Punta Ceresa 1268 m

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awretus
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Punta Ceresa 1268 m

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Fra i prodotti territoriali è da notarsi quello delle viti, che forniscono in copia vini sulfurei, i quali smerciansi principalmente nelle valli di s. Martino e Pragelato: il vino di Pomaretto ha per lo più una singolare particolarità: bevuto ezinado con qualche intemperanza lascia libera la testa; ma vacillano le gambe a chi ne fa un uso alquanto smodato.
G. Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli stati di S.M. il Re di Sardegna, Torino 1833-1856

Che idea bislacca piantare dei vigneti in una zona prealpina, dove le nebbie estive sono molto frequenti! Va comunque considerato che nel torinese la piovosità è decisamente inferiore alla media alpina, per via dell'altezza della catena, che ostacola le perturbazioni atlantiche.

Inoltre una volta le bevande alcooliche erano un alimento e non un accompagnamento sensoriale di piaceri edonistici: «La birra Moretti nutre», recitava un famoso poster pubblicitario. Non era pertanto fondamentale cercare le zone più aride e solatie per la massima concentrazione dei principi aromatici. Anzi, il Ramie era prodotto anche in una zona infelice, oggi abbandonata, che non permetteva di superare i 7° di alcool e forniva un prodotto aspro e amaro. Ad ogni modo, questo vino è riuscito a sopravvivere al cambio di paradigma ed è prodotto tutt'oggi. Non l'ho mai assaggiato, perché l'ho appena scoperto, ma mi riprometto di procurami una bottiglia per Natale. Nonostante le condizioni orografiche estreme dove è prodotto, il prezzo non è più elevato di altri vini di zone scoscese, come il Cinque Terre o il Carema.

I ripidi pendii terrazzati a secco si trovano all'imbocco della val Germanasca; in passato era conosciuta come val San Martino, da una tradizione medievale che fece svalicare le Alpi al popolare santo di Tours al colle d'Abriès. Sono una meraviglia del lavoro umano e meritano una visita: se ci fosse il mare, varrebbero abbondantemente quelli perduti di Monesteroli. Invece in basso c'è la bassa val Chisone, densamente residenziale e industriale: lo sfondo delle foto lascerà un po' a desiderare chi ama i paesaggi idilliaci di gusto romantico, ma non inficia l'ammirazione per questa opera mirabile.


Prima che sorga il sole, mentre Pomaretto è ancora immersa nel sonno e il traffico è scarso, parcheggio l'auto lungo la via di attraversamento del paese, sotto un piccolo condominio, non dissimile da quelli operai di Lucento, solo in scala ridotta. Grazie al viaggio virtuale di ieri sera su Street View, trovo subito l'imbocco del sentiero, presso la scuola latina. Fu avviata in altra sede nel 1830 per munificenza di un canonico anglicano, a beneficio dei bambini valdesi, esclusi dalle scuole sabaude; venute meno le necessità che la tenevano in vita, in anni recenti è stata trasformata in centro di resistenza della cultura locale, sia materiale che spirituale. In origine erano insegnate la cultura classica e il francese, che fino al fascismo fu la lingua d'elezione del culto valdese, per il legame teologico con la chiesa calvinista.

Il sentiero lastricato si inerpica subito ripidamente tra alti muri e secco e vigneti. Le viti come in Francia sono legate a pali di castagno o maggiociondolo, alla greca, senza graticciato né fili orizzontali, ma si elevano anche oltre il metro e mezzo da terra. Penso che il muro a secco affiancato ai pali abbia un ruolo non secondario nel creare un microclima caldo e favorevole alla maturazione; magari è grazie ad esso che le viti possono elevarsi così tanto da terra. Vista l'estrema ripidità del terreno, i terrazzamenti (detti bari in dialetto) sono così stretti, che c'è a malapena il posto per passare a piedi. Chiaramente i muli qui non potevano accedere, per cui ogni lavoro doveva essere fatto con la sola zappa e i carichi trasportati a mano. Gli otri carichi di vino arrivavano a pesare oltre 50 kg e non erano vegani, perché si ottenevano uccidendo una capra e asportandone la testa, badando bene a non danneggiare la pelle del tronco, che veniva sfilata. Oggi in gran parte la fatica è quasi la stessa, anche se qualche monorotaia analoga a quelle delle Cinque Terre dà una mano. Sparsi tra i terrazzi vi sono caratteristici depositi, ripari temporanei, locali per la vinificazione e la preparazione del verderame, in pietra e secco e legno, qui detti chabot. Erano anche luoghi di festa, perché durante la vendemmia le donne preparavano i piatti speciali, come quella zuppa di grissini con i chiodi di garofano tradizionalmente ottenuti dal contrabbando, che assaggiai la prima volta circa vent'anni fa al ristoro delle miniere di talco.


Raggiunta la strada, trovo quello che mi sembra un buon punto per uno scatto all'aurora e scendo quindi tra i terrazzi, aspettando che sorga il sole. Fa molto fresco a stare fermi, ma capisco di non dover attendere a lungo, perché la luminosità, oltre l'ultimo dosso proteso su Pinerolo, è molto intensa e già le cime sono rosate. Non mi risulta per niente facile destreggiarmi in questi spazi così angusti, dove si tende a usare impropriamente il grandangolare, ma, anche grazie al buon flare del normale, metto comunque in saccoccia uno scatto soddisfacente.

Riprendo la strada e poi la interseco ripetutamente, su mulattiera che attraversa vigneti su pendii più morbidi e spazi più ampi, sempre eretti attorno ai pali. Terminata la zona favorevole alle coltivazioni, entro in un bosco a prevalenza di querce, su bella mulattiera lastricata, spesso bordata di alti muri a secco. Le loro pietre hanno forma spesso irregolare: evidentemente qui non ci sono gneiss o ardesia o comunque sono rari, anche se in fondovalle esiste una località Lausa, che deve appunto il nome al termine dialettale delle pietre a forma di lastra. Le pietre dei muri arrivavano dallo spietramento dei pendii soprastanti, che sono terrazzati e quindi erano coltivati. Qua e là per salirli ci sono i classici gradini costituiti da pietre piatte sporgenti dal muro, a formare una scaletta: se la mia responsabile della sicurezza le vedesse….


Cerisieri, che prende il nome dai ciliegi, come ricorda un cartello alla fontana, come prima Pomaretto dai meli, è quanto di più genuinamente rustico si possa immaginare. Sono accolto dal dolce odore di letame e dal latrato dei cani; un levriero simile a Piccolo Aiutante di Babbo Natale viene anche a farmi visita. La mia fotocamera è catturata prima da un angolino tra le baite, dove è depositato un parallelepipedo di fieno, accanto a cui una vacca ha lasciato la sua fatta; mi insinuo quindi dentro una stanza aperta, dove oltre a legna c'è una tramoggia di cui ignoro la funzione. Molto ameno anche il circondario, con prati spietrati terrazzati e alberi isolati. Noto che anche i muri delle case, come già dei muretti del sentiero, sono fatti con pietre dalla forma irregolare, ma senza livellare con travi di legno intercalate alle pietre, come si usa in certe zone. Serviva manodopera specializzata, per ottenere un buon muro da un materiale grezzo così informe e irregolare. Le più rare pietre regolari a forma di parallelepipedo sono riservate agli angoli, mentre come architrave per le finestre e le porte è più comune il legno. Queste tuttavia erano spesso piccole, per limitare la dispersione del calore.

In paese il sentiero si biforca: la mulattiera in pietra continua fino a Faure e di lì un sentiero sale a punta Ceresa, l'altra via aggira la cima da est e si inoltra nel vallone del Bourcet. Scelgo la seconda, per motivi geometrici di struttura dell'anello, in quanto da Faure passerò in discesa. In quota, per bosco, raggiungo un punto panoramico con bandiera, dove è stato piazzato un enorme tavolo di legno. Qui lascio il sentiero e prendo a salire molto ripidamente verso la vetta di giornata. Forse un vero sentiero sarà anche esistito, perché ci sono segni di presenza umana come muri divisori o di sostegno a mini-terrazze o lunette che siano, ma ora si procede più che altro ansimando per tagli, per la massima pendenza, in un bosco di querce e pini.

In alto qualche squarcio nella vegetazione anticipa il panorama dalla vetta, ovvero la bassa valle Chisone, mentre l'alta è nascosta dalla piega della valle e dai faggi. In cima non ci sono croci o statue della Madonna, ma una stazione meteorologica, alimentata da un pannello fotovoltaico e connessa tramite ponte radio, e una manica per il vento, chiara indicazione di un decollo di parapendii e deltaplani, di cui vedrò un cartello indicatore più avanti. Che poi chiamarla cima è quanto mai inappropriato, visto che oltre la dorsale Bourcet-Germanasca ondeggia, per poi riprendere a salire verso Punta Tre Valli: si tratta piuttosto di una spalla, dove la pendenza cala bruscamente e la dorsale spiana. Sul versante opposto sono chiaramente riconoscibili l'intaglio del vallone Grandubbione, in autunno uno dei più bei giri di bassa montagna che conosco, e la punta dell'Aquila. Oltre la foschia della pianura, molto in lontananza, con il binocolo si vedono delle cime ignote delle Alpi Liguri, le antenne del Beigua e delle colline langarole indefinite. Dal basso arrivano un ronzio di traffico e colpi sordi di lavoro.

Dopo una pausa rinfrancante e contemplativa, riprendo a camminare tra faggi e pini silvestri, lasciando le ultime querce, che resistevano a 1200 m sul lato solatio della vetta, e la foschia accecante della piana. La dorsale che da qui prosegue fino a punta Muretto presenta un bosco molto fascinoso, che merita una gita, ma richiederebbe un giro troppo lungo per questa stagione, partendo da Pomaretto. Già questo breve tratto di dorsale ondulata, con i faggi nella gloria del bronzo autunnale e i roccioni, me lo fa includere nella lista dei posti da frequentare con le nebbie. Incontro di lontano l'unico altro escursionista di oggi, un signore che raspa fuori sentiero sul lato ombroso della montagna. Non credo sia un fungaiolo, perché la siccità dovrebbe scoraggiarli, almeno in teoria.

Abbandono ben presto la dorsale, in favore di una pista da cui poi si stacca un sentiero diretto a Faure. Nella frazione ci sono sia case ristrutturate che abbandonate; non poche ristrutturazioni furono avviate e abortite in decenni diversi, tra cui una del 2004 con elementi in legno ancora fiammanti. Seguo in discesa la strada di accesso, tralasciando i tagli. A Bocchiardo trovo un'altra casa abitata, anch'essa con ristrutturazioni in itinere.

Al tornante proseguo dritto per uno spettacolare sentiero tra bosco e rocce, nel primo tratto con qualche scorcio sulla zona appena attraversata. I colori autunnali sono proprio nel pieno e questo paesaggio di boschi, radure e case sparpagliate offre il suo lato migliore. Proseguo lungamente tra pareti e pini, un ambiente affascinante che ho serie difficoltà a fotografare, specie con la luce secca di oggi. Ad un certo punto noto un roccione dall'aspetto di un menhir; il fascino dell'insieme è tale che mi sembra anche di scorgere delle incisioni, tanto da desiderare di invocare lo spirito di Sittoni per chiedergli consiglio. Ovviamente la roccia non compare da nessuna parte nei cataloghi di reperti preistorici delle Alpi piemontesi, per cui è pura suggestione (in valle ci sono invece delle coppelle). Raggiungo infine delle zone terrazzate e quindi dei prati invasi, nei pressi della Pro Loco di Bovile.

Scendo per la strada asfaltata, lungo cui sorge una casa isolata riccamente adornata. Entro tra le case ben tenute e i molti fiori di Vrocchi, dove ci sono due auto posteggiate ma nessuno in giro. Vado a bere alla fontana nello spiazzo antistante la chiesa cattolica, con il campanile vivacemente colorato di rosa e celeste e sincronizzato sull'ora solare. Questa zona, che formava il comune di Bovile, aveva un numero di cattolici consistente, rispetto ai canoni della valle. Tuttavia la chiesa è relativamente recente, perché ai tempi del Casalis essi dovevano recarsi a San Martino per assistere alle funzioni, per il sentiero che percorrerò tra poco. Sulla facciata alcune targhe ricordano un prete e altra gente. Il nome del paese deriva dal fatto che in zona erano allevati soprattutto i bovini, cosa allora insolita, in quanto in genere ovini e caprini erano assai più numerosi. La cosa garantiva un buon reddito ai montanari. Una ricotta prodotta qui, il seirass, di cui ho una pusher di fiducia al mercato rionale, compare già nei documenti medievali.

Mentre sono fermo accanto alla fontana, improvvisamente colgo come un'epifania il silenzio perfetto che mi circonda, rotto solo dal gocciolio dell'acqua: non mi metto a piangere per l'emozione, ma invidio chi è in grado di farlo. Solo in poche zone interne delle valli si può assaporare quest'esperienza, perché, come su Punta Ceresa, quando si è affacciati sugli assi principali arriva almeno un brusio del traffico, per non parlare dei rombi delle moto nei festivi. Poi a volte anche qui, nei giorni tersi, gli aerei da diecimila metri scaricano sui monti il loro frastuono, che in città invece neanche sentiamo.

Intanto si manifestano anche i bisogni materiali, sotto forma di un certo appetito, nonostante non sia neppure mezzogiorno, perché sono ormai passate quasi sei ore dalla colazione. Tampono sbocconcellando non ricordo più cosa.


Vado a imboccare il sentiero da un tornante della strada, tra terrazze in disuso. Attraverso un bosco misto, anche con rimboschimenti. Un vecchio nato in montagna, ma poi trasmigrato in un paese di villette padane, mi ha recentemente raccontato che spesso gli abeti di tali rimboschimenti furono piantati dai montanari nei decenni dell'abbandono, su indicazione dei forestali. Oggi la cosa gli sembra totalmente assurda, perché il bosco ha invaso ogni terreno, mentre durante la sua giovinezza avevano difficoltà a trovare legna per scaldarsi d'inverno. Varie schede illustrano peculiarità botaniche ed etnografiche delle molte specie arboree a bordo sentiero. Poco oltre la partenza, uno squarcio offre una bella veduta su Vrocchi e dintorni. Confrontando con foto d'epoca, appare evidente l'espansione del bosco, anche se comunque il versante non si presentava neanche allora completamente pelato.

Il bosco si fa più rado a monte di Granero, dove infine sbuco su ampi prati in morbida pendenza. Il mio obiettivo è catturato da un'amaca di listelle di legno, su un prato di fronte a una casa isolata. Consultando la carta, tralascio il sentiero che scende e proseguo invece dritto per prati in via di invasione dai cespugli, tra muri a secco, fino ad arrivare in vista di Sam Martino, che con la sua chiesa barocca era il cuore cattolico della zona. La chiesa, attribuita alla scuola di Juvarra, il principale architetto della Torino barocca, risale al Settecento, ma fu ampiamente ristrutturata nel secolo successivo, dopo i danni causati da un terremoto. Giunto a una stradina, non consulto la carta e non scopro pertanto che basterebbe seguire per Traverse, per puntare alla chiesa. Scendo invece alle case e mi tocca camminare su asfalto, per raggiungerla.

Sul muretto di fronte alla chiesa faccio la pausa pranzo, in silenziosa compagnia di un signore a spasso con una piccola bulldog, a cui si rivolge come fosse sua moglie. Lei socializzerebbe volentieri con me, se il padrone non fosse così schivo e la tenesse stretta a sé.


Ripercorro la strada a ritroso, fino a trovare una pista erbosa in discesa con indicazione per una meta diversa dalla mia, ma chiaramente quella giusta. Non ci sono sempre indicazioni in questo giro, ma con una cartina perdersi è difficile. Per radure, tra alberi dagli sfolgoranti colori, specie i ciliegi, seguo una mulattiera in quota, a volte un po' invasa da cespugli spinosi. A un bivio finalmente trovo un'indicazione per Villasecca.

Lì pascolano tre mucche, con campanacci talmente rumorosi e muggiti così insistenti, che avvicinandomi ho la netta impressione che sia in corso la transumanza. Se leggessi le guide prima di fare le gite, e non dopo, saprei che dovrei mettermi a cercare la fontana lapidea esagonale della frazione. Attraverso quindi un bosco più selvatico, in passato di castagni da frutto, ora misti a pini silvestri. Passato un punto panoramico sulla profonda valle, il sentiero si ritorce, salendo, scendendo e traversando.

In questo caos trascorro non poco tempo, fino a confluire in quella che era la principale mulattiera selciata di accesso a Vrocchi. Per quanto possa sembrare strano a noi automobilisti adusi alle carrozzabili ottocentesche di fondovalle, queste due erano le principali vie antiche della valle, perché una volta si viveva e si transitava a mezza costa, meglio esposta, evitando i fondovalle bui, umidi e soggetti alle alluvioni. Questi furono colonizzati solo in un secondo tempo e solo dopo l'abbandono e la diffusione dei mezzi motorizzati sono divenuti i fulcri della vita.

Purtroppo non possiamo andare molto indietro nel tempo: la valle è citata la prima volta in un documento del 1064 (l'istituzione dell'abbazia di Abbadia Alpina da parte della contessa Adelaide di Savoia, che la include nei suoi possedimenti), ma solo nel secolo successivo, in una bolla papale, compare la notizia della presenza di due chiese. Una sarà stata quella i cui resti si trovano nei pressi dell'attuale chiesa di san Martino, che dava il nome alla valle, l'altra è ignota.

Poco oltre la congiunzione, la mulattiera termina temporaneamente in una strada. La seguo in discesa, nel fitto bosco misto, passando per delle piccole frazioni di case isolate. Accanto a uno un miscelatore per cemento ricorda i perenni e incompleti lavori di ristrutturazione delle case contadine.

In una zona aperta ritrovo la mulattiera, accanto a un recinto di corda dove pascolano delle pecore. Mi fermo a fotografarle. Quando mi allontano, fa sentire la sua voce il maremmano di guardia, rimasto in disparte quando quasi le toccavo: uno che non vuole grane. Ritrovo la mulattiera selciata, che scende tra balze boscose e inopinatamente un po' di umido, che ha resistito alla terribile siccità di quest'anno: ci sono addirittura delle mazze di tamburo sul sentiero. Raggiungo il ponte Batterello, dove la mulattiera si staccava dal fondovalle. È un peccato che ora non ci sia neppure un cartello che la segnala.


Seguo brevemente la provinciale, prima di trovare una pista sterrata, che corre un poco più in alto e ha il suo traffico simbolico, nella forma di un'auto di un ente pubblico. Ritrovati i vigneti e superato un gruppo di case, imbocco un sentiero ripido per vigneti molto arditi, solo quelli più estremi perduti. Per angusti percorsi selciati, dove passano solo i magri, sul ripidissimo pendio, a zig-zag raggiungo un'ampia pista erbosa pianeggiante. Un signore dall'aria aristocratica, accompagnato da due cani, è seduto su un panchina a gustare l'ultimo sole del pomeriggio. Facciamo due chiacchiere a proposito di colori autunnali: lui mi consiglia un viale di gelsi vicino alla grande chiesa barocca di Villar Perosa legata agli Agnelli, ma io preferisco le faggete di montagna lontano dalle automobili.

Alle spalle del signore, alcuni cartelli illustrano le proprietà del Ramie. Non sto a scendere nei dettagli: mi limito a dire che è una miscela di quattro vitigni adattati alla montagna grazie alla maturazione precoce (ciononostante la vendemmia avviene a inizio ottobre), diffusi anche nelle valli limitrofe e in Francia. Uno di questi l'ho anche provato al pranzo di ferragosto in val Maira, dove è conosciuto come nebbiolo di Dronero, solo omonimo del vitigno del Barolo, non so se imparentato con il nebbiolo di montagna della Valbrevenna nell'Appennino ligure.
Faccio una pausa merenda su un muretto a secco, poco sotto uno pseudo-chabot dalle anacronistiche vetrate, trasformato in locale di degustazione. Durante i mesi più caldi e anche di notte, a giudicare dall'abbondante illuminazione, vi sono delocalizzati i riti metropolitani degli aperitivi, come mi spiegherà la signora con cui chiacchiererò più tardi a Pomaretto. Anche se non coltivo il culto tutto italiano per il cibo, del fare una gita solo per passare dal sedile di un'automobile alla tavola di un ristorante, sono davvero contento che i vigneti siano trendy e consentano a varia gente di resistere in montagna, per di più nella bassa montagna senza piste da sci, quali come contadini, quali come ristoratori, quali come guide. Oggi l'agricoltura di sussistenza di una volta non avrebbe più senso: bisogna esportare prodotti voluttuari ad alto valore aggiunto, da vendere condendoli con l'esperienza della montagna. Sono un po' meno soddisfatto dell'importazione di una panchina gigante, il numero da circo del paesaggio come puro teatro delle nostre imprese, oggi di gran moda, che evito di visitare.

Dal termine della pista, chiusa con cancello ligneo e metallico per tenere fuori i caprioli ghiotti di germogli, scelgo un sentiero, che mi fa fare un giro più lungo, ma resta ben saldo nella zona dei vigneti e degli chabot. Una pista cementata mi porterebbe invece direttamente nei pressi della scuola latina. Finisco sulla provinciale, da cui in breve mi infilo nella zona vecchia di Pomaretto, molto curata. Non doveva essere così ai tempi del Casalis, che la descrive come piena di immondizie.

Incontro una signora bassa e corpulenta, dai lineamenti e dall'accento molto valdesi, che si dice preoccupata della ripresa della pandemia nelle scuole dei dintorni e certa che sia stata scatenata da coloro che hanno «i bagagigi» per farsi la guerra tra di loro. Lei cantava in un coro e patisce molto l'arresto forzato. Non sa se finirà mai: «Chi sopravviverà vedrà», concludo con il mio ottimismo cosmico. Mi chiede infine della gita e mi racconta appunto degli aperitivi nei chabot e di tutto il positivo indotto che alimentano.

Fossi passato di qui un mese più tardi, in paese avrei potuto concludere tra i postumi della sagra del Ramie, che si tiene verso fine novembre, e avrei potuto aggregarmi agli sbronzi intenti a cantare nel bar vicino a dove ho parcheggiato. Invece in settimana è pure chiuso il birrificio Beba, le cui birre piacciono persino a chi non ama questa bevanda. Non mi resta pertanto che un astemio rientro, anche se almeno una sostanza psicotropa la rimedio nei pressi del SKF di Villar Perosa, sotto forma di un gustoso caffè.
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Pomaretto
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Chabot
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ma che colpa io posso avere se la montagna presenta tanto di bello, che lo scritto ed il discorso diventano prolissi per accennare solo di volo ciò ch'essa porge d'interessante all'osservazione

M. Baretti, “Per rupi e ghiacci: frammenti alpini”, 1875
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