La strada di san Chiaffredo (bosco dell'Alevè)

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awretus
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La strada di san Chiaffredo (bosco dell'Alevè)

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Il bosco dell'Alevè è un grande bosco quasi monospecifico di pini cembri (elvou nel dialetto locale), una specie di pino adattata alle alte quote. Questo albero è interessante da un punto di vista ecologico, in quanto è in simbiosi con un corvide, la nocciolaia, che si ciba dei suoi semi e ne permette la diffusione: accumulando delle scorte che ogni tanto dimentica, rende possibile il loro trasporto su grande scala e anche in salita, cosa che altrimenti sarebbe impossibile, in quanto, a differenza di quelli di larice, sono troppo pesanti per poter essere trasportati dal vento. Spesso in zone rocciose capita di vedere cembri cresciuti negli anfratti, dove la nocciolaia aveva accumulato scorte. Questo corvide è meno domestico di altri consimili, come i corvi reali o i gracchi, ma nel bosco qualche incontro è possibile.

Pare che il bosco compaia nel libro X dell'Eneide, dove Virgilio in una metafora richiama un cinghiale braccato dal morso dei cani, protetto dal “Vesulus pinifer”. Una citazione ancora più vaga è attribuita a Plinio il Vecchio da vari siti e libri che si copiano a vicenda, senza riportare il riferimento preciso. Verificando le fonti, ho scoperto che nel libro della “Storia naturale” dedicato alle piante selvatiche, il dotto cita la taeda come miglior pianta da resina per la pece, «che si trova di rado e solo in poche zone dell'Italia subalpina» «atque rara nec nisi paucis in locis in subalpinae Italiae» (Storia naturale, XVI (22), trad. F. Lechi). Certe sue caratteristiche collimano con quelle del pino cembro, ma scrive anche che lo diventa a causa di una malattia il larix, termine con cui traduce pure erroneamente dal greco il pino domestico e il pino laricio. Abbastanza confusione e nessun riferimento geografico preciso, ad ogni modo.

Nel corso dei secoli della colonizzazione delle montagne, questa conifera ha visto contrarre il proprio aerale, sia perché il suo tenero legno si prestava a vari impieghi, sia perché i pastori lo sostituirono con il larice, più adatto a permettere il pascolo sotto le sue fronde. Con l'abbandono dell'ultimo secolo l'estensione del bosco è notevolmente aumentata, un processo tutt'ora in corso, osservabile durante questa escursione.


Lasciata l'auto sul bordo della provinciale, attraverso il borgo vecchio di Casteldelfino, arrampicato su un ripido pendio, dove spicca una grande casa con loggiato. Attraverso la via principale, che corre parallela al pendio, dove un vecchio sta borbottando contro i mala tempora, mi sembra però in riferimento al tempo instabile di questo luglio fresco e piovoso, venuto dopo un inverno caldo e secco, e non alla pandemia o al turismo in crisi. Proseguo dritto in ripida salita, raggiungendo una mulattiera inerbita, con rigogliose fioriture di una campanula dai lunghi steli e dai grandi e numerosi fiori. Nel fresco bosco, tra erba grondante di rugiada, raggiungo un'edicola votiva quasi del tutto scrostata, dei cui dipinti rimane una decorazione floreale, e un recinto per le bestie.

A Bertines mi ferma un vecchio, che mi chiede della mia destinazione. Gli spiego il giro che ho in mente e lui approva entusiasta dicendo che gli piace molto. Adesso purtroppo ha le ginocchia malandate («non posso più salire sul Pelvo»), ma ricorda con commozione quando in gioventù saliva sulle cime circostanti, che mi enumera, per passione o per partecipare a feste collettive. «Vai finché sei giovane, perché da vecchio puoi solo andare al ricovero». Mi dice poi che lì c'è dell'ottima terra, «vengono delle carote lunghe e tenere», ma quando lui era giovane la mamma non conosceva tutte queste verdure, piantava solo segale, grano saraceno, fagioli e poco altro. Mi racconta anche che la vita era dura: suo fratello maggiore morì di meningite a soli 16 anni. Mi mostra quindi la pietraia accanto alle case, che potrebbe essere un fiume di pietre tipo Beigua (non una morena perché ci sono solo massi grandi). Mi dice che arrivò lì chissà quando: «fu una specie di diluvio universale». Anche i geologi, prima della scoperta delle glaciazioni, erano soliti attribuire alla pioggia il trasporto dei grandi massi. O magari è memoria storica deformata di un'alluvione che, secondo il Casalis, sul finire del Quattrocento (del Trecento secondo Savi Lopez) colpì Casteldelfino, quando una frana ostruì il corso del Varaita e quindi la precaria diga cedette di schianto sotto il peso dell'acqua.


Oltre al signore, passeggia per la via una signora molto vecchia, con passo rallentato, espressione un po' assente e foulard sulla testa. Proseguo lungo la strada, fino a intercettare la mulattiera, che taglia un tornante e costeggia una grande casa con colonne circolari intonacate e infissi blu. Le rustiche case di Serre sono nobilitate da un pilone votivo ottimamente conservato dipinto nel 1862 da Luigi Gautier, membro di una dinastia di pittori erranti saluzzesi. Oltre le case c'è un recinto per le vacche; vedrò dei vitelli di razza piemontese pascolare più avanti, presso una baita diroccata ai margini della mulattiera. Passo quindi tra prati e zone di folta vegetazione, ai piedi di una zona dove la pendenza del pendio cala. La zona doveva essere intensamente coltivata o pascolata, come dimostrano i molti mucchi da spietramento a bordo sentiero. L'acqua è abbondante per i numerosi rii, tutti regimentati nell'attraversamento del sentiero, l'erba è molto alta e le fioriture numerose, con accompagnamento di farfalle a altri insetti colorati. Oltrepasso vari incroci con sentieri che puntano verso l'alto. Tra i vari edifici che incontro, Grange Auriol conserva i più curati, con un balcone di legno. Le altre, invece, pur essendo anche grandi, sono più essenziali. da notare il termine francofono grange per alpeggio, ricordo di quando la zona era sotto il controllo francese, prima che il Trattato di Utrecht del 1713 la consegnasse definitivamente ai Savoia. In bassa valle, sempre rimasta piemontese, sono invece detti meire.

Oltre grange Brondu, attraverso una zona più selvaggia, con bosco e alcuni impluvi di slavina, colorati di giallo dalle ginestre, che non profumano. Prima di Croce d'Alìe, dopo una fresca faggeta c'è un impluvio scabro più incavato. Alla croce sono più o meno sul confine tra la Castellata e il Piemonte sabaudo: la frazione qui sotto si chiama ancora Confine. Il panorama è assai ampio sia verso la bassa che l'alta valle, dal monte Ricordone con il suo Piantamento post valanga del 1885, al monte Pietralunga con le sue cruente reminiscenze belliche, passando per i grandi prati sotto Cima di Crosa e il bel borgo di Torrette sul fondovalle. A discernere gli elementi, viene in aiuto uno di quei trespoli con dei tubi puntati verso i vari luoghi notevoli, con appiccicato a ciascun tubo il nome dell'elemento osservato, inciso con la macchina da scrivere su una banda plastificata, come si usava quando ero bambino. Passa intanto un trailer con uno zainetto floscio, diretto a Ciampanesio.

Dalla croce comincia una salita piuttosto erta, dove a un certo punto la spugna dei bastoncini quasi mi scivolerà dalle mani sudate, ma comunque su sentiero quasi sempre ben marcato. Il primo tratto è su una dorsale riarsa, oggi ingentilita dalle fioriture. Più in alto cominciano i cembri. Si nota il lavoro di qualche pastore, nelle fatte di mulo lungo il sentiero, nei rami tagliati e in qualche ometto di pietre, dove la traccia si smarrisce. Poco prima di confluire sul sentiero che arriva da grange Auriol, per qualche motivo chi ha segnato il sentiero ha scelto di passare sull'unica pietraia.

A tale quadrivio prendo verso la Croce di Ciampagna, oltrepasso un trivio e proseguo nel rado bosco di cembri, fino a trovare il cartello che la indica, un poco più alta del sentiero. Per vaghe tracce tra erba, pietre e ginepri la raggiungo, restando senza risposta sulla sua origine e significato. L'attuale croce in legno porta una data degli Anni ’90, non compare sulla carta degli Stati Sardi del 1852, né i giornali locali sembrano registrare notizie sulla sua posa o su ricorrenze ad essa legate. Porre croci nei terreni di pascolo sottratti al bosco selvaggio e alle sue creature era una tradizione consolidata, con cui si segnava il passaggio simbolico della zona sotto l'egida della civiltà. La carta storica mostra infatti che una volta questa zona era prativa, come confermato anche dal portamento degli alberi, che si sviluppano a tronco di cono, grazie al fatto che possono ricevere luce anche in basso. Gli alberi delle zone sempre rimaste boschive, che incontrerò più avanti, dove invece in basso gli alberi sono prive di rami, per la densità di popolazione, che impedisce l'irraggiamento nelle zone inferiori. Scendo quindi al trivio a pranzare, perché sono ormai le 13.30.


Mentre sono immerso nel dolce far niente, sento una marmotta fischiare il lontananza. Mi volto e vedo un'aquila reale spiraleggiare sopra di me (l'identificazione la farò a casa con l'opuscolo di Airone; non sperando in tanto non ho con me quello sulle aquile). Non faccio in tempo a prendere il binocolo, ma il rapace mi passa poco sopra e lo vedo lo stesso molto bene. Rapida com'è arrivata, altrettanto istantaneamente planando si dilegua oltre il pendio.

Quando mi rimetto in marcia, sono moderatamente in apprensione: per tutta la pausa ho udito dei campanelli da pecora o capra tintinnare poco distante. Qui il pendio è molto morbido e il bosco rado, per cui c'è ampia possibilità di girare al largo, ma spero comunque di non fare spiacevoli incontri maremmano-abruzzesi. Per fortuna la mandria si rivela essere di vitelli di razza piemontese. Mentre cerco di seguire le vaghe tracce che si disperdono, facendo attenzione a non smarrire la corretta, punto verso tre vitelli. I due più grandi mi puntano fissandomi, mentre il più piccolo resta alle spalle. Come ho sentito spiegare da un veterinario a una conferenza, si tratta di una configurazione di difesa che questa razza assume in presenza di minacce. Questa attitudine alla vita rustica consente loro di cavarsela egregiamente contro la minaccia dei lupi, senza bisogno di supporto. Per buona norma giro al largo e ritrovo una tacca più avanti.

Sono su quella che il vecchio di Bertines ha chiamato la “strada di san Chiaffredo”, dal santo più importante del marchesato di Saluzzo, già citata con altro nome su una carta del 1422. Il sentiero in quota passa dalla Croce di Ciampagna e punta alle grange Pralambert, per poi proseguire nel vallone della Giargiatte, e attraverso il passo di San Chiaffredo fino a Crissolo. Dato che san Chiaffredo per varie ragioni è uno dei miei santi preferiti, decido di usarlo come titolo per la gita (precedentemente avevo in mente “Ai confini della Castellata”).

Sono nel pieno del bosco dell'Alevè. Ciò che lo contraddistingue e che mi porterò come ricordo a casa, è senza dubbio alcuno l'intenso profumo di resina dei pini. Mi entra a satura le insensibili narici. Se fosse agosto, ci sarebbe anche il sapore dei mirtilli, ma è troppo presto. Ci sono poi dei sommessi canti dei passeriformi. Avevo portato il binocolo e le guide per il riconoscimento, ma non sono domestici come sperato. Disturbo anche un paio di nocciolaie intente ad alimentarsi delle pigne. Numerose mosche mi ronzano intorno. Tuttavia l'animale più rappresentativo sono le varie specie di formiche rufe. Se professassi qualche forma di religione veg, non potrei certo camminare qui, perché a ogni passo ne calpesto un po' e, dopo sette ore di passi, quante vittime avrò fatto? Centinaia, migliaia, milioni. Molte più di quante acciughe potrei sterminare in una vita di gite in val Maira.

Quanto alla sfera visiva, almeno sotto l'aspetto fotografico, il bosco non è l'ambiente più amichevole. È affascinante, avvolgente, ma estrarne un'immagine soddisfacente è davvero un'impresa. Ci riesco quasi solo nella nebbia fitta. Ogni tanto c'è qualche esemplare notevole, ma una foto non renderebbe l'effetto immersivo, non separabile dalla visione del singolo albero. Per qualche motivo mi attirano poi gli alberi morti a terra: su un libro di un naturalista, ho letto che «almeno metà del contributo di un albero al tessuto della vita giunge dopo la sua morte, quindi la misura della vitalità di un ecosistema forestale è la quantità di legno morto. Ti trovi in una grande foresta se non riesci a camminare dritto senza dover scavalcare grossi rami e tronchi caduti. Un suolo sgombro è segno di cattiva salute» (David George Haskell, La foresta nascosta). O, per dirla in maniera più poetica, con le parole di Pablo Neruda: «un tronco marcio: che tesoro! … Funghi neri e azzurri gli han dato orecchie, rosse piante parassite lo han colmato di rubini, altre piante indolenti gli han prestato le loro barbe e dalle sue fradice viscere sbuca, veloce, una biscia, come un’emanazione, quasi che dal tronco morto fuggisse l’anima…». (Pablo Neruda, Confesso che ho vissuto). Adesso poi c'è una luce pessima, perché il cielo è biancastro a causa di velature. L'uniformità arborea è rotta solo sporadicamente da rari sorbi.

Raggiungo pian del Chiot, chiaramente un pleonasma introdotto da qualche cartografo, perché chiot vuol dire appunto pianoro. Nella carta degli Stati Sardi era detto piano di Malatraccia e apparentemente non c'era bosco. Il vecchio mi hai poi detto che qui c'erano due tampe (buche) da lupo, di cui quando era giovane già si era persa la funzione, essendosi estinti da tempo, ma era rimasto il ricordo. Cerco di fare attenzione e mi sembra di individuarne una, una fossa irta di pietre appuntite. Dal piano vedo anche comparire il Cherosgno nel vallone di Elva.

Le grange di Pralambert soprano sono raggiunte con una discesa generalmente graduale, con qualche tratto panoramico nell'attraversamento di pietraie. Già da prima di pian del Chiot, su queste era evidente come il sentiero avesse una costruzione accurata e antica, per come erano ancora ben livellate, nonostante in tutti questi decenni di abbandono la natura stia cominciando a riprendersi gli spazi. Nell'ultimo tratto, una zona in piano di bosco fitto, la traccia tende a scomparire, ma le tacche aumentano e compensano. L'alpeggio è costituito da un piccolo e semplice edificio.
Segue poi una silenziosa salita a passo rallentato, tra massi e bosco fitto, sotto una luce divenuta tagliente, per l'uscita del sole dalle velature. Al lago Secco gracchianti corvi volteggiano sulla rupe che lo sovrasta.


Arrivo al lago Bagnour in anticipo sui vaghi piani e temevo di trovarci ancora troppi bagnanti: ci sono invece due sole ragazze. Per la siccità, il lago quasi completamente interrato e ridotto a meandri tra bracci di terra avanzante, è ancora più striminzito del solito. Tuttavia c'è chi apprezza: il Brachipus blanchardi, un minuscolo crostaceo di un centimetro che nuota a dorso, ha infatti bisogno dei periodi secchi per completare il proprio ciclo riproduttivo. I gestori del rifugio si stanno rilassando attorno a un tavolo. Chiedo un tè e una torta al cioccolato, che nella sua rivoltante dolcezza ha una sua ragione perversa. Socializzo intanto con il pastore australiano di una loro amica, che lo richiama severamente quando allunga il muso verso la torta. Arriva poi una famiglia con una figlia piccola, che trascorrerà la notte qui. Prima di lasciare il lago, voglio soddisfare una mia vecchia fantasia di una foto con il Pelvo. La visuale effettivamente esiste, ma lo scatto è un disastro.

Scendo per un tratto in direzione della diga di Castello, su sentiero molto battuto. Al primo bivio, prendo a sinistra un sentiero, inizialmente in quota e poi in lieve discesa, dapprima non molto marcato, poi evidente, che attraversa quella che mi sembra la zona di bosco esteticamente più bella vista finora. Magari è solo la luce che sta divenendo serale. Ad ogni modo, anche qui le foto sono fallimentari. Il sentiero sbuca poco a monte di Pralambert soprano, da cui scendo al sottano passando in un ampio passaggio tra due muri a secco. In questa zona ci sono grandi larici e cembri più piccoli. Evidentemente i malgari avevano trasformato la zona in lariceto, più adatto al pascolo arborato, ma ora la natura si sta riappropriando degli spazi.

Pralambert sottano, pur in rovina, è un bel posto con ottima vista. Su un camino sopravvive il masso appuntito anti-masche. Prima di arrivarci vedo di lontano una nocciolaia su un ramo. Tento di avvicinarmi ancora un po' prima di estrarre il binocolo, ma è un errore fatale, perché lei svolazza via.
Da qui parte un ripido sentiero lastricato, che era adoperato per il trasporto del fieno sulle lese. A febbraio-marzo, quando terminava il fieno a Bertines, gli abitanti venivano qui a prendere le balle accumulate durante l'estate. Il vecchio mi aveva raccontato che, quando aveva quindici anni, sotto il peso della balla da 120-130 kg, troppo per lui, un ginocchio gli si era piegato all'indietro. Mi fa male solo a sentire il racconto, chissà a lui. Ad un certo punto, lungo la discesa si incontra un grosso masso adoperato come sosta.

Scendo tra noccioleti d'invasione, incrocio un signore in sandali, costeggio la pietraia e sono a Bertines, poco dopo che il campanile ha suonato le 18. Mi fermo a una fonte a mangiare un frutto e bere. Davanti a casa c'è un signore che era nel medesimo posto stamattina, mentre il vecchio non è in giro. Peccato, mi sarebbe piaciuto raccontargli le mie impressioni. Ripercorro la mulattiera nel fresco bosco e arrivo a Casteldelfino, mentre da un bar si sente arrivare dell'intrattenimento musicale. Per ora non c'è quasi nessuno, ma i proprietari stanno facendo grandi traslochi di panche a altro in vista della serata. Si sente, tra l'altro, “Staying alive”, molto più scoppiettante della monotona musica occitana. «Ah, ah, ah, ah!».
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Bertines
Bertines
Grange Pralambert Soprano
Grange Pralambert Soprano
Cembri su macereto
Cembri su macereto
Chersogno e Pelvo d'Elva dal Chiot
Chersogno e Pelvo d'Elva dal Chiot
Bosco maturo
Bosco maturo
Pini cembri giovani
Pini cembri giovani
Torrette e Pelvo d'Elva dalla Croce d'Alie
Torrette e Pelvo d'Elva dalla Croce d'Alie
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«Vai finché sei giovane, perché da vecchio puoi solo andare al ricovero» (Saggezza occitana)
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