalla salita e ci descrive come una prova terribile la piccola colata di pietre, che dovremo superare a breve. Non so a che ora siano partiti per essere ancora qui a metà pomeriggio o a che ritmo abbiano proceduto; facciamo due conti e vediamo che non arriveranno al rifugio che al crepuscolo o anche più tardi.
Procediamo in discesa e superiamo la piccola colata di pietre, ben assestate. Siamo in vista del Lagarot di Lourousa, un minuscolo laghetto, profondo appena un palmo, dove i larici cominciano ad infittirsi. Si trova ai piedi del famigerato Canalone di Lourousa, dove una volta c'era un nevaio permanente, da cui passò anche Coolidge durante la prima ascensione dell'Argentera. Ci è morta più gente che nella campagna di Russia, perché, su un pendio così ripido, basta un nonnulla per perdere la presa sulla neve, e a quel punto non c'è più modo di fermarsi, come ci spiegherà l'albergatore delle Terme. Su un masso ci sono alcune lapidi; la più vecchia è di due alpinisti torinesi, morti negli Anni Cinquanta del Novecento, a cui è stato intitolato un bivacco nel Parco del Gran Paradiso. Sopra il canalone troneggia il parallelepipedo arrotondato del Corno Stella, una impegnativa cima, una lama di roccia. Ci fermiamo a fare merenda sul poggio solatio a monte del laghetto, che durante la nostra permanenza sarà raggiunto dall'ombra.
Restiamo ancora brevemente tra larici e radure, per poi entrare in un bosco continuo, prima di larici, più in basso di latifoglie con prevalenza di faggio, separati da una zona intermedia di aceri. Il sole frontale, ormai poco sopra la Testa del Claus, filtra attraverso le foglie e le rende traslucide. Sul pendio che conduce alle terme, odiamo un brontolio salire dal fondovalle. Scendiamo un paio di tornanti e il rumore si delinea: sono i campanacci delle vacche in transumanza. Le vediamo anche da un poggio, sui tornanti a valle dello stabilimento. Quando arriviamo alla strada, dalla traccia di fatte capiamo che arrivano dal Valasco. L'Hotel Royal non sembra sprangato, ma non c'è nessuno nella piscina. Fu voluto da Vittorio Emanuele II in persona, quando scoprì la zona e la elesse a suo terreno di caccia, ma le terme erano frequentate dai Savoia fin dal Cinquecento, quando una duchessa ebbe miracolosi benefici alla salute da un soggiorno. Noi alloggiamo in un albergo più modesto, dove però avremo la miglior cena del viaggio, leggera e gustosa; sopratutto la doba, lo spezzatino occitano cotto nel barbera, lascerà il segno.

Terme di Valdieri-Malinvern

31 Pian Valasco
Image

32 Pian Valasco
Image

33 Vallone di prefouns
Image

34 Lago di Valscura
Image

35 Lago di Valscura, Opera Artifizi H e Argentera
Image

36
Image

37 Lago Malinvern
Image

38 Lago Malinvern
Image

La tappa di oggi è per me la più risaputa del trek, visto che ho girato la conca del Valasco in lungo e in largo negli anni scorsi. Anche se in genere prediligo montagne più verdi, adoro questa zona. Purtroppo, per non fare troppo tardi, saremo costretti a rinunciare alla splendida mulattiera tra i laghi del Claus e di Valscura. Il vallone di discesa sarà un po' cupo, forse anche per la luce sfavorevole.
La mattina è molto meno fredda di ieri. Sarà la quota, sarà che le temperature sono in risalita, dopo il flusso freddo della scorsa settimana. In questo viaggio ho portato con me un termos, al posto della solita borraccia, da farmi riempire al mattino con della tisana calda. I primi giorni è stato molto utile, mentre da ieri è diventato un di più da socializzare a termine pasto; al Morelli-Buzzi ho avuto bisogno e ho apprezzato la sorgente fredda. Sarà così anche oggi.

Ci incamminiamo lungo la strada militare diretta al Valasco. Al primo tornante, la lasciamo per seguire il vecchio sentiero, che conserva qualche memoria del passato, come lapidi ed edicole votive. In una zona spoglia, che dà l'impressione di essere una via preferenziale delle slavine, si ricongiunge alla strada, dopo averla lambita varie volte. Il Valasco è accessibile solo in primavera, a neve trasformata, a causa di questa zona pericolosa. Giunti alla cascata immediatamente a valle del piano, un paio di noi si fermano a fotografarla, mentre io mi dirigo deciso a dissetarmi alla sorgente.
Al Valasco pascolano un gregge di pecore e vacche da carne, sullo stesso terreno. Una volta non era raro che vacche e pecore dividessero il pascolo, con le seconde relegate però in terreni marginali, dove le prime avevano difficoltà di accesso. Ci dirigiamo all'ex casa di Caccia di Vittorio Emanuele II. Come del resto tutte le montagne qui intorno e anche l'edificio del Questa, sono di proprietà di un privato, di cui ci hanno diffusamente parlato nei giorni precedenti. Dopo decenni di degrado, all'inizio degli anni Duemila è stata ristrutturata e trasformata in rifugio; più recentemente è stata anche ripristinata l'originaria intonacatura esterna a bande rosse e gialle. L'effetto è sul genere tamarro, ma d'altronde non ci si possono aspettare gusti raffinati da una persona che si divertiva ad sterminare animali che gli venivano mandati addosso in preda al terrore. Il piano non ha solo rilevanza turistica e zootecnica, ma anche naturalistica, come del resto molte zone analoghe. Si tratta di un classico piano di sbarramento glaciale, che in origine era un lago, poi colmato dai detriti e divenuto zona umida. In anni recenti, è stata qui scoperta una cimice d'acqua caratteristica dell'Europa Centrale e Settentrionale.
Al rifugio c'è una classe di quinta elementare in soggiorno. Al nostro arrivo i bambini scorrazzano felici sui prati; quando riprendiamo la marcia, le maestre li hanno radunati e li stanno facendo cantare delle canzoni atroci. La nostra solidarietà va a quel fanciullo che si è ritirato in disparte e sta piangendo a dirotto.

Risalendo la scarpata, raggiungiamo la strada, qui dal fondo molto sassoso, che guadagna quota restando sul bordo del piano. Raggiunge in breve il piano superiore, che è anche il limite massimo del pascolo. Da qui in poi, infatti, le montagne diventano rocciose e non hanno più terreni adatti al bestiame, a parte minimi fazzoletti. La strada militare, che è diretta ai laghi di Fremamorta con un lungo giro, sale molto regolare a tornanti. In qualche punto notiamo il tracciato della precedente mulattiera. Dai giornali d'epoca sembra di capire che fosse stata in origine costruita per Vittorio Emanuele II, già nei primi anni della riserva. La sua importanza strategica fu subito colta dai comandi militari, per cui già nel primo Novecento fu resa carrozzabile. Erano gli anni in cui l'Italia era alleata con l'Austria-Ungheria, in seguito agli screzi con la Francia per questioni coloniali. Le opere furono abbandonate allo scoppio della Grande Guerra, quando le alleanze cambiarono e i combattimenti avvennero sulle Alpi Orientali. Un primo grande lavoro di ripristino fu fatto sul finire degli Anni Venti (una incisione in val Morta riporta il nome del battaglione Alpini Dronero e l'anno 1929) e ancora successivamente, quando fu costruito il lungo tornante con la galleria, per permettere il trasporto dell'artiglieria pesante. La strada e le strutture furono manutenute ancora fino alla fine della guerra, in previsione di un attacco che stavolta non si verificò mai, perché le truppe alleate preferirono risalire la penisola.
Arrivati al bivio a quota 2000 m, all'ombra di un larice secolare teniamo un conciliabolo. Abbiamo infatti due possibilità. La prima è continuare a seguire la strada, che punta direttamente al lago di Valscura. La seconda è di arrivarci per un giro più lungo, che bordeggia il lago del Claus, intrigante per la forma convoluta, e poi percorre un magnifico tratto di strada, mirabilmente costruita in una pietraia caotica. La voglia di prendersela più comoda e non di arrivare in rifugio con l'acqua alla gola alla fine prevalgono e saliamo per la diretta. Quasi subito ci dividiamo in due gruppi: io, che ho già percorso la strada un paio di volte, seguo la precedente mulattiera, mentre gli altri seguono filologicamente la via nuova, che è più deteriorata. Le rocce sono rossastre, per la presenza di minerali di ferro. Secondo la guida di Boggia da queste parti la declinazione magnetica è anomala. Da questa zona si vedono bene il selvaggio vallone di Prefouns e la val Morta, che la strada risale a svolte, diretta al Colletto del Valasco.
Una volta che ci siamo ricongiunti, proseguiamo lungo la rotabile, che, tra gli ultimi larici e cembri, con alcune svolte ci porta in vista dei ruderi di casermetta, subito prima del lago. Proprio all'ultimo sbucano le vette dell'Argentera e della Cima di Nasta, oltre la valle del Gesso della Valletta. Ci fermiamo su una roccia montonata nei pressi dell'emissario. L'impressione che ho è che questo lago, come quello del Claus e delle Portette, ma anche la conca del vallone di Prefouns, fossero i circhi glaciali wurmiani, da cui scendevano le seraccate verso i due pianori del Valasco. La voglia di fare una corsa alla mulattiera nella pietraia è tanta, ma prevalgono la pigrizia e il desiderio di un giro fotografico attorno al lago. Lungo le sponde vediamo transitare e anche fermarsi dei ciclisti e degli escursionisti. Si vedono due strade proseguire. La prima che costeggia il lago e punta a un primo grosso ricovero e poi a un secondo sullo spartiacque (come detto allora il confine correva più a valle). La seconda invece lascia subito le sponde e rimonta dei pendii erbosi. Consultata la carta, capiamo che dobbiamo seguire quest'ultima.
Attorno al lago ci sono i resti di parecchie casermette. Il lago di Valscura era uno snodo importante della linea difensiva, dove c'erano depositi di materiali, armi, munizioni e alloggiamenti per le truppe. La Bassa del Druos era infatti considerata una via preferenziale di attacco, data la facilità di accesso su ambo i versanti. Per questo furono edificate opere di retrovia, per creare un secondo argine. Queste in verità erano previste su tutto il confine, ma i lavori andarono a rilento e molti progetti non furono mai realizzati.

Il tragitto prosegue con una lunga serpentina tra magre zolle erbose e pietraie rosse. Il panorama si amplia e modifica a mano a mano che saliamo e riusciamo a vedere oltre le dorsali vicine. Per poco non vediamo dall'alto la mulattiera nella pietraia. Al colle troviamo ai nostri piedi un vallone molto più pietroso di quello salito, dove spicca un fazzoletto verde in un vallone laterale sospeso, da cui credo passi il sentiero diretto a Sant'Anna di Vinadio; in lontananza scorgiamo le familiari cime di Rocca la Meja e del Monviso, oltre a molte vette ignote. Rispetto alla valle salita, questo vallone ha meno punti notevoli. Ci fermiamo sulle rocce, godendoci il pallido sole, filtrato da alcune velature.
Nel primo tratto di discesa ci aspetta invece l'ombra della Testa Malinvern. Quasi subito scorgiamo un camoscio adulto con due cuccioli, che si rifugiano sulla parete della cima. Un quarto rimasto più in basso invece non si allontana e ci soffia. Soffiare è un segnale di avvertimento comune a molti animali e significa più o meno «Stai lontano» (penso sia per questo che molti gatti sono spaventati dall'aspirapolvere). È la prima volta che un camoscio mi soffia contro di giorno: di solito si allontanano e basta; solo una notte due mi avevano avvisato così. Mi è capitato più spesso con gli stambecchi, che a volte scaricano anche delle pietre e, secondo la gestrice del rifugio di stasera, caricano pure.
Tornati al sole, proseguiamo la discesa in un ambiente spoglio, di soli sassi, senza un filo d'erba. Il fondo del sentiero è sassoso, irregolare, scomodo. Il paesaggio migliora quando siamo in vista del lago Malinvern, di cui prima appare solo la porzione affacciata sul cordone morenico che lo sbarra a valle. Da questo lato, spicca un dosso di roccia levigata dai ghiacciai, presso la cui cui sommità è cresciuto un cembro, in una di quelle fessure usate dalle nocciolaie come riserva dei suoi pinoli. Superato il cordone, riusciamo ad ammirare anche il resto del lago, che a monte è chiuso da aguzzi picchi rocciosi. Sul dosso affacciato a valle, c'è un esiguo prato, dove ha pascolato del bestiame. Ci fermiamo qui a goderci l'ultimo sole. Dal nostro stesso sentiero scendono quattro escursionisti con zaini di giornata. Una signora del gruppo ci dice che se il paradiso fosse come qui, lei si arruolerebbe. Forse un po' piccolo come paradiso, in una zona abbastanza inospitale.
Raggiunta la sommità del dosso, ci affacciamo su una valle già in ombra, dai contorni un po' tenebrosi, senz'altro non ameni. Tra l'altro, la luce piatta dovuta all'ombra dei monti e alle velature e l'atmosfera un po' fosca rendono la visione ancora peggiore. Il sentiero discende il ripido pendio a tornanti. Il fondo molto sassoso mi suscita una certa pena e compassione per le povere vacche, che lo hanno dovuto percorrere in su e in giù per andare a brucare due fili d'erba striminziti. Anche qualcuno di noi è in sofferenza. Verso il fondo del vallone, pur in assenza di cartelli capiamo che a un bivio dobbiamo prendere a sinistra, verso la traballante passerella che valica il torrente. Una volpe si sta allontanando dalla zona, una conca assai pietrosa, con poca erba, dove pascolano delle vacche. Ad uno ad uno affrontiamo la passerella (il più pesante per ultimo) e poi tutti insieme l'ultima salita che ci porta al rifugio. Sono le 18.30 e siamo arrivati giusto in tempo per la cena.
Mangiamo così presto perché il rifugio ha carenza di elettricità e la gestrice vuole portarsi avanti con il lavoro, prima che diventi buio. La centralina idroelettrica fornisce pochissima corrente a causa della siccità e il generatore di riserva ha qualche problema cronico, per cui può girare solo a intervalli limitati di tempo. Ad ogni modo la sera avremo dell'acqua calda per lavarci, nonostante i disagi. Oltre a noi, al rifugio ci sono dei tedeschi, che concluderanno domani il loro viaggio alle Terme. La gestrice si chiama Katia ed è una nazionale di sci-alpinismo; ha una cagna molto affettuosa e anche abbastanza sfacciata di nome Neve, che la segue nei suoi allenamenti. Quando stacca il generatore e spegne le luci usciamo a guardare la Via Lattea. La temperatura è molto più mite che nelle scorse sere.

Malinvern-Aisone

39 Rifugio Malinvern
Image

40 Neve
Image

41 Vacca disperata
Image

42
Image

43 Vinadio
Image

44 Casali Piron e Grotte di Aisone
Image


Oggi ultima tappa con discesa a valle, lungo il percorso di Lou Viage, il trek ad anello della valle Stura, improvvisando anche un po'. Infatti in origine avevamo previsto di scendere a Vinadio, ma all'ultimo preferiamo puntare su Aisone.

I tedeschi fanno colazione molto presto e si dileguano mentre noi scendiamo nella sala da pranzo. Dopo colazione, trascorro il tempo lanciando la palla a Neve, mentre i miei amici chiacchierano con Katia, che si appresta a scendere a valle. Oggi il rifugio sarà chiuso. La prima parte di discesa segue la noiosa strada, perché non ci sono alternative. Ci supera quasi subito il fuoristrada della gestrice, preceduto da Neve, che approfitta del viaggio per fare una corsetta. A bordo strada pascolano alcune vacche. Già ieri avevo avuto l'impressione che questa conca rocciosa non fosse il massimo per loro, ma quando le vedo brucare gli aghi dei larici e le foglie degli ontani, ho la conferma che queste sono tenute malissimo e abbandonate a sé stesse. Del pastore non c'è traccia: sale giusto ogni tre giorni a dare un'occhiata.
L'infilata del vallone alle nostre spalle è dominata dalla scura piramide della Testa Malinvern, mentre i suoi ripidi fianchi sono invece solcati da canaloni di slavina. Uniti al cielo velato e alla foschia che tutto sbiadisce, rendono l'atmosfera cupa. Nel giorno festivo, incrociamo un po' di gente che ha lasciato l'auto al divieto e sale a piedi. Due vecchi cacciatori con a spalle fucili più grandi di loro, accompagnati da una badante depressa e sconsolata, scrutano un pendio cespuglioso. Nell'aia della casa nei pressi del divieto, i proprietari stanno accatastando legna su un rimorchio.
Improvvisamente percepisco una sensazione di freddo, che mi fa fermare per coprirmi con uno strato in più: siamo scesi sotto l'inversione termica. Già a San Giacomo alcuni vecchi mi avevano detto che ad Entracque quella mattina faceva più freddo che lì in quota. Il sole viaggia ormai basso e le inversioni sono tipiche della stagione fredda; speriamo che porti finalmente pioggia e neve. Superiamo alcune grange con i tetti di lamiera, caratteristici della valle Stura. Finalmente il sole raggiunge lo sprofondo di questo vallone, in una zona di sorbi e frassini. Stando alti, costeggiamo un lago artificiale, chiamato bacino di Rio Freddo. Sulle sue sponde è appollaiato un tarabuso, che riusciamo a osservare al riparo della fitta vegetazione. A valle della diga, lasciamo la strada che scende verso il fondovalle e ci portiamo sull'altra sponda del vallone. Sono ormai due ore che camminiamo e al ponte facciamo una pausa al sole finalmente caldo.

Risaliamo ancora brevemente la strada, diretta ai locali di sevizio della diga, per poi imboccare una mulattiera militare diretta al forte Piroat, che già avevamo scorto da lontano costeggiando il lago. Lungo il traverso, la vegetazione muta spesso, passando dai faggi alle querce agli abeti, cioè alberi che prediligono condizioni climatiche anche molto diverse tra di loro. Arrivati al forte, cintato da una rete per impedire l'accesso, ci dividiamo. Infatti cartina e cartelli danno indicazioni diverse su come raggiungere il forte Sestrera. La prima indirizza verso il proseguio della mulattiera militare, che fa un giro ampio, i secondi verso un sentiero, che invece sale dritto per il pendio. Ci ritroviamo quindi al forte superiore, nonostante i due del sentiero perdano un bivio. Anche questo è cintato. L'ambiente circostante ha un aspetto triste. La luce è pessima per il cielo velato e la foschia. Di fronte a noi c'è il monte Nebius, mentre più a est il monte Aighera, una cima rocciosa che confondo con la Testa di Peitagù, salvo accorgermi più tardi dell'errore. Sotto c'è il forte precedente, che domina dall'alto lo stabilimento dell'acqua minerale. Ci fermiamo a pranzare in uno spiazzo, su una panca accanto ai resti di un fuoco.
Costeggiamo poi il forte e scopriamo che la rete è stata sfondata in un punto, consentendo l'accesso a chi lo desidera. Per scendere a valle ci sono due opzioni: un sentiero diretto che punta a Vinadio, oppure una sterrata che scende gradualmente a metà strada tra Vinadio e Aisone. Visto che le ginocchia ci serviranno ancora per gite future, optiamo decisamente per la seconda. Scende a tornanti puntando verso est e attraversa una grande quantità di boschi diversi, oltre che di zone affascinanti di nude rocce calcaree. C'è anche un bosco misto di faggi e abeti bianchi, retaggio di un clima piovoso che quest'anno è solo un ricordo. La vegetazione poi cambia al calare della quota, diventando da mezza montagna, con ciliegi e frassini. Vediamo la vera Testa di Peitagù sopra Aisone e, da un tornante, Vinadio, con il forte, i vivaci tetti di lamiera colorata e l'ecomostro, che però da qui non spicca come da latri punti di vista. Dobbiamo anche superare dei canaloni da cui è franata una gran quantità di terra, in occasione di qualche alluvione.
Raggiungiamo il fondovalle. In origine avevamo previsto di puntare su Vinadio, ma alla fine abbiamo preferito Aisone, per calpestare meno asfalto e per un bar molto accogliente che ricordiamo da una gita precedente. Al bivio presso il ponte di ferro prendiamo perciò a destra, sulla pista sterrata che attraversa i prati dell'ampio fondovalle alluvionale. Da qui i segnavia sono a volte un po' consunti e difficili da individuare, ma ci sono. Tra vecchi edifici rurali, salici, pioppi (vegetazione ormai di pianura) confluiamo nuovamente sulla strada asfaltata. Nel tratto di pista ai margini di una borgata è in corso un torneo di petanque, in occasione di una festa patronale. Seguiamo brevemente l'asfalto e troviamo quindi un segnavia su un palo, che ci indirizza nuovamente tra i prati, dove pascolano delle vacche già demonticate. Una volta i pastori facevano a gara a scendere prima per fregare ai colleghi l'erba migliore; chissà se è ancora così. Costeggiamo la vegetazione ripariale lungo la Stura, con vista sulle imponenti cavità delle grotte di Aisone, che nel neolitico offrirono un riparo ai primi colonizzatori di questa valle. A monte c'è la zona rocciosa attraversata dallo spettacolare sentiero che abbiamo percorso la scorsa primavera. Raggiunto il ponte stradale, puntiamo verso la muraglia che sorregge la statale. Il trek si conclude in salita. Prendiamo qualche consumazione al bar, seduti nel dehors, tra il rombo delle moto che nei festivi salgono al colle della Maddalena. Non dev'essere molto tranquillo qui, tra questi ospiti domenicali e i TIR che nei feriali fanno la spola con il sud della Francia o lo stabilimento dell'acqua minerale. Alcuni nuvoloni si addensano sulla valle, ma neanche stavolta porteranno le desiderate piogge. Scendiamo infine alla fermata dell'autobus, che ci porta Borgo San Dalmazzo, dove abbiamo lasciato l'auto una settimana fa.

Bibliografia

AA.VV., La guida del Parco Alpi Marittime, Peveragno 2000
M. Aime - S. Allovio - P.P. Viazzo, Sapersi muovere: i pastori transumanti di Roaschia, Roma 2001
[a cura dell']Associazione Italiana Naturalisti, Bosco di faggio di Palanfré, Torino 1980
P. Barillà - M. Blatto, Geologia e forme del paesaggio per escursionisti, Rimini 2007
P. e G. Boggia, La Valle Gesso, Dronero 2003
G. Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli stati di S.M. il Re di Sardegna, Torino 1833-1856
B. Gallino - G. Pallavicini, La vegetazione delle Alpi Liguri e Marittime, Peveragno 2000
M. Graziani, Grande Traversata delle Alpi, vol. 1 da Viozene a Susa, Saint-Vincent/Rimini 2011
D. Gribaudi, Lo spopolamento montano nella valle del Gesso, Roma 1932
A. Molinengo, Bambini affittati, Scarmagno 2012
P. Passerin d'Entreves (a cura di), Le cacce reali nelle Alpi Marittime, Parco Naturale Alpi Marittime 2013
R. Pockaj - P.G. Garrone, Le fortificazioni della valle Gesso, Parco Naturale Alpi Marittime 2013
«Vai finché sei giovane, perché da vecchio puoi solo andare al ricovero» (Saggezza occitana)
User avatar
daniele64
Titano di Quotazero
Posts: 6442
Joined: Sat Jun 08, 2013 18:44
Location: Genova / Imperia

Re: GTA Marittime

Post by daniele64 »

Che magnifica esperienza =D> =D> =D> e che bella relazione , davvero interessantissima ... : Thumbup :
Per curiosità , hai mica qualche indicazione del chilometraggio e del dislivello delle singole tappe ? Tanto per capire se un trekking del genere sarebbe alla mia portata ... :pensoso: :-k
Grazie .
:smt006
Il silenzio è un dono universale che pochi sanno apprezzare. Forse perché non può essere comprato.[Charlie Chaplin]
User avatar
awretus
Utente Molto Attivo
Posts: 469
Joined: Wed Jan 04, 2017 21:35
Location: Regno del Prete Gianni
Contact:

Re: GTA Marittime

Post by awretus »

daniele64 wrote:hai mica qualche indicazione del chilometraggio e del dislivello delle singole tappe ?
Le tappe sono tranquille, con dslivelli e tempi di percorrenza medi. Salite e discese quasi sempre regolari.
Per la prima e l'ultima tappa riporto i dati rilevati con il mio altimetro, per le altre copio la guida GTA di Graziani

1: 5h, +870,-290
2: 4h15, +840, -1120, 10,6km
3: 5h15, +990, -870, 12,9km
4: 5h30, +1320, -520, 13,8km
5: 5h30, +730, -1380, 15km
6: 5h15, +1240, -770, 15,6km
7: 5h30, +240, -1220
«Vai finché sei giovane, perché da vecchio puoi solo andare al ricovero» (Saggezza occitana)
User avatar
daniele64
Titano di Quotazero
Posts: 6442
Joined: Sat Jun 08, 2013 18:44
Location: Genova / Imperia

Re: GTA Marittime

Post by daniele64 »

: Thanks :
Tanto lo so che il mio resterà un sogno ... :pensoso:
:smt006
Il silenzio è un dono universale che pochi sanno apprezzare. Forse perché non può essere comprato.[Charlie Chaplin]
Post Reply

Return to “Escursionismo”