L'inverso di Mattie

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awretus
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L'inverso di Mattie

Post by awretus »

Dai castagni ai rododendri, un viaggio primaverile a rebours dalla terra alle nuvole

Partenza: Aghetti 729 m
Tempo: 9.40 h (cronometro)
Dislivello: 1730 m (barometro)
Tempo: 8.45 h (GPS)
Dislivello: 1890 m (GPS)
Lunghezza: 22 km

Mattie è un comune della bassa valle di Susa costituito da gruppo di frazioni senza un centro, dirimpetto a Bussoleno, allungate in una propaggine solatia del versante ombroso, quello rivolto a nord nelle valli delle Alpi Occidentali con andamento est-ovest. In italiano è detto inverso, ma preferisco il temine franco-provenzale, ubac, dal latino opacum, tenebroso, che esprime bene come si mostra tra le brume autunnali. Giace su un piccolo altopiano, formato dal conoide di deiezione, l'accumulo dei detriti fini portati dalle alluvioni, che non ha potuto raggiungere il fondovalle, in quanto ha trovato la strada sbarrata da pinne rocciose sopravvissute all'erosione glaciale, che nel Pleistocene scavò la bassa valle a U. Sono poeticamente dette verruche glaciali (non solo da questo dettaglio si evince che gli scienziati hanno dei pessimi PR). Le propaggini superiori delle pinne, che emergono dal conoide, crearono così anche un mini versante esposto a sud, che in passato potè essere coltivato a vite, ma senza risultati prestigiosi: ël vin brusch ’dla val ‘d Susa (il vino aspro della valle di Susa), sentii dire dai vecchi CAI e il Casalis era della medesima opinione un secolo e mezzo prima. Il dotto torinese non era nemmeno entusiasta della vita e dei modi degli abitanti, che riteneva rozzi e materiali. C'è poi una nota sui vizi degli operai agricoli, che può sembrare solo un pregiudizio sui più miserabili, ma probabilmente esprime la concezione contadina: i contadini erano quasi esclusi dalla circolazione monetaria, ma producevano per l'autoconsumo e barattavano il sovrappiù. Guardavano il denaro con sospetto e ritenevano che chi lo guadagnava con maggiore facilità lo dilapidasse con altrettanta facilità: ad esempio questo pregiudizio è ben documentato nel loro rapporto con i carbonai, che producevano per il mercato e si sostentavano con il mercato.


La parte in quota dell'escursione si snoda nel Parco dell'Orsiera-Rocciavrè, un'area protetta sulle montagne a due passi da Torino. Qui le Alpi compiono un balzo felino dall'afa padana alle nuvole, salendo in pochi chilometri da 500 a quasi 3000 m, talvolta con pendii pressoché continui dal fondovalle alla cima, quasi senza incisioni vallive, se non fosse per i circhi glaciali in alta quota. A causa della vicinanza dell'umida pianura, spesso in estate le vette sono avvolte dalle fresche nubi, a causa dei moti convettivi innescati dall'insolazione, che richiamano aria umida dall'inesauribile catino padano. Può piovere anche quando, nella vicina città, neanche parchi e portici offrono rifugio dal sole cocente. Tuttavia le precipitazioni annue sono scarse in rapporto ai valori medi delle Alpi: sono influenzate dai valori della vicina pianura, con cui il parco condivide la distribuzione stagionale delle piogge. È una zona abbastanza secca, in quanto sottovento alla catena alpina rispetto alle perturbazioni atlantiche, a cui cime che spesso superano i 3000 m fanno spesso da barriera.

I monti sono a due passi dalla città e sul fondovalle fin dai tempi più remoti vi transita un'importante via di collegamento con la Francia. Di qui transitò forse Annibale (la via del col Clapier, nei pressi del Moncenisio, è una delle più accreditate ipotesi di svalicamento alpino), sicuramente Carlo Magno, che sconfisse i Longobardi all'imbocco della valle, e migliaia di pellegrini. Ciononostante, i certosini, che cercavano l'isolamento più assoluto dal mondo, vi trovarono asilo sulle pendici ed edificarono un'abbazia, di cui esiste tutt'ora la chiesa, nonostante già nel Quattrocento fosse stata abbandonata dopo un'alluvione. Anche i forsennati costruttori di skylift e relativi condomini hanno risparmiato questa zona, nonostante la Via Lattea sia davvero a un tiro di schioppo.

Il parco fu istituito negli Anni ’70, per azione delle sezioni della Pro Natura e del CAI di Torino, proprio con lo scopo di salvaguardare definitivamente questa zona dalla valorizzazione turistica sul modello delle stazioni sciistiche, per permettere invece un turismo più rispettoso dell'ambiente, che non compromettesse le attività agro-silvo-pastorali tradizionali. Qui l'ambiente, come del resto ovunque sulle Alpi, è infatti il prodotto dell'interazione tra gli agenti naturali e le attività che l'uomo vi esercita fin dal Neolitico, come testimoniano alcuni ritrovamenti.

Nel corso di questi decenni, sono tramontate le ultime attività agricole di sussistenza e la natura ha guadagnato spazio. Un vecchio cacciatore che incontrai un paio di anni orsono in val Chisone, il versante meridionale del parco, mi raccontò come ai tempi della sua giovinezza, doveva andare a cercare i pochi camosci nelle zone più impervie. L'assalto alla montagna ottocentesco aveva antropizzato ogni angolo, per dare da mangiare a una popolazione in crescita esplosiva. Ai tempi dell'istituzione del parco, solo i cinghiali erano numerosi, a causa delle dissennate immissioni a fini venatori di esemplari ibridi ad elevata prolificità, dopo che si erano quasi estinti. Oggi invece attorno alle cime non è raro incontrare gli stambecchi, mentre nei boschi di media montagna sono arrivati caprioli, cervi e, al loro seguito, il loro predatore principe, il lupo.

Sfruttando le giornate più lunghe dell'anno, ho ideato un anello dai bassifondi alle alte quote, per attraversare tantissimi ambienti diversi, dai castagneti dell'alta collina agli arbusteti a rododendro del piano alpino, passando per i pascoli di mezza montagna, colti nella stagione della piena fioritura. Mancano invece i terrazzamenti per orzo, patate o segale, a causa dell'esposizione ombrosa. Inoltre le due mulattiere, che mi hanno consentito di collegare il fondovalle con gli alpeggi inferiori, sono manufatti di pregevole bellezza e che suscitano ammirazione per il lavoro che li ha generati.


Parto dalla frazione Aghetti, dove in un unico edificio sono condensati municipio, scuole a dispensario farmaceutico. In assenza di indicazioni escursionistiche, imbocco la strada per La Grangia, da cui trovo una mulattiera con indicazioni per l'alpe Toglie e la bergeria dell'Orsiera, precisamente dove voglio salire. Su un fondo selciato, entro in castagneti da frutto, che purtroppo non sembrano più tenuti, anche se qualche cartello di divieto di accesso c'è ancora. In qualche zona (i lotti sono delimitati da bassi muri a secco) è anche cominciata la sostituzione con i pini silvestri, i cui tronchi rossi contrastano con il cielo, che sarà azzurro ancora per poco. Queste conifere sono ben adattate al clima di questa valle, che può presentare forti escursioni termiche e lunghi periodi aridi. Il Rocciamelone, montagna simbolo di questa zona, dotata di leggenda fondativa, alle 8 è ancora sgombro, ma già i bianchi cumuli gli si stanno appropinquando da valle. Non è un fatto insolito: si usa salire su questa montagna alzandosi nel cuore della notte e mettendosi in cammino alle prime luci dell'alba, per poi sciropparsi tutti d'un fiato i 1500 m di dislivello, per arrivare sui 3538 metri della vetta prima di loro. Infatti non lo vedrò più per il resto dell'escursione. Le foto della seconda parte, in cui compare, sono state scattate un altro giorno, così come quelle con persone.

Raggiungo un'area attrezzata, dove incontro un signore a spasso con cane al fianco e sigaretta in bocca. Facciamo a turno per bere alla fontana, dove cambio l'acqua cittadina. Qui il sentiero per l'alpe Toglie è indicato come 527, anziché come 525, mettendomi un po' in confusione, ma dal cartello successivo tutto tornerà a posto.

Seguo per un tratto l'asfalto e poi imbocco una mulattiera sulla sinistra, che s'inoltra nel castagneto, mantenendo per un tratto ancora una pendenza ridotta. Dove termina il castagneto, vedo arrivare da una traccia secondaria un cinquantenne baffuto, con divisa da trail e quasi senza zaino, che mi passa davanti senza vedermi. Lo incontrerò nuovamente alle Bergerie dell'Orsiera, mentre ormai scende, presumibilmente dopo essere salito al colle omonimo (o magari sulla cima, che è però più da alpinismo che da corsa). Se si va in montagna per sport, in effetti ha senso scendere dalla stessa via di salita.

Terminato il cono di deiezione e cominciato il pendio, la pendenza si fa più sostenuta, sempre su sentiero lastricato. Il castagneto lascia posto a una faggeta con qualche pino silvestre, che sviluppatosi nell'ombra, ha un portamento dritto, anziché i rami contorti di quelli dei boschi radi, e anche qualche larice. La luce arriva dall'alto, da oltre il pendio, e ad un certo punto il sole filtra tra le foglie creando dei bei giochi di luce sui tronchi nudi di rami e il sottobosco nudo di vegetazione. Dopo qualche vano tentativo, mi sembra di ottenere uno scatto soddisfacente. La faggeta mi aggrada molto e credo proprio che ci verrò da solo a fotografarla quando le foglie saranno bronzee e le brume avvolgeranno la montagna. Trovo qualche cartello con dei toponimi. A volte degli edifici è rimasto solo il nome o poco più, giusto una croce su un masso, a ricordare quando questo luogo non era così vuoto. Meritano un appellativo anche un tratto di sentiero piano lastricato e qualche roccione, tra cui uno che sembra il becco di un uccello gigantesco cavalcato da Frodo. Non possono mancare le piazzole dei carbonai.

Più in alto il sentiero spiana un po', poco prima di entrare in un pascolo arborato di larici, dove infatti mi imbatto in fatte di vacca fresche e filo del bestiame, oltre che in un camoscio, che parimenti apprezza l'erbetta. Sarà l'unico mammifero selvatico che vedrò oggi, mentre sentirò cantare uccelli a volontà e, lungo l'ultimo tratto di discesa, vedrò anche delle cince da breve distanza.
Poi tendo a non registrare le formiche rufe, che sono diffuse ovunque gli aghi delle conifere consentono loro di costruire i nidi e sono tantissime: con i loro vistosi nidi, nelle foreste mature possono arrivare a totalizzare una tonnellata di carbonio per ettaro. Sebbene costituiscano una frazione trascurabile della biomassa forestale, contribuiscono in maniera significativa al ciclo degli elementi chimici come azoto, fosforo e potassio, accelerandone il flusso e arricchendo il terreno attorno ai nidi. Consumando fino a 100.000 insetti al giorno per nido, sono un'utile strumento di lotta a certi parassiti. Dovrei poi fermarmi un po' di più ad osservare il loro complesso comportamento eusociale: prima della rivoluzione cognitiva dell'Homo sapiens, avvenuta circa 70.000 anni fa, erano le varie specie di formiche gli esseri di maggior successo sulla Terra. Anni fa avevo installato sul PC un programma del MIT, con cui si poteva osservare come la loro complessa organizzazione si formasse seguendo semplici regole, in maniera del tutto decentrata, dall'interazione tra le singole operaie della colonia.

Passo tra due muretti, che delimitano uno stretto percorso, per non togliere spazio al pascolo. Confluisco nella sterrata, che sale da Mattie e la seguo, passando accanto a un gruppo di baite, per raggiungere infine l'alpeggio dell'alpe Toglie, dove i pastori gestiscono anche il posto tappa GTA.


Appoggio lo zaino su una panca e sono subito raggiunto da tre cani con aria speranzosa. Dall'alpeggio esce una ragazza altrettanto speranzosa, con mascherina colorata. Le dico che voglio acquistare del formaggio (ho solo del pane e della frutta) e le mi dice di attendere. Dopo un po' mi chiama dentro. Mi accoglie un montanaro sulla sessantina, senza mascherina, in uno stanzino due per due dove sono conservate alcune forme di formaggio su un tavolo. Nella stanza accanto una signora e un giovane uomo si parlano urlando, ma senza litigare, come tono abituale. Il montanaro mi fa assaggiare una fettina di uno: è un po' asprigna e molto gustosa. Toma dël lait brusch: così chiama la formaggiaia del mercato un prodotto dal sapore simile. Decido che è di mio gradimento e gli dico di tagliarmene una fetta. Lui fa il gesto di tagliare un trancio enorme, da ben più di mezzo chilo, ma io lo fermo e gli dico che me ne serve solo da mangiare durante la gita. Lui si sposta su un taglio leggermente più piccolo e gli dico di ridurre ancora. Raggiunge l'asintoto sui 4 etti, che mi vende a soli 10 € al chilo: per un vero formaggio d'alpeggio è un ottimo prezzo.

Esco e condivido una fetta di pane con i cani, che, raggiunto l'obiettivo, non mi degnano più di uno sguardo. L'Orsiera e il Rocciamelone sono immersi nelle nuvole. Intanto dentro continuano ad urlare e sento arrivare anche qualche bestemmia, per un pasticcio combinato dal vecchio, che si maledice da solo. Escono poi a portare le vacche al pascolo, tra l'eccitazione dei cani.
Mi rimetto in moto e, scattando una foto all'alpe, noto che è ristrutturato con materiali moderni, ma hanno mantenuto le pietre bianche anti-masca sui comignoli. Noto poi come sul fondovalle sia evidente, seppur minuscolo, lo stretto crine dell'orrido di Foresto. Impegnato come sono a fotografare i bucolici dintorni, non vedo un cartello, che mi indirizza fuori dalla pista erbosa e la seguo fino al termine, dove tengono delle arnie. Ritorno sui miei passi e imbocco il sentiero corretto. Taglia il pendio restando più o meno in quota, attraverso del bosco con fitto sottobosco, superando vari impluvi spogli, quali con rio e quali secchi.

Raggiunto il bivio con un sentiero proveniente da La Grangia, prendo a salire molto decisamente, rimontando un costone, sempre nel bosco fitto con lussureggiante sottobosco. Ci vorrebbero un po' di capre. Il bosco è molto vario: alterna faggi e larici, noccioli e altri cespugli, indice forse di passati sfruttamenti e un'attuale transizione, che però non riesco a decifrare. Sudando raggiungo un dosso, che merita un nome sulla carta, dove inizia un pascolo arborato di larici e sono distesi a terra dei vitelli da carne di razza piemontese. In questi incontri mi faccio sempre suggestionare dalla loro prossima destinazione e mi sembrano sempre più mesti delle vacche da latte. A differenza di quelle, inoltre, questi fanno la transumanza classica di alpe in alpe, dove sono quasi abbandonati a sé stessi, non fosse per il filo che delimita i loro movimenti. Farla con le vacche da latte sarebbe invece improponibile, perché bisognerebbe mettere a norma igienica e di sicurezza le stalle e le cucine su tutti i livelli, con costi insostenibili. Queste sono pertanto residenziali nella mezza montagna, dove l'erba cresce abbastanza da poterle sostenere per tutta l'estate.

Restando poco sotto la cresta della dorsale, continuo a salire decisamente, lungo un sentiero non univoco, dove le tacche aiutano. Supero in successione vari abbeveratoi e raggiungo un secondo cocuzzolo, anch'esso nominato, dove cambio lato della dorsale e trovo un tracciato più chiaro, dove le tacche in compenso compaiono ogni morte di papa. Si dirada anche il bosco, ma si addensa la nebbia, che sale dal basso e comincia a coagulare giusto a questa quota, lasciandomi ancora scorgere il fondovalle 1300 m più in basso. La temperatura è calata considerevolmente. Tento qualche scatto sbagliato alla fioritura di rododendri, che mi accompagna dalla base della dorsale. Con pendenza ridotta, vado ad affacciarmi al grande pianoro dove ci sono le bergerie dell'Orsiera, a cui arrivo tra gialle fioriture. Un gruppo di ragazzi si è addensato attorno al pilone votivo, che pertanto scanso, e vado invece verso il bivacco.


Il pianoro è molto ampio e quasi completamente circondato da ripidi pendii erbosi e pietrosi, che delimitano una conca molto profonda: la cima dell'Orsiera è quasi 1000 m più in alto. Dai pendii sono scesi abbondanti detriti fini, che hanno creato dei grandi coni di deiezione. Il fondo è quasi interamente occupato da vegetazione nitrofila, selezionata cioè dall'accumulo dei composti azotati delle deiezioni animali. Al bivacco una famiglia sta preparando un barbecue. Uno dei due maschi adulti, in tema con quanto sentito all'alpe precedente, disquisisce in sequenza del ruolo della bestemmia tra monoteismo e politeismo e quindi della normale del Monviso. La famiglia mi ha lasciato un tavolo libero, a cui mi accomodo per un boccone. Scopro che il formaggio ha due vermetti. Evidentemente i controlli HACCP quassù sono meno stringenti che sul mio posto di lavoro, in città. Non è questo che mi può uccidere, o, come recita la saggezza CAI, quello che non ammazza ingrassa, per cui getto i vermi nel prato e mangio il contorno.

Dal bivacco partono due sentieri, ma nessuna traccia evidente; un cartello però sembra indicare la direzione in cui si vede anche una tacca. Controllo sulla carta che sia quella corretta e mi dirigo lì. Per tutto il piano manca infatti una traccia evidente, ma paletti di legno con tacche guidano, fino a un cartello all'inizio del rodoreto, dove il sentiero torna marcato.

Attraverso quindi zone di cespugli, prevalentemente di rododendri e, nelle zone più umide, di ontani. Ho appena accennato alle fioriture, ma ora è il momento di parlarne estesamente, perché da qui al Toesca raggiungeranno l'acme. A parte i rododendri, sulla dorsale avevo notato dei fiori viola molto appariscenti, con una doppia corona come l'aquilegia alpina e il narciso trombone, che però mi mostravano solo il fondoschiena. In discesa riuscirò a fotografarli e a scoprire così che sono di clematide alpina, un rampicante. Qui poi è un'esplosione di colori, infime pennellate con la punta sui verdi prati. Credo non manchi nessun colore dell'iride: ci sono così tante specie che le avrei dimenticate tutte, anche se le avessi sapute riconoscere. L'aspetto poi affascinante è che salendo si fa un viaggio indietro nel tempo, perché compaiono fiori dalla fioritura più precoce, come le genzianelle o le viole. Mi fermo a fotografare un rododendro fiorito, che ha colonizzato una roccia, mi sembra di calcescisto, mentre un piccolo larice ne ha sfruttato la protezione termica per innalzarsi. Ho dimenticato di annotare il luogo, ma mi sembra sia in questo tratto che ho visto delle marmotte da breve distanza.

Incrocio due signori, che stanno facendo un giro simile al mio, ma partendo da più in alto e in senso inverso. È apprezzabile che ci sia gente che fa giri come questo, dove non si conquistano cime, ma si sta in mezzo alla natura e basta. Vorrei loro spiegare che sono partito dal basso non per motivi atletici, ma perché a me piace vedere tutta la montagna nel suo sviluppo. Ho però a malapena la forza di salutare, perché la stanchezza e l'appannamento procedono a grandi balzi. Ad ogni modo, qualche pianoro erboso e qualche vista sul fondovalle più avanti, riesco a raggiungere il punto più alto dell'escursione, il colle Mulinas, un colle del tutto secondario tra due valloni paralleli. Poco più in alto di me, tra le nebbie di Avalon che ho raggiunto, svetta il monte Rognone. A dispetto del nome e dell'aspetto poco invitante, nella rete si legge che l'accesso è più semplice di quanto sembri. Ad ogni modo, non ho nessuna intenzione di verificare l'informazione, incombenza che lascio a chi deve sente il bisogno di dare il nome di una cima alla propria escursione. La mia non ha una vera meta da raggiungere , è piuttosto un lungo percorso in cui a ogni passo vale la pena di fermarsi e contemplare.
Mi fermo per qualche minuto. Mi sembra che faccia più caldo che alle bergerie. Senza successo cerco di cogliere il momento, in cui il grande larice di fronte a me e il monte hanno l'aspetto più olimpico. In effetti, se avessi abbastanza lucidità da riflettere sulla mia ascesa, potrei osservare che questa nebbia mi isola completamente dal mondo terreno della civiltà di pianura, da cui sto fuggendo con questa lunga escursione. Sono anche arrivato al limite della mia resistenza fisica, raggiungendo per quanto possibile il distacco tra stanchezza delle membra e felicità interiore. L'appagamento estetico del paesaggio può essere raggiunto anche senza camminare, ma l'oblio dei sensi richiede ascesi. Ho pure i capelli rasati estivamente da monaco tibetano.


Il disegno del tratto in quota che segue è esattamente come appare sulla carta: prima si precipita, quasi senza traccia, guidati dai soli paletti, in uno stretto canalone. Si ritrova quindi una traccia, che procede in piano, per quanto è possibile in montagna, tagliando un pendio che più in alto va a perdersi nelle nuvole. Attraverso una distesa di fiori, oltre che dei meno ameni canaloni di frana, che comunque non oppongono ostacoli al cammino, glabri poiché la vegetazione non riesce a svilupparsi per i continui movimenti del fondo. Un aspetto molto interessante è invisibile: in questa zona di confine tra roccia pura e prati, sotto i piedi si va formando il terreno, per la degradazione chimica delle rocce, che apporta sali minerali, anche dovuta agli acidi lichenici, e l'azione biologica e meccanica delle piante pioniere, da cui deriva invece sostanza organica. In questa zona di frontiera, non si arriva mai a un suolo maturo, in grado di sostenere una prateria evoluta: la continua caduta di materiale roccioso e l'erosione dovuta alla marcata pendenza portano materiale grezzo e asportano il suolo più sviluppato, mantenendo inoltre condizioni di elevata acidità, dove solo rododendri, mirtilli e poche altre specie prosperano bene.

Qui la montagna sale dal basso quasi come un pendio ininterrotto, senza punti di frattura, come pianori o incisioni vallive. Ho recuperato un po' di forze e mi godo questo tratto rallentando il passo, fermandomi a fotografare i rododendri e i larici pionieri. Infine raggiungo la Porta del Chiot con una simpatica rampetta tra gli ontani e altri cespugli delle zone umide. Il toponimo franco-provenzale indica un luogo in cui la montagna spiana: infatti qui la dorsale fa una gobba, dove crescono dei larici e cembri pionieri, prima di precipitare a valle.

Un sentiero non segnalato scende dalla dorsale e riporta all'alpe Toglie. Un altro prosegue in quota verso le bergerie del Balmerotto ed è segnalato, contrariamente a quanto riportato sulla mia carta. È un po' pleistocenica, ma è stata compilata dai guardaparco, per cui riporta pressoché tutti i sentieri, anche quelli appena accennati o dimenticati dagli uomini, per cui ci sono affezionato. Io invece scendo abbastanza ripidamente per dei prati sfolgoranti di fiori, generalmente senza traccia. Non so se sia mai esistita, se su questo prato le pecore si disperdessero o se l'incuria degli escursionisti, che tagliano per la più diretta, l'abbia cancellata. Oggi ho avuto varie volte l'impressione che tali tagli abbiano cancellato delle curve, a volte anche con l'avvallo di chi segna i sentieri.

Terminato il prato, molto più in basso (quando mi giro mi stupisco di quanto sono sceso in pochi passi), ritrovo una traccia marcata. I fiori sembrano scemare, ma compaiono più in basso sotto altra forma: gigli di monte, garofani, aquilegie, clematidi. Distese di tutti questi, intendo, prati pieni. Ne fotografo qualcuno: in primavera porto con me un obiettivo dedicato, che in altre stagioni sostituisco con uno più versatile per l'uso paesaggistico, ma non adatto ai fiori.

A parte questa meraviglia, anche il sentiero ha la sua attrattiva: attorcigliandosi e precipitando, attraversa una zona di bosco rado molto dirupata; non rocciosa tuttavia, terrosa, con fittissimo e lussureggiante sottobosco di erbe e piantine. Un'immersione, un valzer forsennato che fa girare la testa, da cui solo le pause per fotografare i fiori offrono un po' di quiete. Mi sembrerebbe quasi di essere in una foresta tropicale, se non fosse per la mancanza delle sanguisughe: qui dobbiamo accontentarci delle zecche. A fine giro ne troverò due: a volte accetto scommesse su dove le ho prese, ma stavolta i luoghi canditati sono troppi. A chi si lamenta dei nostri piccoli aracnidi suggerisco di leggere queste parole di Fosco Maraini: «Ma è destino che non ci si accorga mai di nulla, e soltanto alla tappa, spogliandosi, s'abbiano a scoprire le gambe fiorite d'otricelli ben nutriti a nostro scapito. E i dolori vengono dopo quando le minuscole ferite prudono insistentemente per molte ore, se non s'infettano addirittura, come avviene nei casi più sfortunati. Hooker racconta che certe piaghe prodottegli dalle sanguisughe non guarirono prima di cinque mesi, lasciandogli poi delle cicatrici per tutta la vita!».
Meno male che ci sono passato in discesa, perché al contrario, con quest'umidità, avrebbe rischiato di essere un patimento, una colata di sudore: la salita sull'altro versante era più graduale e arieggiata. C'è anche un emozionante salto di un metro, in un passaggio stretto affacciato sul precipizio, nella zona più scoscesa e in parte rocciosa. Lo risolvo elegantemente di sedere. Il guado sul copioso rio è invece banale, perché arriva in un tratto piano di acqua placida alta un palmo. Il rifugio Toesca è poco più in là.


Al rifugio hanno la mascherina coordinata con la divisa, ma non il gelato fatto con latte di montagna e ai gusti creativi, riservato ai giorni feriali. Mi consolo con una torta di pesche (normale) e Cleopatra, che non è la soave fanciulla che serve, ma l'ottima birra della valle Stura. Ovviamente il produttore la definisce «affascinante, sensuale», con un timido tentativo di lirismo, che non potrà mai eguagliare le pindariche descrizioni delle birre Beba della val Chisone. Mi dispiace aver preso solo la piccola, ma a stomaco vuoto e con la stanchezza non osavo di più. Essendo un po' scettico sulla credenza comune ai vecchi alpinisti, secondo cui la birra reintegra i sali, prima però sciolgo in un bicchiere d'acqua l'integratore di potassio. Avrei potuto chiedere se avevano avanzato delle acciughe al verde del menu di pranzo, perché con quelle, anche il sodio l'avrei reintegrato eccome. Evito invece la loro grappa alla pigna di pino cembro, troppo forte per i miei gusti; con le stesse producono anche uno sciroppo per la tosse. È questo oggi il miglior modo di conservare le attività di produzione alimentare dell'alta montagna, con prodotti superflui ad alto valore aggiunto. Lo stesso fanno all'Amprimo, un rifugio posto poco più basso e a cui arriverò a breve. Era uno degli scopi dell'istituzione del parco: proteggere la natura per consentire a qualcuno, sebbene certamente non a molti come una volta, di ricavarne un reddito e perpetuare la cultura. Nei pressi del rifugio c'è una cascata non particolarmente indimenticabile; più interessante il grande masso di fronte all'ingresso.

Chiedo anche informazioni sul sentiero per cui voglio scendere a Giordani, avendo trovato solo notizie datate. L'esperto del rifugio è però uno di quelli che considerano la montagna «dai pini in su», come ebbe a dirmi una volta un'accompagnatrice CAI con espressione divenuta proverbiale, in cui naturalmente i pini non sono i cembri ma i larici. Ha sentito parlare di qualche sentiero segnalato in basso, ma non ne sa nulla.

Terminato il fiero pasto e rinfrancatomi, riempio la borraccia e mi rimetto in moto. Scendo agli ampi pascoli dell'alpe Balmetta, dove incrocio una vacca con dei vitelli e una signora con una figlia adolescente con scarso entusiasmo. A quell'età hanno solo voglia di stare con i coetanei e credo che solo con un gruppo di tali possano apprezzare la montagna. Attraverso un'ombroso bosco di abeti rossi con anche qualche abete bianco, dove il sentiero si biforca, e per un'avvallamento di prati e larici arrivo al terrazzo su cui sorge l'Amprimo. Forse per la concomitante partita dell'Italia, non c'è molta gente nei prati. La zona era irrigata da una roggia, alimentata dal rio Gerardo, che valica un costone, magari il residuo di una morena, e corre proprio di fronte al rifugio, per la gioia dei bambini, invitati a rispettarla da un cartello.

Un sentiero indicato con il numero 510 cala direttamente a Giordani. Penso sia il più frequentato dai merenderos, insieme a quello in quota dal Paradiso delle Rane, perché in un quarto d'ora di cammino dal parcheggio consente di raggiungere il rifugio. Offre delle belle vedute sull'intero pendio del Rocciamelone, dalla vetta all'intaglio dell'orrido di Foresto. Nella parte superiore attraversa dei dossi pieni di Gentiana lutea, che in questo momento sta fiorendo, in quella inferiore transita da una borgata, chiamata Parisal, che è abbandonata, ma ha conservato un pilone votivo in buono stato, con l'immancabile tebeo posticcio (san Costanso, come è scritto), e delle belle architetture con archi e portici.


Imbocco invece il sentiero dei Franchi, che subito mi porta in una conca con un bellissimo prato brucato. Dall'alpe Balmetta a qui la pendenza del declivio cala bruscamente e ci sono zone ondulate di detriti fini, in gran parte trasformate in prati pingui. Incontro i due signori del col Mulinas, che sono in grado di darmi indicazioni molto precise sul sentiero che agogno, a quanto pare indicato. Attraverso altri bellissimi prati, resi ancor più affascinanti dal controluce sugli alberi, un soggetto che adoro, ma da cui sono riuscito solo una volta a trarre una foto all'altezza (ovviamente era autunno e c'era una sorta di nebbia o foschia). Alle fioriture si aggiunge la Gentiana lutea (quella con la cui radice si produce l'amaro omonimo). Supero un paio di rii, uno dei quali su un ponte di tronchi inchiodati, che getta un pizzico di pepe sulla gita, e raggiungo un gruppo di baite diroccate, costruite chissà perché in una fossa, forse per non togliere spazio ai prati. Qui trovo l'indicazione per Giordani.

All'inizio vado sulla fiducia, non essendoci un vero passaggio tra la vegetazione a grandi foglie delle zone umide e anche qualche ortica, poi una traccia si delinea e non mi resta che seguirla. Poco sotto la traccia si trasforma in mulattiera. Quasi subito incrocio due ragazzi che salgono portando grandi zaini con dei materassini, diretti a qualche rifugio. Quindi il sentiero è percorribile! Meglio accertarsi:
«Provenite da Giordani, Mattie?»
«No…»
Ma dove sarò finito?
«…dalla stazione di Bussoleno».
«Ah, ok, quindi siete passati da Mattie»
«Ma sì dai, quel bel paesino»
«Ah, già»
«C'è solo un problema: ad un certo punto il sentiero si restringe e…»
Oddio, che sarà?
«…ci sono delle ortiche!»
Le ortiche non hanno mai ucciso nessuno. Poi noto che loro hanno in pantaloni corti e quindi magari non li hanno uccisi, ma nemmeno sono state indolori. Vaticinio loro che altre li aspettano: «Beh, sopravviveremo.»

Proseguo per una bella mulattiera che diventa lastricata. Non noto Uglio, a meno che c'entrasse con quel muro di grossi massi a bordo sentiero, ma scorgo addirittura una tacca biancorossa scolorita. Molta faggeta più in basso, varco un vecchio filo del bestiame, che introduce a Cugno Rifero. Cugno è un cognome diffuso nelle Alpi Occidentali, in plurime varianti dell'italianizzazione fascista (l'originale dovrebbe essere Cougn). Questa frazione è la meglio conservata, perché ha dei tetti rifatti di recente anche in lamiera, ma ciononostante le case sembrano comunque in abbandono. Solo un pilone votivo in pietre e cemento è ben conservato, con tanto di statua e fiori finti nella nicchia. I prati invece sembrano ben tenuti: non una ginestra, non un asfodelo, non un ramo caduto. Forse qualche transumanza passa di qui. Penso fosse un insediamento stagionale molto temporaneo, perché non sembrano esserci spazi comunitari o di socializzazione.

Faccio una pausa per bere, perché il caldo delle basse quote fa sentire i suoi effetti. A Cugno superiore le abitazioni sono meno conservate, ma c'è una stalla per bestiame minuto che sembra ancora utilizzata. C'è poi anche qui un pilone votivo con la data dal 1929, ma ridipinto in anni recenti. C'è anche una vasca metallica per abbeverare il bestiame con il tubo di gomma da cui però oggi non arriva acqua. Anche stavolta i prati sono perfetti. A un bivio beneficio di una tacca, mentre per il resto basta seguire la lastricatura. La pendenza è costantemente elevata, per cui credo che questo selciato servisse per farci scivolare le lese con i prodotti del bosco e dell'alpeggio. Cugno inferiore non è tanto diverso dai precedenti.

Dopo tanto bosco, sbuco in una zona un po' più aperta, da cui intravedo il rio Gerardo scorrere in basso. Sempre su buon selciato, raggiungo un pilone votivo eretto in ricordo dell'ultimo conflitto. Si trova in corrispondenza di un bivio; l'altro ramo va a ricongiungersi con il 525, alla cui intersezione c'era un cartello indicante Giordani. Potrei imboccarlo in salita e più avanti dovrei trovare un sentiero che scende non lontano dal parcheggio dove ho lasciato l'auto, ma oggi mi sembra di aver avuto abbastanza buona sorte e in più ho esaurito la voglia di salire, per via del caldo, abbastanza opprimente già in discesa. Da qui c'è uno squarcio nella vegetazione, da cui vedo una qualche frazione di Mattie illuminata dalla luce che filtra dalle nuvole, che qui si sono dissolte, ma persistono sui monti.

Attraverso una zona di cespugli e poi dei castagneti in disuso su pendio molto ripido. Arrivo a Giordani, dove l'imbocco è segnalato solo da una tacca con freccia senza scritte né cartelli. La borgata ha qualche architettura con archi, che meritano una visita. Decido di non cercare un percorso pedonale per raggiungere Aghetti, ma di togliermela passando per la strada, la via più breve, dove vista l'ora di cena e la concomitanza della partita, conto di non trovare traffico. Il traffico in effetti è scarso, ma mi stupisce soprattutto quanta gente c'è in giro indifferente alla partita, piuttosto desiderosa di godere la sera luminosa all'aperto, chi curando il giardino, chi portando a spasso il cane, chi chiacchierando attorno a un tavolo. Ogni tanto una gioia.

Bibliografia

G. Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli stati di S.M. il Re di Sardegna, Torino 1833-1856
P. Debernardi et al., Guida Naturalistica al Parco Orsiera Rocciavrè, Parco Naturale Orsiera-Rocciavrè 1993
B. De Luca, L'arte del fuoco nascosto. I carbonai del Cansiglio, Sommacampagna 2018
L. Finér at al., The Role of Wood Ants (Formica rufa group) in Carbon and Nutrient Dynamics of a Boreal Norway Spruce Forest Ecosystem, Ecosystems (2013) 16: 196–208
G.S.P.A. (a cura di), Parco Orsiera-Rocciavrè. Notizie e cenni di cultura locale, Pinerolo 1979
Pro Natura, Orsiera Rocciavrè. Un parco naturale per la rinascita della montagna, Torino 1976
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Parisal
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Tra gli abeti
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Alpe Balmetta
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Grappa al cembro
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Giglio di monte
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Re: L'inverso di Mattie

Post by Littletino »

Partire da 730m per arrivare a 2.300m (con 22km di sviluppo) in questa stagione richiede doti ascetiche non comuni. Complimenti.

Però l'esperienza ambientale è stata completa, e il suo resoconto molto coinvolgente: terminata la lettura ho controllato di non avere zecche ...

Grazie per aver messo la traccia, me ne sono accorto alla fine, e così ho ripetuto il percorso guardando la mappa, che seguire anche lo sviluppo dell'itinerario a me piace molto.
"Non importa quanto vai piano ... l'importante è che non ti fermi".
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