I laghi di Brusson

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awretus
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I laghi di Brusson

Post by awretus »

In un baleno: laghi a garganella, ma anche castelli incantati, boschi di conifere, filoni auriferi, prati fioriti, ru, morfologie glaciali, noci alpinisti e villaggi perduti

Partenza: Brusson 1300 m
Tempo: 9.30 (cronometro)
Dislivello: 1750 m (barometro)
Tempo: 8.00 (GPS)
Dislivello: 1860 m (GPS)
Lunghezza: 20,1 km

Ci vuole una mente affumicata dal narghilè per concepire una gita in val d'Ayas in cui non si vedono il Castore e il Polluce. Non c'è però solo la muraglia ghiacciata in questa bella valle: sulle pendici delle cime che la separano dalla valle di Gressoney, tra Brusson e Gressoney St. Jean, antichi circhi glaciali sono occupati da molti ameni laghetti.

I più turistici sono i laghi di Palasina, meta prediletta di torme di merenderos che nemmeno salutano quando t'incrociano. Richiedono pertanto di essere visitati al pomeriggio, quando costoro si sono dileguati e li hanno restituiti alla loro pace atavica, peraltro già turbata in passato da un'orda di soldati austriaci ivi asserragliati. Ci sono quindi salito per vie traverse e meno frequentate, visitando gli altri laghi per la via e allungando l'avvicinamento. Per maggior sicurezza, ho scelto una domenica in cui la nazionale italiana di calcio era impegnata in una finale di un qualche campionato intergalattico, garantendomi così un dissolvimento anticipato dei tifosi.

Con questo giro son gavame la nata (mi sono tolto il tappo), come dicono dalle mie parti per indicare il conseguimento di uno sfizio: ho infatti visitato in una singola gita una buona parte dei laghetti di questa zona. Non c'è solo questo nell'escursione: anche una miniera d'oro, boschi secolari di pini silvestri, un borgo dimenticato, abbondanti fioriture sono altri gustosi ingredienti di questa succulenta abbuffata. A fine gita mi sono sentito come uno stercorario nel mezzo di una fatta di vacca.

Poi, non so perché, dimentico sempre di annotare i canti degli delle cince e dei passeriformi nei boschi. Sarà che fatico a ricordare il titolo di brani strumentali sentiti mille volte, per cui non riuscirò mai a riconoscere le specie dal canto, sarà che mi sfugge il significato dei loro gorgheggi, ma mi limito ad apprezzarne il valore estetico, sarà che non ho un obiettivo idoneo a riprenderli, ma sta di fatto che sono sempre troppo superficiale su questo aspetto. Qualche volta dovrei almeno fermarmi nel bosco e provare a seguirli con il binocolo.


Quasi nessuno circola per Brusson alle 7.30 di una qualsiasi domenica di luglio. Una villeggiante sta tentando di socializzare con un vecchio del posto al bar dello slargo. I valdostani non godono di eccellente nomea, ma questi baristi sono gentili. Il caffè però non è dei migliori.

Seguo la viuzza che taglia in quota il paese, diretta al quartiere di Pasquier. La sinergia tra una vecchia guida, la cartina e Street View mi suggerisce che dovrebbe partire da qui il sentiero diretto alla miniera d'oro. Passo tra case ben tenute, con balconi in legno, e i caratteristici rascard, i granai realizzati in legno con tecnica blockbau; sono sorretti da funghi di legno e pietra, per impedire l'accesso ai roditori, e sono in legno per garantire una buona areazione e impedire gli incendi per il surriscaldamento da fermentazione. Sono un'eredità culturale dei Walser, popolazione di immigrati germanici che in questa valle non è rimasta a lungo, ma ha lasciato tracce tutt'ora visibili.

Riempio la borraccia alla fontana; l'acqua si rivelerà più diuretica di un tè. Incrocio un signore che viene a riempire delle bottiglie e mi indica che a sera il castello di Graines, che sto fotografando ai piedi delle Dame di Challand, due cime gemelle della bassa valle, potrebbe essere illuminato dall'ultimo raggio di sole. Non sarò abbastanza curioso o speranzoso e al rientro non verrò a verificare le sue parole. Già ai tempi del Casalis il castello risultava «tutto scassinato». Mezzo secolo più tardi, l'abate Gorret riferisce una leggenda secondo cui custodiva dei tesori protetti da un incantesimo, che si scioglieva il Venerdì Santo e alla mezzanotte di San Giovanni Battista. Un individuo, la sera precedente di quest'ultima festività, con una corda si calò nella cisterna del castello, per attendere l'ora favorevole. Pochi minuti prima di mezzanotte, udì dei rumori sopra di lui. All'ora precisa, vide il cielo scomparire e un corpo enorme e opaco ostruire l'ingresso, per poi scendere, agitando delle membra. L'uomo cacciò un urlo disumano e vide una massa informe cadere gemendo: il tesoro! Trascorse la notte più terribile della sua vita nell'attesa e, quando finalmente fu chiaro, riconobbe un suo vicino. Con l'aiuto di un compagno, si era calato anche lui con la corda che aveva trovato, senza sapere nulla del suo predecessore; terrorizzato dall'urlo, il compagno aveva mollato la presa ed era scappato a gambe levate, mentre lui precipitava. I due contrassero quindi una terribile malattia; uno morì, l'altro ne conservò sempre ricordi vividi.

Trovo l'indicazione per la miniera, entro in un piccolo prato e successivamente in un bosco misto di larici, faggi e aceri, tra fioriture di orchidee. In questo anno siccitoso, prato e fondo del sentiero sono piacevolmente umidi, grazie alla pioggia che era prevista per stanotte. All'inizio la salita è un po' da capre, ma più in alto, dove il bosco diventa di pini silvestri, intercetto una regolare mulattiera a tornanti, costruita con pietre a secco. Mi pareva strano che la miniera non fosse raggiunta da una mulattiera, tanto da temere di aver imboccato una falsa pista: chissà che fine ha fatto la parte bassa. Il bosco è fitto, di alberi fini e alti, con ramificazioni solo molti metri sopra il terreno.


Raggiungo il centro visite della miniera del monte Chamousira, il cui gabbiotto era visibile già da Brusson. Il punto è assai panoramico sul paese e lo Zerbion. Dei cartelli consunti propongono due modalità di visita e il relativo prezzo. Il fascino dev'essere dettato soprattutto dai cristalli di quarzo che contengono l'oro, che si formarono 30 milioni di anni fa da attività idrotermale, la cui origine è tutt'ora oggetto di dibattito. Oltre a questi, sono stati rinvenuti ben 56 tipi di cristalli diversi, dall'actinolite alla zoisite, volendo andare in ordine alfabetico. Prima o poi verrò a farci un giro.

La coltivazione dell'oro in valle probabilmente cominciò già dalla notte dei tempi, in quanto nella bassa valle è stata rinvenuta una pepita d'oro in una tomba dell'Età del Ferro. I Romani preferivano invece sfruttare i depositi alluvionali auriferi, più semplici da scavare pur se meno produttivi, come ben documentato nel vicino eporediese. Di giacimenti in bassa valle ci arriva qualche notizia dal Medioevo ma soprattutto dal Cinquecento. L'epoca più produttiva della miniera di Chamousira cominciò molto più vicino a noi, nel 1902, quando i diritti di sfruttamento di questa zona furono rilevati dalla società inglese “The Évançon Gold Mining Company Limited” (l'Évançon è il torrente principale della valle), da una società svizzera che aveva avviato lo sfruttamento. Già nel 1907 la resa andava calando e nel 1913 fu revocato il permesso alla società inglese. Dopo alcuni tentativi fallimentari, una società torinese ottenne dei discreti risultati con un diverso filone ancora tra il 1937 e il 1953. Oggi tutti gli accessi sono sbarrati.


Lascio il centro visite e riprendo a salire in direzione La Croix. In lontananza compare il Monte Bianco. Con brevi deviazioni, raggiungo alcuni ingressi della galleria, tutti sbarrati, e, più in alto, anche il pozzo del filone Fenilliaz, il più produttivo di tutti e quasi interamente sfruttato, che arrivava ad avere fino a 10 g di oro per tonnellata. Da qui proseguo in quota tra i larici e i pini silvestri, fino a sbucare sui prati di La Croix, dove incrocio la strada diretta a Estoul. Vorrei fotografare la chiesetta affrescata insieme a un signore del posto a passeggio, ma lui, credendo di farmi un piacere, si scansa. Alla fontana è appeso un foglio plastificato, su cui sta scritto che le analisi di una settimana fa hanno decretato che l'acqua va bollita per il consumo umano. Avevo già notato a Brusson che mancavano i soliti cartelli farlocchi di acqua non potabile alle fontane, apposti solo per non doverla controllare: dunque qui fanno le analisi periodiche, per verificare la potabilità. Sono più coscienziosi o forse solo più ricchi.

La mulattiera per Estoul non è indicata, perché nessuno pensa che si possa salire a piedi, dal momento che c'è la strada, ma grazie alla cartina la individuo subito a monte delle case e vado a imboccarla. Proseguo in leggera salita, ora in ambiente molto aperto con vista sull'infilata della valle, dai sottostanti prati di Cassot e Fenillaz, fino ai monti della Valchiusella. Supero dei vitelli e un pastore, che sta tirando il filo. Oltrepasso un'edicola votiva e tra prati fioriti raggiungo la strada per Estoul. Entro nell'hameau, tra case ristrutturate in stile, bevo a una fontana e mi fermo per la pausa della crema solare alla chiesetta, su cui è affrescato san Lorenzo con la graticola. Il sole abbrustolisce anche me, nonostante non siano neppure le 10.

Proseguo lungo la strada. Bizzarramente ma coerentemente, il sentiero che prosegue verso monte non è segnalato dal paese, ma dal parcheggio delle auto. Questo perché gli escursionisti di confessione ortodossa salgono in auto fino al punto più alto possibile, come prescrivono le sacre norme, non scritte ma devotamente rispettate. Pertanto, noi heretici, che saliamo a piedi, dobbiamo ritagliarci un percorso alternativo alla distesa di automobili, che per fortuna la carta mi consente di individuare: entrato tra i pochi edifici di Fenilletaz, salgo a un gruppo di baite, dove trovo un sentiero, che mi permette di attraversare un prato traboccante di fiori senza rovinarlo. Qui delle mucche pascolano all'ombra di uno skylift. Seguo quindi una strada nel lariceto e sbuco infine sul sentiero ufficiale, dove mi trovo in mezzo a vari groppuscoli, assediato da monte e valle.

Per fortuna quasi tutti vanno direttamente ai laghi di Palasina, passando tra gli impianti sciistici. Al primo bivio prendo invece a destra, inoltrandomi nel bosco di larici di Moucherolaz. Supero due signori con un figlio adolescente, che avevo già salutato a San Lorenzo. Il sentiero, che fa anche da pista di servizio a un acquedotto, prosegue in lieve salita, tagliando un bosco di larici non molto fitto, probabilmente per permettere il pascolo su questo pendio troppo ripido per il disboscamento. Alle spalle fanno capolino ancora il Bianco e poi delle cime che potrebbero essere l'Avic, il Glacier e magari la Tersiva e la Grivola. Le pareti nord hanno abbastanza neve.

Raggiungo il fondo del vallone dove il bosco lascia spazio ai prati; una famiglia è alle prese con un guado. Il passaggio è davvero elementare, ma richiede di poggiare il piede su una pietra sotto il pelo dell'acqua, per cui il bimbo e la mamma sono in difficoltà. Rimonto una successione di dossi, immagino una morena vegetata, a cui si alternano dei pianori acquitrinosi. In uno di questi, c'è un edificio a truna, con il tetto di erba raccordato al terreno a monte, per resistere alle valanghe. Da un altro si diparte un ru lastricato, non più in uso. A terra delle rocce hanno delle inclusioni colorate molto sinuose: si tratta con tutta probabilità di gneiss. Il vallone si restringe un po'. Trovo una fontana, talmente fredda che riesco a bere appena due bicchieri, prima che l'esofago si ghiacci.

Sulla cresta di fronte, poco più in alto, c'è una teoria di strani pali alati, che secondo una signora sono dei paravalanghe. Raggiungo il lago di Estoul, poco più di una pozza, ma cui si riflettono delle cime aguzze molto fotogeniche pur se in ombra, innominate sulla carta. Il successivo, il lago Chamen, sembra sempre profondo al massimo un palmo, ma è un po' più grande e ha una curiosa forma fetale, per una penisola che si insnua al suo interno. Sulle sue rive c'è un pescatore; un altro l'avevo visto scendere tra i dossi morenici. Questo lago mi sembra più gradevole e lo eleggo a sede di una pausa rifocillatoria.


La successiva salita a un colle senza nome ai piedi della Punta Valnera, che ha anche un nome Walser per gli insediamenti in val di Gressoney, non è certo un sentiero disegnato dai pastori per portarci le vacche: sale ripido per la massima pendenza. Purtuttavia è molto piacevole per l'abbondante fioritura di genziana di Koch e il punto di vista aereo sui due laghetti. Mi superano due signore più vecchie di me, ma dal fisico e dalla divisa assai più sportiva, che poi puntano senza fallo alla vetta. Al colle mi aspettano due signori, che hanno mollato mogli e zaini al lago, e una coppia, che consiglia loro di proseguire anch'essi fino alla vicina vetta. Sono tutti molto avanti con gli anni. Dal colle vedo un po' al filo i laghi di Palasina e il Corno Bussola. Visto da qui non ha una forma svettante, ma si presenta solo come culmine spelacchiato di una successione di dossi erbosi. Senz'altro sarà panoramico, essendo isolato, ma come balcone sul Rosa preferisco la Testa Grigia, che pur nella sua severa acromaticità è molto più fascinosa. Probabilmente sul versante opposto è molto più dirupato e più vettoso: in questa zona di rocce scistose sono molto frequenti le cime verdeggianti su un lato e scoscese sull'altro. È una configurazione geologica molto comune, chiamata a reggipoggio e franapoggio dagli specialisti, palon dagli alpigiani di Ayas, quando gli strati di rocce scistose sono su un versante parallele al pendio, sull'altro perpendicolari.

Scendo per i primi metri molto ripidamente, prestando attenzione a una chiazza di neve ghiacciata, poi per bel sentiero. Taglio un secondo nevaio, lascio sulla destra il sentiero diretto alla Punta Valfredda, anch'essa con secondo nome Walser, e attraverso una zona ondulata, nelle cui conche ci sono molti laghetti effimeri. Incontro un cucciolo di stambecco, che si spaventa alla mia comparsa, fa uno scatto, mi fischia contro e poi si dilegua tra i dirupi. Il sentiero fa un po' di su e giù, restando molto panoramico verso le cime oltre la valle centrale viste già salendo, prima di precipitare decisamente verso il rifugio Arp.

Per ora lo lascio lì e vado a pranzare al primo dei laghi di Valfredda, che raggiungo con un breve strappo tra prati fioriti. Il lago si trova in una conca verdeggiante ed è circondato da un acquitrino. Purtroppo la stagione è ancora acerba e mancano gli eriofori. Sulla sponda c'è un dosso che culmina in un roccione, purtroppo già occupato. Vado perciò a sistemarmi sulle rocce montonate che chiudono il lago a valle, notando un certo viavai lungo il sentiero.


Dopo pranzo scendo al rifugio a prendere un caffè, che si rivelerà il più lungo della mia storia: devo infatti fare un'interminabile coda alla cassa, dove sono disorganizzatissimi nel far pagare prima due avventori non prenotati, poi un gruppo CAI che vi ha trascorso due notti. Resto a snervarmi e tormentarmi, mandando maledizioni contro i gestori e gli innocenti clienti: «per la dannosa colpa de la gola, come tu vedi, a la coda mi fiacco». Nello stress mi dimentico anche di rabboccare la borraccia alla fontana esterna. Chiaramente la giustizia che mosse l'alto fattore di questo paradiso naturalistico vuole punirmi, oltre che per il vizio capitale della gola, anche perché ho rinunciato all'idea di percorrere la cresta Palasina e scendere ai laghi dall'alto, accorciando così il percorso e optando per la via turistica.

Tra folle che rientrano, imbocco il sentiero che taglia in quota un ripido pendio. Di questa gente, nessuno saluta per primo e quando lo faccio io quasi tutti mi guardano straniti. A un bivio imbocco una sterrata in salita, da cui si stacca il sentiero che risale l'avvallamento dell'emissario dei laghi di Palasina. Da esso si diparte un ru, che allaga con le sue perdite il sentiero. Raggiungo il primo lago, dove una consistente folla si divide tra chi scende a valle e chi si attarda sdraiato sulle sponde. Mi scosto per lasciar passare un gruppo più gentile della media. Secondo il Casalis, non so in base a quali fonti, il primo lago dovrebbe ispirarmi ribrezzo, ma nulla è più lontano dalla verità: è parecchio ameno, di color azzurro cielo in una conca verde. Anche qui mancano gli eriofori, ma mi posso accontentare. È collegato da una specie di canale al lago della Battaglia, così chiamato perché, in un passato remoto e imprecisato, «secondo un'antica tradizione, un grosso corpo di truppe austriache trovossi ridotto a mal partito, quantunque si fosse impadronito della vantaggiosa positura di cinque laghi a questo vicini», narra sempre il Casalis. Fonti discordanti collocano l'evento nei periodi storici più disparati.

Vista la folla, dopo un detour per una foto fallimentare decido di proseguire oltre. Supero un gradino erboso al seguito di una manciata di motociclisti a pedali che spingono delle ebike, quindi con fatica doppia, dovendo sobbarcarsi anche batterie e motore.

Il successivo lago Pocia è quanto di più incantevole possa immaginare. Chiuso anch'esso in una conca verdissima, è verde visto da valle, oltre che di altri mille tinte vicino alle sponde, dove l'acqua è solo un velo trasparente e lascia vedere il fondo. Una lunga pausa contemplativa è assolutamente inevitabile. Mi siedo sul prato presso la riva, ai piedi della barra erbosa che lo chiude a monte, ammirando il colore blu e una cima rocciosa, forse Punta Valnera, riflettersi quando la brezza smette di increspare la superficie. Attorno a me volteggiano delle farfalle viola e grigie, posandosi ogni tanto sullo zaino e i vestiti. Credo che potrei resistere delle ore immobile sotto il sole ad ammirare questo paesaggio, alternando contemplazione al flusso di pensieri nella testa.

Supero quindi un salto vallivo su un sentiero molto ripido, raggiungendo il lago Lungo e il bivio per il colle di Bringuez. Prendo a sinistra, supero un costone dietro al quale sorprendo una marmotta, che metto in fuga. Fino allo stretto intaglio del colle il percorso è molto aereo, ma non pericoloso, con una vista da sogno sui sottostanti laghi. Quasi sicuramente i dieci minuti più incantati della camminata.

Al colle mi affaccio d'improvviso su un paesaggio completamente diverso: sono sul bordo di un ripidissimo e verdissimo circo glaciale, profondo 150 metri rispetto alla mia posizione a cento in più rispetto alle cime rocciose più alte. Al fondo, blu cobalto, vasto e quasi circolare, giace il lago di Bringuez. Varie fonti fanno riferimento alla cupezza: ad esempio la mia guida cita «l'aspetto più cupo che diventa quasi tetro nelle giornate nuvolose». Il Casalis cita invece le molte valanghe primaverili che vi piombano dentro. Ancora intorno al 1980 poteva restare ghiacciato fino a stagione inoltrata. In questo radioso pomeriggio quasi solstiziale non trasmette queste sensazioni, ma certo la repentina visione di tale vuoto e profondità è senza dubbio alcuno la più impressionante di tutta l'escursione, sufficiente da sola a giustificare questo verso dell'anello.

Il primo tratto di discesa, nonostante il sentiero ben tracciato, mi sembra più una calata in corda doppia che una camminata: avrebbero ben potuto disegnare un sentiero più regolare, lo spazio c'è. Ah, questi escursionisti. Passati i primi cinque minuti, termina il tratto ripido e comincia un traverso discendente nel prato, che in breve porta alla sponda del lago verso valle. Il lago non ha né immissari né emissari, almeno non in superficie. Intorno è circondato da una catena di pendii quasi verticali e numerose punte quasi tutte senza nome. La più alta, in anni recenti è stata battezzata Punta Cris, in ricordo di Maria Cristina Rosazza, una donna della SUCAI torinese (ma di evidente origine della valle Cervo, dove è sepolta), morta nel 2001 a soli 33 anni, precipitando dalle cascate di ghiaccio di Lillaz.

Mi fermo nei pressi del lago per una pausa. Non leggo la guida e quindi non scopro che in questo catino si può udire un'eco multipla, decantata già dall'abate Gorret. Non so tuttavia se mi avrebbe fatto piacere lacerare il silenzio assoluto che mi avvolge in un affettuoso abbraccio. Potrei al massimo tollerare di sentire l'eco di un brano come “Samba pa ti”, che sembra già un po' come costruito da eco e silenzi. Al sole fa sempre caldo: ormai agogno il bosco. Cammino da sette ore e a occhio ne ho ancora un paio davanti, 1200 m di discesa. Ho quasi terminato l'acqua e non dovrei più trovarne fino a Brusson, secondo la carta. Confido nella mia inverosimile capacità di disidratarmi senza accorgermene.


Oltre il lago il vallone prosegue ampio, con una successione di verdi e fioriti gradini vallivi, dove metto in fuga una considerevole quantità di marmotte, messe in allerta da un fringuello alpino che mi precede svolazzando di masso in masso. Sono tutte belle grasse, grazie all'erba abbondante e alla solitudine di questi posti. Di fronte ho l'infilata della valle, che precipita seccamente e poi procede molto infossata. Le catene di monti sui fianchi, che ora sembrano di calcare, scendono di pari passo alla base, per cui il vallone resta arioso e solatio. Supero un rio, che sembra provenire dalla pietraia poco sopra, ma non essendo in emergenza non mi fido a rabboccare la borraccia. Incontro i primi larici pionieri e i cembri nei nascondigli della nocciolaia.

Tra i primi alberi un po' grandicelli incrocio un barbuto, che sta salendo a buon passo senza zaino per il ripido sentiero. Costeggio una conchetta piena di ortiche. L'ortica è una delle piante della vegetazione nitrofila, che prolifera dove ci sono alte concentrazioni di composti azotati. In natura capita nelle conche, dove si accumulano i detriti della decomposizione organica. L'uomo ha però esteso a dismisura il loro habitat, perché anche dove stazionano gli armenti si creano le medesime condizioni nel terreno, per le loro deiezioni. Supero il nuovamente il rio, da cui si diparte un ru funzionante. Arrivo nei pascoli di Les Chavannes, delle baite diroccate con vista sulla cascata di Pacard, dove il sentiero si perde tra le tracce del bestiame, ma le frecce gialle sono sufficienti a non smarrirsi. Ai piedi dei prati torna più evidente e scompaiono le frecce. Qui stanno pascolando dei vitelli. Con un traverso in lieve discesa, ora nel lariceto, vado a congiungermi con il sentiero di Lavassey, uno dei tanti posti che prende il nome franco-provenzale del Rumex alpinus, una delle piante più diffuse della vegetazione nitrofila degli alpeggi, e in breve arrivo ai prati del villaggio abbandonato di Bringuez.

Si trova si un arrotondato costone assai solatio, su un pendio ripido esposto a mezzogiorno e senza montagne più alte di fronte, in modo tale che in ogni stagione riceve la luce del sole dall'aurora al tramonto. Probabilmente in questo modo d'inverno aveva meno copertura nevosa che i paesi di fondovalle ed era avvantaggiato. Compare già in un documento di metà XIII secolo, quindi nel periodo in cui cominciò la colonizzazione delle Alpi, nelle modalità in cui è perdurata fino al tempo dei nostri nonni. Allora era sotto la giurisdizione dei monaci di Agaunum, il paese oltre il Gran San Bernardo, dove è ambientata la storia dei martiri tebei. Ora però l'isolamento dalle vie principali e dagli impianti da sci l'ha condannato all'oblio. A valle del paese c'è un grande noce monumentale, l'albero delle streghe o più prosaicamente la fonte d'olio del villaggio. Il sito Acta plantarum fissa il suo limite superiore a poco più di mille metri, per cui a quasi duemila indica chiaramente quanto sia favorevole il microclima. Il villaggio è interamente in pietra a secco, ma orami le case vanno disfacendosi. In qualcuna è rimasto qualche strano attrezzo, magari per la lavorazione del legno. Il ru non sembra essere diretto qui, perché la fonte con vasca è secca, ma magari passa solo più a monte. Purtroppo la carta non riporta il percorso dei ru minori.

La vista è naturalmente amplissima e include quasi tutte le cime viste oggi. Quelle a ovest sono blu per l'ombra. Mi fermo su una pietra a consumare la lauta cena, dello sgombro grigliato con una fetta di pane di segale, il cereale della montagna, che qui intorno una volta doveva rendere biondi i pendii. L'orario è un po' britannico, o da ospizio se preferite, ma non troverò più posti favorevoli. Conservo ancora un sorso d'acqua, anche se ben presto entrerò nel fresco bosco e non credo di averne più bisogno.


Percorro la parte bassa dei prati su una bella mulattiera lastricata, che mi condurrà fino a Brusson. Il pendio è assai ripido, ma la mulattiera mai troppo, come si conviene a percorsi che dovevano essere affrontati anche molto carichi. Ha solo un po' di pigne rotolanti assassine sul fondo. Superata la sterrata che raggiunge il paese, entro in un bel bosco di larici e pini silvestri, alcuni dei quali monumentali. Tento caparbiamente qualche scatto, in genere alla Rodčenko, perché c'è pure una bella luce, ma al solito il bosco, specie se ripido, si rivela soggetto tanto affascinante quanto ostico.

Il sentiero si sposta quindi sul lato a est della dorsale, offrendomi della fresca ombra. Mi sorprassa un altro barbuto senza zaino, ma più giovane del precedente. «Forza, manca poco» mi dice. Ma che peccato, aggiungerei. Non vedo le mie escursioni come una fatica atletica, ma come un modo per immergermi nel mondo montano. Ora sono in un bellissimo bosco: perché dovrei desiderare che finisca al più presto? E poi mica sono stanco: ho sempre proceduto a passo regolare, senza accumulare acido lattico nei muscoli, concedendomi le opportune puase per recuperare.

Più in basso attraverso un bosco di pini alti e sottili, in una bella luce, dove però i risultati fotografici sono ancora più disastrosi che pria. Raggiungo la strada per Estoul, la seguo brevemente in discesa e imbocco una mulattiera non segnata che mi porta alla cappella di san Sebatiano a Brusson, a un isolato da dove ho imboccato il percorso per le miniere. Alla prima fontana riempio la borraccia di acqua da portare in città. Una ragazza con delle bottiglie mi ha preceduto di poco.

A meno di un'ora dalla partita, il paese è già deserto e sprangato. Lungo la strada scorrono gli ultimi ritardatari. Trovo una creperia aperta, dove prendere un caffè e segnare sul notes gli ultimi appunti. Ci sono solo i due titolari e un cliente abituale. Il caffè è molto buono e, quando faccio i complimenti, la signora mi spiega che arriva da una torrefazione artigianale di Aosta, che lo produce in piccole quantità. Avessi saputo che curano così gli ingredienti, avrei preso anche qualcos'altro, ma ora il mio pur tollerante palato non reggerebbe una crepe e la Leffe rossa magnificata dal titolare, dopo il caffè. Non resta che il viaggio, con una telefonata a un'amica in vacanza e senza milanesi della domenica sera a ingorgare l'autostrada.

Bibliografia

P. Barillà - M. Blatto, Geologia e forme del paesaggio per escursionisti, Rimini 2007
P. Bosio, Val d'Ayas itinerari escursionistici, Quart 1984
G. Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli stati di S.M. il Re di Sardegna, Torino 1833-1856
A. Gorret, Brusson station d'été, Torino 1886
L. Zavatta, Alta Valle d'Ayas, Rimini 2019
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Bringuez
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Vallone di Bringuez
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Laghi di Palasina
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Lago Pocia
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Rifugio Arp
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Lago Chamen
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Brusson e Zerbion dalla miniera
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Castello di Graines e Dame di Challand
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Traccia GPS
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