Sentiero reale dei laghi

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awretus
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Sentiero reale dei laghi

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Album foto (cliccate su una per visualizzare la carrellata di diapo):
https://www.flickr.com/photos/awreetus/ ... 916051136/

La valle Gesso, grazie alle sue resistenti rocce granitiche, ha conservato in molte zone il modellamento glaciale, che spesso scava avvallamenti nella roccia meno resistente e preserva quella più tenace, creando le condizioni per la formazioni di laghi durante i periodi caldi di regresso dei fronti. Con questo giro di due giorni e mezzo se ne fa una vera scorpacciata, visitando anche zone discoste dove è raro incontrare escursionisti.
Ho battezzato reale questo percorso perché queste montagne erano la riserva di caccia e pesca dei Savoia, che si erano fatti costruire queste mulattiere per raggiungere i luoghi delle battute. Sono stato tentato anche dal chiamarlo imperiale, visto che a praticare la pesca fu soprattutto Vittorio Emanuele III (per impulso dell'amata moglie), che al nefasto apice della sua parabola fu imperatore, ma alla fine sono stato morigerato.

Sant'Anna di Valdieri

A Sant'Anna di Valdieri mancano pochi giorni alla festa patronale, per cui lungo la via del paese ci sono i banchi del mercato. Mi faccio attrarre dalla leggendaria ricotta delle pecore frabosane-roaschine, il prodotto più ricercato di questa razza, che non ho mai provato, ma non potrei tenerla tre giorni nel baule, né tantomeno potrei caricarmi un vasetto di vetro nello zaino: devo perciò soprassedere a malincuore. Posso invece mettere nello zaino una fetta di un formaggio di Macugnaga che la venditrice astigiana ha battezzato “senza senso”, da un commento di una sua cliente abituale. Me lo descrive come un misto burroso tra gorgonzola e brie.
Chiedo poi all'emporio del parco le chiavi dell'ecomuseo della segale, che racconta la storia del rapporto degli uomini con questo cereale, dalla domesticazione nell'Asia Minore fino al suo largo impiego sulle montagne. Era infatti il cereale più adatto al clima freddo (altrove ho visto terrazzamenti a quasi 2000 m edificati per la sua coltivazione), per cui era molto diffuso al di sopra del limite del castagno, specie prima dell'introduzione della patata. La sua paglia aveva anche impieghi in edilizia, perché era usata per la copertura dei tetti, nelle zone in cui c'era poca disponibilità di rocce scistose da cui estrarre lose. Rispetto a queste aveva poi il pregio di essere di gran lunga più leggera, ma altrettanto impermeabile e resistente (un tetto di segale poteva durare quarant'anni). Con l'abbandono dell'agricoltura di montagna nella seconda metà del Novecento, è venuta meno la sua disponibilità e queste coperture sono oggi scomparse, sostituite dalla lamiera e altri materiali resi disponibili dallo sviluppo industriale. Butto infine l'occhio nella chiesa, che ha un aspetto moderno.

Sant'Anna di Valdieri-Lago Sottano dell Sella

2h40m, +870 m

Bevo a una fontana costruita per munificenza di Vittorio Emanuele III nel 1905 e passo davanti al palazzo delle Poste e Telegrafi, edificato in seguito al prolungarsi dei soggiorni reali negli Anni Venti. Lo skyline di questa profonda e stretta valle è caratterizzato da una grande cima rocciosa piramidale, chiamata Asta Soprana, sul margine del vallone di Lourousa. Svolto a destra e mi inoltro nella stradina diretta nel vallone della Meris. Su una edificio campeggia la grande scritta in nero di anilina “W LA REGINA”, dedicato alla regina Elena, colei che più di tutti amò i soggiorni in questi luoghi e fu ricambiata dalla popolazione locale, anche per le sue numerose opere di beneficienza. La presenza dei reali fu una componente tutt'altro che secondaria nell'economia questa valle povera, priva di grandi pascoli a causa della roccia poco sfaldabile: questo aspetto era ben chiaro agli amministratori del tempo, tanto che fu loro in primis l'iniziativa di concedere i diritti di caccia e pesca ai sovrani (pur non senza distinguo e resistenze), dopo una visita di Vittorio Emanuele II, in cui il re manifestò il suo apprezzamento per l'abbondante selvaggina di questa valle.
Il percorso pedonale asfaltato risale tra le seconde case più alte della frazione e diventa a fondo naturale dove si inoltra nella faggeta. L'ambiente è ombroso, ma la temperatura dell'ora mediana e l'umidità equatoriale mi fanno sudare copiosamente. A nulla vale la fresca corrente d'aria che il fragoroso torrente senz'altro genererà, perché è troppo in basso. Salgo per una stretta gola, dai ripidi fianchi, interamente boscosi, accompagnato dal solo suono del torrente, a parte una breve zona solatia in cui è sovrastato dal frinire della cavallette. Mi avvicino maggiormente al torrente, che alterna cascate a pozze verdi, tra grandi massi. La gola sembra avere una morfologia fluviale, ma i massi sembrano morenici. Prende quota abbastanza rapidamente e il sentiero la affronta a tornanti, attraversando anche pietraie più solatie. Alcuni alberi sono molto belli, ma è difficile fotografarli per il contorno del bosco caotico e i forti contrasti luminosi tra l'ombra e le macchie dove filtra il sole allo zenit. Una costruzione con tetto in lamiera a sostituzione della paglia accanto a un sorbo dell'uccellatore mi fa pensare a un capanno di cacciatori, o magari a una vecchia frazione abbandonata e riciclata da loro. Questo e un altro gruppo di case più a monte sulla carta sono denominati Tetti, il nome con cui erano designate le frazioni, ma mi sembra incredibile che esistessero abitazioni permanenti tra questi mucchi di sassi. Che i miseri spiazzi spesso ombrosi che vedo cintati di muretti fossero campi di segale?
Scende un ragazzo a passo arrembante, seguito a breve distanza da un canuto con il medesimo abbigliamento da corridore e da un signore più distanziato, di età intermedia, che sembra anche il meno convinto dei tre. Mangio un panino su un sasso nei pressi di alcune casupole, prima che il bosco finisca e mi trovi in balia del sole. L'ampia mulattiera prosegue tra radure sempre più ampie, con aceri e maggiociondoli isolati nei prati. Comincia intanto a infittirsi la processione del rientro pomeridiano, di numerose persone che scendono alla spicciolata dalla gita domenicale. Una cagnetta di due signori mi saluta leccandomi la mano. Le nuvole intanto si addensano e diradano a ritmo ieratico ma incessante sulle dorsali che chiudono il vallone. Il bosco scompare definitivamente e lascia posto a un ampio pascolo, il Gias del Prato. Noto una pista militare che sale sulla destra orografica, evidentemente abbandonata, perché manca il ponte e non è riportata sulla carta Fraternali. Ai margini del prato c'è un rustico capanno, presso cui è seduto un vecchio pastore con il volto bruciato dal sole, mentre un ragazzo biondo si aggira nei pressi. Un gregge di pecore è arrampicato sul pendio soprastante, diviso tra una zona con più sassi che erba e l'ombra di alcuni faggi. Una pecora malata è rimasta nel recinto accanto al pastore, che sembra avere un accento forestiero. La pecora è tosata, ma lui mi spiega che sono da carne e non da lana. Nei prati verdi, ma dal terreno duro e secco, saltellano moltissime cavallette, di più specie. La coda di coloro che scendono intanto si infittisce ancor di più.
Proseguendo arrivo a un altro alpeggio, dove ci sono due edifici e un rustico riparo, oltre a un singolo cavallo marroncino che pascola tormentato dai mosconi. È il Gias del Chiot della Sella. Gias è un termine occitano che indica la lettiera di paglia su cui stazionano gli animali in stalla e per sineddoche tutto l'alpeggio, mentre il termine chiot si riferisce a una zona pianeggiante. Una volta qui c'erano degli alloggiamenti per i reali, date alle fiamme dopo l'8 settembre. Faccio una breve pausa per prendere gli appunti. Mi supera un gruppo di una decina di francesi e temo che dovrò mettermi in coda a loro per la doccia, ma per fortuna si fermeranno a breve e arriverò pertanto prima io. Le nuvole intanto si addensano alla testata di questa valle profonda, dai fianchi ripidi che nascondono le cime. Scorgo il salto a valle del lago Sottano della Sella, presso cui sorge il rifugio dove pernotterò, e la cascata dell'emissario. Mi accorgo che nell'aria più secca del prato sto sudando meno che nel bosco, ma in ogni modo in maniera copiosa: al rifugio mi renderò conto che non sto facendo pipì da un po' e mi ci vorrà un litro e mezzo di acqua per sentire nuovamente lo stimolo, nonostante il litro e mezzo già bevuto in salita. Il sentiero taglia il pendio a monte della cascata; individuo un buon punto di vista da cui scattare una foto nell'aurora di domani mattina. Sull'internet non avevo visto buone foto scattate dal rifugio ed ero dubbioso se alzarmi al mattino, ma ora sono sicuro di avere un buon soggetto.
Arrivo al lago con una pessima luce, per la foschia e il sole accecante in faccia, per cui le foto della sera avranno un'atmosfera cupa. Il rifugio Dante Livio Bianco sorge sul dosso montonato che chiude il lago a valle, esposto ad ovest, ottimo per asciugare il bucato al pomeriggio. È dedicato a un comandante partigiano di Giustizia e Libertà, compagno di Duccio Galimberti e Nuto Revelli. Morì durante una scalata lungo la cresta nord-est della Cima Saint Robert (gruppo del Gelas), a causa di un masso instabile che franò insieme a lui. Alcune sue frasi sono riportate sui muri della sala da pranzo. Il cognome dell'attuale gestore è quello di una borgata tra Vernante e Palanfrè. Il rifugio è vecchio stile, con spazi risicati e servizi all'osso, ma almeno finestre sufficienti. Per la doccia devo aspettare che i gestori abbiano finito di lavare i piatti dei pranzi domenicali, perché la poca acqua calda prodotta dai pannelli va centellinata. Poi peraltro è poco più che gelida, ma con questo caldo non è una disgrazia. Inoltre è sempre meglio così che sentire il rumore e gli effluvi di un generatore. Dopo mi prendo una tisana con una fetta di crostata, seduto a un tavolo di fronte al lago. Il ragazzo che coadiuva i gestori mi racconta che è molto profondo: sinora le esplorazioni sono arrivate a 100 m e ancora non hanno toccato il fondo. Mi dice che tale profondità, molto maggiore di quella solita dei laghi glaciali, è dovuta al fatto che il Monte Matto era un vulcano. Vittorio Emanuele III e la consorte vennero più volte a pescare in questo lago e in quello Soprano, già a partire dal 1905 e fino alla fine degli Anni Trenta, con reti e lenze gettate da una barca. La pesca sembra ancora praticata: sulla sponda settentrionale c'è un capanno. Anche il gestore ama farsi delle gite su una barchetta ormeggiata ai piedi del rifugio. Mentre sto bevendo la tisana, scendono dal Matto un uomo e due donne di mezza età in tenuta da corsa, quasi senza zaino; una delle due ha due borracce con le cannucce poste sul petto in modo tale da sembrare protesi dei capezzoli. Ceno insieme a due apicultori cuneesi, che con un'amica più esperta domani saliranno sul Matto. I francesi invece sono diretti al Valasco via colle di Valmiana: a quanto pare sarò tutto solo. La cena è tipica da rifugio, con la scelta tra pasta o minestrone e tra carne o formaggio. Dormo anche con gli apicultori, che per fortuna si alzeranno alle 5.30, cosicché non li sveglierò quando andrò a fotografare l'aurora delle 6. Dopo cena un camoscio ormai di casa viene a fare il solito giro nei dintorni. Il mio obiettivo è catturato dalla Cima Nanni Ugliengo, una propaggine del Matto dedicata negli anni Duemila a un medico del Soccorso Alpino, caduto durante un'operazione nel gruppo del Gelas. È raggiunta dall'ultima luce del giorno, almeno nei momenti in cui un grande banco di nebbia che galleggia sul lago non la oscura.

Lago Sottano della Sella-Lago delle Portette

7h15m, +1270 m, -870m

Quando i miei compagni di stanza si alzano, mi affaccio alla finestra per capire se vale la pena uscire per le foto: mi rallegro nello scoprire che la mattina è limpida. Pertanto mi vesto, indosso gli scarponi e scendo alla cascata, spaventando due camosci che stavano pascolando presso il ponte sull'emissario. Qui scopro che a valle c'è una foschia più vischiosa dello smog invernale, ma grazie al cielo non farà salire che pochi nuvoloni; d'altronde anche qui l'umidità non scherza. A causa sua il sole si fa attendere molto più del previsto, ma alla fine arriva, anche se resta poco, sparendo dietro a delle velature. La colazione è così parca che spazzolo anche la nutella.
Il sentiero resta sul bordo settentrionale del lago e sale tra magri prati. In alcuni punti è una semplice striscia di terra, mentre in altri è una bella mulattiera costruita in pietre a secco. Dopo aver tagliando in piano il pendio, sale con strette serpentine tra rocce montonate. Verso valle è assai bigio e qualche piccola nube comincia già a risalire. Incontro le prime rocce rosse, che mi accompagneranno fino al lago di Valscura. La vista su Cima Nanni Ugliengo domina il panorama della parte bassa. Supero varie sorgenti e da una riesco anche a bere dell'acqua fresca: fa già caldo e l'afa accresce il disagio e la disidratazione. Giungo a un ripiano erboso, che in passato era un alpeggio, come mostra un resto di muro perimetrale circondato da vasta distesa di Rumex alpinus. Più avanti troverò uno dei cartelli di avviso della presenza di pastori maremmani-abruzzesi, per cui ad agosto probabilmente ci saliranno le pecore incontrate ieri. Un traverso tra rocce montonate offre ampi panorami e comincia a mostrarsi la cresta dentellata del Matto. L'emissario del lago Soprano scorre impetuoso con rapide e cascate. Arrivo al bivio poco sotto il lago e prendo a destra verso il colle della Valletta. Noto che il Questa è indicato solo via colle di Valmiana, un percorso più lungo ma probabilmente meno faticoso e più semplice. Con qualche giravolta sono al lago, che è il più grande invaso naturale della zona. Sullo sfondo si elevano, sopra pareti con colatoi e conoidi di deiezione, il Matto e la Rocca di Valmiana, a valle il lago è chiuso da un'alta bancata montonata; solo qui c'è del prato. Faccio una pausa per mangiare una pesca.
Riprendo la marcia entrando in una valletta erbosa formata da una successione di ripiani, ciascuno con il suo laghetto. Un grosso ometto su un dosso anticipa di poco il colle, dove l'ambiente si fa più pietroso, di rocce rosse. Sono svalicato in valle Stura di Demonte. In basso c'è un bellissimo lago blu cobalto, incassato tra ripide pareti di pietre bianche. Procedendo in quota, incontro prima un laghetto tra rocce rosse, poi un lago più grande dove si riflette la Rocca la Paur. Dopo la frugale colazione i morsi della fame cominciano a farsi sentire e così mi fermo a spazzolare le gallette energetiche di emergenza, a base di cereali e semi, che ho nello zaino. Il sentiero sale quindi un pendio a ripide svolte, per tenersi a monte di un nevaio molto ripido. Raggiungo un costone, da cui mi affaccio su una grande valle dal fondo pianeggiante costellato di laghetti, la cui amenità stride con la severità del paesaggio circostante da alta montagna, di sole pietre e neve. A breve mi sorprenderò non poco nel sentire i fischi delle marmotte, che qui devono sopravvivere con una stagione vegetativa breve e stentati fazzoletti erbosi. Mi inquieto non poco nel vedere in lontananza grandi nevai, perché quelli ripidi mi fanno paura. La bella mulattiera resta un poco alta sul margine sinistro della conca, salendo gradualmente. Noto per terra molto pelo di camoscio, come se qualcuno di essi si fosse liberato qui del mantello invernale (la mia guida sulle tracce degli animali non dice nulla al proposito). La mulattiera raggiunge la ripa della valle, dove il pendio prosegue quasi verticale sul lago Soprano della Sella, che posso ammirare dall'alto, insieme al lago Sottano e al rifugio, ormai quasi mille metri più in basso, appena percettibile per la densa foschia grigia. Raggiungo il punto dove sulla cartina si vedono due tornanti ravvicinati. Qui la mulattiera è stata inghiottita dalla pietraia. Consulto l'altimetro per capire quanto devo salire tra i massi. Con gran gioia scoprirò che segna una quota più bassa del reale. Invece dopo un breve tratto, dove seguo i resti della mulattiera in disfacimento, raggiungo un costone detritico, dove è di nuovo in buone condizioni, sorretta da muri a secco di pietre rosse. Raggiungo la fine della mulattiera e mi cimento quindi nella faticosa ginnastica da equilibrista tra i massi, seguendo le abbondanti segnalazioni biancorosse. Incontro un paio di nevai residui. In uno stretto passaggio obbligato tra due rocce, il ponte di neve cede rovinosamente sotto il mio peso e mi accascio contro di esse, pur tuttavia senza procurami abrasioni significative. Le rocce scaldano la neve e rendono questi passaggi sempre incerti. Riesco a risollevarmi senza difficoltà e proseguo più timoroso. Vedo delle tracce su un nevaio che aggirano la pietraia, una via senz'altro meno faticosa, ma non mi fido a seguirle e continuo a braccare le segnalazioni. Ormai in vista del colle, devo attraversare un nevaio inclinato più grande. La neve ormai molle per il gran caldo mi permette di farlo senza timore di scivolare, stando attento a evitare un tratto dove ci sono segni di rigelo. Ancora pochi scavalcamenti e sono al colle Est della Paur, dove ci sono degli escrementi di camoscio.

Ho a disposizione a malapena mezzo sedile dove accucciarmi, tanto è impervio e appuntito questo colle, su ambo i versanti. Al di sopra, la parete della Rocca è impressionante e sembra davvero incredibile che la salita sia solo di difficoltà F+, perché appare inaccessibile. Verso la valle di salita il panorama è chiuso da un dosso di rocce rosse, mentre a sud si apre la grande conca di Valrossa con i suoi laghetti, oltre cui lo sguardo si spinge verso il selvaggio vallone di Prefouns, che vorrei risalire domani. Estraggo il binocolo per provare a individuare gli escursionisti sul Matto o sulle sottostanti pietraie, ma non scorgo nessuno. Mangio il panino che ho con me. Sugli appunti annoto: «Vediamo com'è la discesa». Sulla carta le condizioni del sentiero sembrano un po' migliori di quelle dell'ultima parte di salita.
All'inizio scendo ripidamente seguendo vaghe tracce e tacche gialle. Quasi subito le perdo seguendo la traccia più marcata, ma riesco a recuperarle in fretta: il terreno è accidentato, formato di rocce e ghiaia scivolosa, ma fattibile. Il percorso segnalato scende più o meno per la via più diretta, restando su brecciolino al margine delle rocce. Ad un certo punto però mi trovo di fronte una morena non vegetata, cioè formata da grossi massi nudi, che devo attraversare, seguendo le tacche gialle, ometti, e tacche biancorosse (ri)comparse nel frattempo. È il tratto di gran lunga più estenuante della tappa, che sembra non finire mai. È pure l'ora più calda e con il sole più cattivo. Se non altro la pietraia è molto ben assestata: solo una singola pietra tra le centinaia su cui mi appoggio si muove al mio passaggio, senza conseguenze. C'è anche da attraversare qualche piccolo nevaio, che aggiro per quanto posso. All'uscita sono esausto e frastornato, come se fossi stato in balia dei cavalloni, oltre che assetato. Dovrei avere la lucidità di fermarmi e riposare, ma l'ansia che mi ha messo questo labirinto apparentemente senza fine mi porta a proseguire come un automa, alla ricerca del lago più basso, dove so che troverò la mulattiera militare già percorsa. Mi rendo conto che, attraversando un ambiente che mi ha messo alla prova, sono molto concentrato su me stesso e le mie sensazioni: ho un ricordo distinto delle canzoni dei Madness che ho sentito fluire a caso nel mio cervello, ma pochissimo dell'ambiente attraversato, che che mi è passato davanti come se l'avessi solo intravisto con la coda dell'occhio, come un falco pellegrino in picchiata. Supero due signore sdraiate a chiacchierare e a prendere il sole e proseguo, incontrando non poche difficoltà a restare sul percorso segnalato, forse più per la scarsa lucidità che per le carenze delle segnalazioni e la mancanza di una traccia univoca. Passo così in cavalleria questo bellissimo ambiente di rocce dai colori accesi e laghi blu.
Ad ogni modo, arrivo al lago inferiore un po' rinfrancato, abbastanza almeno da aver ripreso a scattare qualche foto. Dal colle ci ho messo un'ora e mezza, contro i 45 minuti indicati sul cartello, che mi sembrano francamente inverosimili, come anche l'ora e un quarto prospettata qui per la salita. A volte mi sembra che certi tempi siano messi contando solo il dislivello, trascurando lo spostamento e l'accidentalità del terreno. Mi fermo e mi sdraio a riposare per una mezz'ora. Mangio la fetta di formaggio senza senso e scatto qualche foto al lago e al circo roccioso da cui sono sceso, molto affascinante nella sua nudità, ora che me lo sono lasciato alle spalle.
Mi sono ripreso, ma ho quasi terminato il litro e mezzo di acqua della borraccia. Non ne ho presi tre per poter viaggiare più leggero e con lo zaino meno ingombrante: è giunto il momento di pentirmi della scelta. Il sentiero prosegue in quota alternando brevi salite e discese. In certi punti è solo un sentiero, mentre nell'attraversamento delle pietraie è un'ampia mulattiera ben lastricata, come se fosse rimasto incompiuto. Resto alto sopra un pianoro erboso e poi taglio un aereo pendio precipite sul Valasco, di cui vedo il piano e la palazzina turrita. Scendo a un piccolo laghetto, dove finisco la poca acqua rimasta. Mi accorgo che, nella successiva risalita, sudo poche gocce nonostante il caldo e lo sforzo, come se il mio corpo si fosse messo in modalità di risparmio idrico, e comincio perciò a temere di essere in fase di disidratazione. Proseguo meditabondo e alla fine concludo che è meglio rischiare e bere l'acqua dell'emissario del lago di Valscura, che incontrerò più avanti. Anche questo tratto è molto aereo e panoramico, con vista sulle pietrose montagne che chiudono a sud il Valasco e su parte della catena dell'Argentera, a momenti nascoste dalle nubi, a momenti scoperte. Trovo qualche roccia rossa franata sul sentiero poco prima che inizi la serpentina nel verde prato ripido, ben visibile dal Questa, con cui perdo rapidamente quota, orami quasi affacciato sulla conca di Valscura. Qui il tracciato era ampio, ma ora è invaso da varie erbe, soprattutto dalla carice rigida, che prolifera bene nei terreni calpestati. Ci sono poi delle fioriture, tra cui di alcune specie di Dianthus (garofani), le più appariscenti e diffuse di questi tre giorni. Il sentiero punta ora decisamente verso il lago di Valscura, prima con un traverso che supera una dorsale di rocce montonate attraverso uno stretta breccia, quindi con tornanti diretti alla rotabile.

Allo sbocco trovo tre anziani, che mi chiedono se ho visto stambecchi ai laghi di Valrossa. Prima di raggiungere la morena avevo sentito smuovere delle pietre, ma non avevo visto nessun animale. Mi era andata meglio la prima volta in cui ci ero passato, quando una femmina con dei cuccioli stazionava poco sopra il lago inferiore. Vado al torrente a bere a garganella, sperando di non prendermi nulla; nonostante un litro e mezzo di acqua finisca nella mia gola, lo stimolo della pipì mi tornerà solo la sera al Questa. Proseguo fino al lago e mi accorgo che c'è un gregge di pecore. Bene. Ciò tuttavia ha anche risvolti positivi, perché posso comprare del grasso formaggio dal pastore, per fare un po' di merenda seduto in riva al lago: il sapore è molto intenso e un po' asprigno. Questo giovane pastore dai riccioli neri, nonostante la pelle più scura di un indiano, non viene certo da lontano, perché si esprime con un piemontesismo («Mi è rimasto più poco formaggio»). Poco distante da me ci vari vari altre persone suddivise in gruppetti; alcune stanno baldanzosamente tentando un bagno. Oggi pomeriggio il nome del luogo è meritato, perché il cielo quasi interamente coperto da nuvoloni cupi rende l'atmosfera tenebrosa. La superficie del lago increspata mi dispensa dal dovere morale di andare a fotografare l'Argentera che si rispecchia sulle sue acque.
Risalgo i tornanti con cui la pista aggira dall'alto un costone roccioso, passando a valle di pareti, nelle cui fenditure crescono alcuni pini cembri. Scendo quindi nella pietraia dove corre il più bel tratto di strada miltare: tra massi accatastati alla rinfusa, una lingua di rocce rosse, piallata e liscia come se dovessero stenderci dei binari, esemplifica bene la titanica lotta del Demiurgo platonico per modellare la materia ostile. È senz'altro una delle meraviglie dell'opera umana nelle Alpi, che tutti gli escursionisti dovrebbero ammirare almeno una volta. Alcuni escrementi di mulo donano un tocco etnico al manufatto. Mentre fotografo, mi tocca in sorte un fugace squarcio di sole.
Riprendo a salire, faticosamente per l'accumulo di stanchezza della giornata, ora su fondo più irregolare. Poco prima di arrivare al lago del Claus, vedo una marmotta di guardia su un sasso. Mi congelo, perché poco dietro di me sta arrivando una famiglia e voglio mostrala loro, ma lei si dà lo stesso alla fuga. Il lago del Claus è ragguardevole per la forma estremamente articolata, ricca di penisole e insenature. Purtroppo non ho il tempo di girarlo come dovrei, se voglio avere un po' di tempo per rilassarmi al rifugio. Tento comunque di estrarne qualche composizione astratta con il tele, ma senza successo. Al bivio sopra oltre il lago resto sul sentiero alto, che evita di scendere lungo la militare, ma fa comunque un sacco di saliscendi prima di arrivare al dosso pietroso su cui sorge il Questa. Individuo un buon punto da cui fotografarlo dopo cena, al tramonto. Anche il mulo è salito fin qui, ma se n'è già andato.

Mi tolgo gli scarponi e mi sistemo in stanza. Sono nel sottotetto, a cui si accede con manovre da alpinismo autodidatta, tramite una scala a pioli verticale e una botola sul soffitto della sala da pranzo. Sarà caldissimo, nonostante le finestre aperte e i letti quasi tutti vuoti, ma tutto sommato non è un male perché mi dispensarà dal dover scendere la scala con la pila per fare una pipì notturna. Sempre meglio che finire al terzo piano dei letti a castello, da cui domani mattina una signora cadrà, per fortuna senza conseguenze irrimediabili. Ricordo che, quando ci avevo dormito, mi ero appuntato che ondeggiava come un grattacielo durante un terremoto giapponese. Temendo di finire qui, ho portato con me uno zainetto accartocciabile, in cui sistemerò tutto il necessario per la serata, per non dover fare ripetutamente su e giù. Chiedo della doccia e mi dicono che ce ne sono una interna e una esterna, solo con acqua fredda. Quella esterna è chiusa solo sommariamente su tre lati, con pannelli che lasciano ampie fenditure, e il quarto panoramico sulla valle, senza una tendina. Quella interna è accanto alla turca, ma almeno un po' più protetta dalla brezza serale. L'acqua fredda, ad ogni modo, mi sembra più tiepida dell'acqua calda del Livio Bianco, per cui riesco a lavarmi adeguatamente. Dopo cena vado a scrivere qualche appunto ai tavoli esterni, dove ci sono più zanzare che tra nelle paludi della Lousiana.
A cena sono al tavolo con la famiglia di olandesi visti al Claus, formata da due genitori cinquantenni e due figlie in età pre-adolescenziale, tutti alla prima esperienza sulle Alpi. Sono in campeggio in valle e sono venuti a trascorrere la notte qui, perché questo rifugio sulla loro guida era segnalato come caratteristico. Questo mi rivela perché ci ho sempre trovato tanta gente, nonostante sia uno dei più disagiati dove ho dormito. Mi chiedono se i rifugi alpini sono tutti così e spiego loro che generalmente sono un po' meglio. Il Questa è rimasto a lungo in una situazione di stallo a causa di una vertenza sulla proprietà. Alla fine, nel febbraio 2018 un tribunale ha stabilito che l'edificio, un vecchio ricovero militare, non è del Demanio, bensì della Srl di Genova che possiede anche i terreni del vallone e la palazzina del Valasco. A causa di questa sentenza è cessata la gestione del CAI Ligure, avviata nel 1925 e per via della quale era intitolato a un alpinista genovese dei primi del Novecento. Per adesso il nome, ora protetto da un marchio registrato, e il gestore sono rimasti gli stessi. Gli olandesi, consoni ai modi sobri e riservati dei loro reali, non riescono poi a capacitarsi che la palazzina del Valasco fosse così, con torri e strisce rosse e gialle, ai tempi dei re, ma sono convinti che sia un rifacimento successivo. Chissà come strabuzzerebbero gli occhi, se fossi un po' più sciolto e mi mettessi a raccontare loro la tecnica di caccia con i batteur. Chiacchiero amabilmente con loro combattendo con il mio stentato inglese, specie quando mi chiedono delle Dolomiti e devo tradurre ghiaione. Mi raccontano anche di aver visto una signora morta lungo il sentiero di salita, con accanto il marito in lacrime. Ai tavoli accanto c'è un gruppo del CAI di Faenza, che ha in progetto di percorrere la GTA una settimana all'anno. Domani vanno a Sant'Anna di Vinadio, una tappa certo non breve. Per cena c'è della gradita zuppa di legumi, di cui mi abbuffo e poi carne e polenta. Anche se non amo la carne, normalmente non mi marco vegetariano, perché normalmente danno in alternativa il formaggio, che metto già nel panino. Invece stasera c'è della rara frittata, che invidio tantissimo e tenterò di farmi mettere nel cestino del picinic, ma invano, perché è stata cucinata in dosi contate.
Dopo cena mi arriva finalmente lo stimolo della pipì e vado perciò al bagno accanto alla doccia esterna. Non ha lo sciacquone, ma bisogna invece riempire un secchio di plastica nera nell'attiguo lavabo e versarlo sulla turca. Il Quintino Sella al Monviso aveva tazze e vaschette nel 1905. Vado poi al punto individuato durante l'avvicinamento, per scattare una foto al rifugio, con lo sfondo dell'aguzza Cresta Savoia. La bella luce serale è un po' erratica, a causa di nuvoloni e velature che persistono a ovest. Il circolare lago delle Portette è increspato, per cui non posso fotografare il riflesso dell'omonima cima. Vado a letto presto, rinunciando al proposito di fotografare la Via Lattea a mezzanotte e l'aurora lunare poco dopo, un po' per la scala scomoda, ma soprattutto per la stanchezza della tappa.

Lago delle Portette-Terme di Valdieri

7h20m, +700m, -1710 m

Alle cinque devo proprio scendere in bagno: ho resistito fino ai primi chiarori del giorno. Fuori fa così caldo che in maglietta e mutande non sento il bisogno di uno strato in più. Alle 6 mi vesto e scendo per le foto dell'aurora. Il CAI di Faenza è in pieno fermento: hanno già portato gli zaini fuori e stanno già trafficando, nonostante la colazione sia servita dalle 7. Anche stamattina la foschia verso valle non fa rimpiangere le migliori albe equatoriali: il Matto è l'ultima forma che si vede, poi è rosso puro. Il lago delle Portette è placido e riesco così a fotografare la cima con il riflesso. Tenterò anche di riprendere una persona mentre a torso nudo si fa la barba al lavabo esterno, baciato dal sole nascente, ma senza successo. Questo rude bagno ha colpito la mia immaginazione, quasi come quello con la turca sul precipizio che aveva il Mezzalama quando ero bambino. La colazione stamattina è decisamente più appagante, grazie al müsli. Chiedo al gestore informazioni sul vallone del Prefouns e le sue indicazioni non sono incoraggianti, anche se lui minimizza: ci sarà da balzare di masso in masso e quindi da ravanare per detriti, come nei peggiori ghiaioni dolomitici, che detesto con tutto il cuore. «Il terreno è quello che è. Basta che punti alla caserma», mi spiega, facendomi intendere che non ci siano molte tracce o segnalazioni.
Parto poco prima del gruppo CAI e scendo verso la militare, che raggiunge il bivio con una serpentina in discesa da un dosso roccioso e prosegue con un tratto sopraelevato. Seguo la strada, qui con fondo rovinato, tra radi larici, gli ultimi prima delle pietraie e delle pareti, con vista sul versante opposto del Valasco, da cui sono sceso ieri. Con la testa fra le nuvole, concentrato sul paesaggio che ho sulla sinistra, arrivo fino a dove si affaccia per un istante sul vallone di Prefouns, una vista che mi aveva affascinato la prima volta che passai di qui, una decina d'anni fa, e ancora mi attrae adesso, specie ora che è tutto in ombra con i soli picchi illuminati. Mi rendo conto di aver perso il bivio. Consulto la carta e vado a cercarlo, ma trovo solo un'esile traccia, che mi dà la spinta decisva ad abbandonare il progetto del Lac Negre. Questo vallone resterà uno di quei luoghi che mi intrigano, ma che tutto sommato è meglio guardare da lontano. Proseguo invece in discesa verso della val Morta, per puntare ai laghi di Fremamorta.
Mentre mi avvicino al bivio noto un trentenne scendere di corsa e fermarsi a una sorgente nei pressi. La strada sale a tornanti, restando alta sul fondovalle irto di massi. Incontro dei larici isolati, alcuni dei quali monumentali, oltre a più rari pini cembri. È la prima volta che passo di qua la mattina e noto subito che la luce è molto migliore che al pomeriggio: la strada e il fondovalle sono ancora in ombra, mentre le vette sono illuminate da una luce che ne evidenzia le forme, a volte gotiche. Su un conoide di detriti noto due larghe scie parallele lasciate da grandi macigni franati dalla parete soprastante. In un tratto molto ben lastricato due massi portano incisi il nome del battaglione Dronero e gli anni di costruzione e rifacimento, il 1909 e 1929. Nel primo caso si trattava delle opere costruite nel periodo in cui l'Italia era alleata all'Austria-Ungheria e al Reich tedesco, dopo gli screzi con la Francia per la Tunisia, ma come è ben noto, all'ultimo l'Italia ribaltò le alleanze e la guerra non fu combattuta su questo fronte; nel secondo caso dei restauri fascisti, in vista della “pugnalata alla schiena” a una Francia già in ginocchio.
Mi fermo per una pausa, apro il cestino del picnic e scopro che tutta la roba confezionata sembra provenire dal discount; il dolce consiste per più di metà di zuccheri e grassi saturi. Anche il formaggio del panino non sembra esattamente di Valscura. Bevo il succo di frutta e faccio caso al piccolo larice di fronte a me, cresciuto nel riparo termico di una roccia montonata. A volte questi alberi possono essere anche molto vecchi, con anelli di accrescimento quasi invisibili, e non sono in grado di superare in altezza la loro protezione, perché il freddo e il vento li farebbero disidratare seccandoli. Segue un tratto su un prato tra fischi di marmotte, dove la mia attenzione è catturata dai picchi sulla sinistra, purtroppo illuminati da una luce poco fotogenica per i primi nuvoloni che si addensano sulla dorsale con il vallone della Valletta. Manca poco al colletto del Valasco, dove incrocio due ragazzi spagnoli con i materassini da campeggio arrotolati sullo zaino. Da qui ammiro il lago Sottano e i dossi pietrosi che nascondono gli altri, con il puntino rosso del bivacco Guiglia tanto invisibile quanto evidente, minuscolo nella vastità, ma rosso in un paesaggio altrimenti privo di colori. Scendo al primo lago, dove trovo una coppia di francesi fermi e proseguo oltre il Mediano fino a salire sul dosso del bivacco, che ha la metà superiore della porta aperta, nonostante sia vuoto. Le coperte sono in disordine, così mi armo di pazienza e ne piego un po'. Sulle pareti interne ci sono commenti di viaggiatori a pennarello, mentre non trovo il quaderno del bivacco dove lasciare i miei. Per prima cosa scatto una foto al bivacco di fronte alla catena dell'Argentera resa eterea dal blu dell'ombra e dalla foschia della calura. Poi, non avendo progetti precisi, mi fermo dentro a leggere alcuni capitoli del libro sul silenzio che mi sono portato dietro, mentre il vento fa vibrare la struttura e un moscone mi ronza intorno. Mangio quindi il riso condito con aglio e prezzemolo del cestino. Arrivano due francesi a passo arrembante, buttano l'occhio nel bivacco, uno dei due fa un commento sulla moglie e spariscono saettanti come sono arrivati.

Proseguo verso la casermetta diroccata, restando alto sul lago Soprano, il più grande, che come gli altri due ha un bellissimo colore blu. Anche la rete che doveva impedire l'ingresso nell'edificio pericolante è ormai raggrinzita e quasi annientata dagli inverni. Scendo all'emissario del lago, dove scatto qualche foto alle colonne di granito che ho di fronte. Dato che il cartello prospetta solo 40 minuti al colletto di Bresses e le nuvole sono più in alto, decido di farci una puntata. Il sentiero sale a tornanti nel prato pietroso, passando sotto la parete arancione chi mi affascinava dal basso. Sempre con una successione di tornanti, punta a uno stretto canalino di magra erba. Qui tutto sommato si è conservato più di quanto pensassi, con solo pochi passaggi scomparsi e sostituiti da tracce dirette, mentre per il resto sale regolare a tornanti (gli Alpini dovevano portare carichi anche consistenti, per cui i sentieri non potevano essere tracce informi come certi sentieri di escursionisti). Molte giravolte più in alto sono al colle. Mi trovo di fronte una stretta valle di sole pietre chiare, chiusa poco distante da pareti rocciose culminanti con guglie, simili a quelle viste da Fremamorta. A valle intravedo uno dei laghi di Bresses e poi montagne brulle e lontane. Verso destra prosegue il sentiero diretto alla Testa di Tablasses, mentre dritta una mulattiera militare non riportata sulle carte Fraternali né IGN. Non scatto foto, perché la luce piatta dovuta ai nuvoloni che nascondono il sole non valorizza l'ambiente, ma mi fermo solo qualche istante nel vento fresco per prendere appunti.
La discesa è rapida. Poco prima del lago, incrocio un signore solitario che sale. Al lago c'è una coppia con una ragazza ferma sulla riva. Torno al colletto senza prestare particolare attenzione, ricordandomi solo di appuntare che il mulo è arrivato fin qui. Il cielo coperto dei laghi a poco a poco si libera, ma la luce è troppo verticale per scattare foto. Faccio però caso a un costone roccioso con larici sparsi, proteso in un mare di detriti, che si rivela un buon soggetto. Con il ritorno del sole e il calare della quota riprendo a sentire il caldo, che mi aveva dato tregua solo in alto. Mi fermo alla sorgente al bivio, che si rivela così gelida che faccio fatica a bere più di pochi sorsi. Scendo e la temperatura sale ancora, sempre più fastidiosa. Incrocio una famiglia di francesi che si illudono il dosso pietroso poco sopra di noi sia il colle; dò loro qualche ragguaglio. Il sentiero si mantiene spesso sul bordo di una ripida valletta a U, dai fianchi erbosi e quasi verticali, dove scorre un ruscello. Le rocce non sembrano arrotondate, per cui non dovrebbe avere origine glaciale. Incrocio un giovane con uno zaino da 75 l e i pali di una tenda appesi sul fianco, che sta sudando l'anima. Passato un punto franato, la discesa prosegue anche ripida fino a portarmi in un buon punto di ripresa sulla valletta. Al piano superiore del Valasco mi raggiungono tre signori, che si fermano su una pietra a telefonare e poi vedrò al rifugio spazzolare un tagliere di formaggi accompagnato da birre, giustificandosi con la cameriera dicendo che vogliono solo sgravare le mogli dal dover cucinare la cena. Mi affaccio sulla cascata da una roccia a picco, davvero impressionante. Non riesco a scattare una foto che renda l'idea, prima di rendermi conto di dove mi sono cacciato e battere in ritirata in preda alla fifa.
Scendo alla palazzina di caccia, dove mi fermo a prendere un tè con una fetta di crostata. Fuori stanno giocando dei bambini, che sono qui per un'iniziativa di una famiglia che ha perso un figlio in montagna. Domani Irene Borgna, una scrittrice di montagna, li porterà a fare una gita. Verso le 17 mi alzo e me ne vado, perché l'autobus parte alle 18.15 e se lo perdo devo sciropparmi 7 chilometri di asfalto. Tutto sommato ora non rimpiango di aver tralasciato il vallone di Prefouns e il lac Negre, perché di lì il giro sarebbe stato ben più lungo e non so proprio che ora avrei fatto. Mi fermo ancora a bere un bicchiere con i sali alla sorgente all'ingresso del piano e poi giù, senza troppo guardarmi intorno. Mi infilo nel passaggio dove in inverno si scaricano le slavine, che rendono il piano inaccessibile fino a quando la neve si è trasformata (sempre che uno sia riuscito a superare indenne le slavine che il Matto riversa sulla strada delle Terme). Imbocco il vecchio sentiero che taglia i tornanti della strada. Della discesa ricordo solo l'impetuoso torrente che ogni tanto costeggio e per il resto non ho nemmeno notato ciò che sapevo esserci. Alle Terme a ho ancora tempo per un caffè al volo, in un albergo dove ho soggiornato durante la GTA e dove ricordo prodotti di qualità, e poi arrivo al bus 10 minuti prima della partenza, accompagnato da tuoni. Condivido il breve tragitto con due vecchi che devono essere passeggeri abituali, perché hanno l'abbonamento caricato sulla tessera BIP. Non mi resta che trascorrere una piacevole serata in compagnia di una vecchia conoscenza di queste parti e un viaggio nella notte verso casa, dove il gatto mi aspetta dietro la porta. Provvidenzialmente il giorno dopo sono ancora in ferie, perché mi sveglierò alle 9.40. Ferie che impiegherò anche per sviluppare le foto e scrivere il resoconto della gita, sentendomi un po' come l'ultimo re che beneficiò di questa riserva: infatti anche lui amava fotografare e poi condividere i suoi scatti tramite i social del tempo, ovverosia le poste, con i suoi follower coronati. Purtroppo nei libri consultati non ho trovato i suoi scatti, probabilmente persi tra mille archivi in giro per l'Europa.
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steop
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Re: Sentiero reale dei laghi

Post by steop »

belle foto!!

ah come mi mancano quelle pietre rotolanti :risata: :risata:
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teo-85
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Re: Sentiero reale dei laghi

Post by teo-85 »

Giro spettacolare! Complimenti : Thumbup :
La val Gesso regala angoli e scorci molto interessanti e nascosti... forse anche con quell'aria un po' melanconica per via di alcuni antichi edifici o per la rusticità dei rifugi...
"Un uomo va al di là di ciò che può afferrare" (N. Tesla)
"De gustibus non disputandum est"
La montagna non uccide... è l'uomo che sottovaluta i pericoli...
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