Via degli Abati

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awretus
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Via degli Abati

Post by awretus »

A inizio mese ho percorso la maggior parte di questo trek ispirato ai monaci longobardi dell'abbazia di san Colombano a Bobbio, insieme e a tre amici. Siamo partiti da Broni e abbiamo concluso a Borgo val di Taro in 8 tappe. Abbiamo tralasciato la parte in pianura e l'ultima tappa per Pontremoli: la prima perché ritenuta poco interessante e perché comprendeva il passaggio su un trafficato ponte senza sezione pedonale, l'ultima perché in una precedente aeseperienza ci era sembrata noiosa da un punto di vista escursionistico, svolgendosi in massima parte su una sterrata ampia abbastanza da farci passare due camion.

Il primo giorno sembra di essere in un libro di Guido Guidi, il fotografo dei paesaggi urbani dimenticati italiani, poi diventa più agreste. L'aspetto più interessante sono però gli incontri con la gente, sia gestori di strutture ricettive che gente incontrata nei bar o per strada. Purtroppo non ho avuto la faccia tosta di scattare loro delle foto, ma ho appuntato il contenuto dei colloqui sul notes. Abbiamo poi sperimentato vari aspetti del cambiamento climatico, dalla siccità alle bombe d'acqua.

Credo che per l'autunno riuscirò a caricare il diario, ma se per intanto avete delle curiosità generali chiedete pure.

Tappe

1. Broni-Canevino
Lunghezza: 19, 7 km
Tempo: 6 ore
Dislivello: +830 m, -520 m

2. Canevino-Grazzi
Lunghezza: 19,5 km
Tempo: 6.30 ore
Dislivello: +1000 m, -630 m

3. Grazzi-Bobbio
Lunghezza: 13, 8km
Tempo: 4.30 ore
Dislivello: +470 m, -900 m

4. Bobbio-Mareto
Lunghezza: 22,2 km
Tempo: 7.30 ore
Dislivello: +1350 m, -680 m

5. Mareto-Groppallo
Lunghezza: 15,8 km
Tempo: 7 ore (?)
Dislivello: +650 m, -680 m

6. Groppallo-Bardi
Lunghezza: 22,2 km
Tempo: 7.15 ore
Dislivello: +580 m, -930 m

7. Bardi-Noveglia
Lunghezza: 11,6 km
Tempo: 4 ore
Dislivello: +450 m, -600 m

8. Osacca-Borgo val di Taro
Lunghezza: 18, 8 km
Tempo: 5.45 ore
Dislivello: +660 m , -1000 m

La difficoltà nella scala CAi credo sia T, dal momento che il viaggio si svolge prevalentemente su stradine o sterrate. I tratti di sentiero sono pochi, sempre molto agevoli
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awretus
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Re: Via degli Abati

Post by awretus »

Comincio a caricare una foto emblematica per ogni tappa.
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Villa dei Gazzi (foto scelta anche per il nome longobardo)
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Andrea Bezimen
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Re: Via degli Abati

Post by Andrea Bezimen »

È un trekking che mi ha sempre ispirato.
Attendo il reportage completo.
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Littletino
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Re: Via degli Abati

Post by Littletino »

I resoconti di attraversamento dell'Appennino italiano mi hanno sempre affascinato.
Aspetto con impazienza. : Ok :
"Non importa quanto vai piano ... l'importante è che non ti fermi".
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awretus
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Re: Via degli Abati

Post by awretus »

Con abbondante ritardo, comincio con l'introduzione storica e la presentazione del viaggio, poi seguiranno le tappe, che devo ancora revisionare

In illo tempore

Sembravano gocce di pioggia qualsiasi quelle che macchiarono di sangue gli abiti dei parigini; in preda all'orrore, li laceravano per sfuggire a quella visione agghiacciante. In una chiesa della Francia meridionale, un'allodola volò sulle candele e le spense tutte, gettando i fedeli nel terrore e nella costernazione. Altrove gli oggetti si coprirono di macchie scure che nessuno riusciva a rimuovere, quindi le macchie passarono sui corpi delle persone e in pochi giorni costoro morirono come mosche. Piovve, piovve, piovve senza tregua e i fiumi dilagarono, trasformando campi fertili in paludi, da cui draghi emersero e assalirono le persone. Le paludi divennero boschi, dai cui recessi lupi e orsi dilagarono nelle spopolate città di marmi avvolti dagli sterpi. Le nuvole assumevano forme di eserciti alle porte e annunciavano stragi, le danze notturne di cortine luminose, le meteore, la luna che si colorava di sangue annunciavano rotture degli equilibri cosmici e sciagure. La notte spiriti infernali o di morti trucidati vagavano per i boschi e le strade deserte di città dalla gente rinserrata in casa e terrorizzavano gli incauti. L'unico conforto era la speranza di un mondo oltre la breve e aspra vita, mondo che spesso travalicava in questo sotto forma di visioni celestiali di luci nella notte.

Il VI secolo trascorse così, sotto i colpi di guerre e di un cambiamento climatico sfavorevole, che diede il colpo di grazia a una civiltà millenaria di cui non sembrava possibile immaginare un successore. Le persone erano vittime delle carestie, debilitate e soggette a periodiche ondate epidemiche; quasi la metà degli scheletri nei cimiteri erano di bambini. Solitudini è il termine che ricorre più spesso, nei resoconti del tempo, per descrivere il paesaggio desolato di quel secolo. Non solo i rustici dediti ai culti animisti, ma anche i ceti colti, ancora impregnati della grande cultura al tramonto, interpretavano gli eventi naturali secondo schemi magici e li trasmettevano ingigantendoli e deformandoli.


La fondazione del monastero

Quando nel 614 il re longobardo Agilulfo concesse al monaco irlandese Colombano, profugo dalle Gallie dopo che i suoi protettori erano caduti in disgrazia, la licenza di abitare e possedere un cerchio di quattro miglia attorno alla diroccata chiesa di san Pietro a Bobbio, presso il fiume Trebbia, il manipolo dei suoi seguaci aspirava a ricostruire la fede e il territorio di quel lembo di terra. Come già san Benedetto nel secolo precedente, si erano allontanati dalle città, il cui declino percepivano anche in termini morali oltre che fisici, per gettare le fondamenta di un mondo nuovo, rurale, che prevedeva la condivisione di ogni bene e anche di ogni sentimento; in particolare, il lavoro collettivo dei campi ne era il centro aggregatore e salvifico. I monaci cercavano di opporre resistenza a quel mondo di violenza e morte, provando a ricostruire una società ispirata a quella che li aspettava in Paradiso; Colombano infatti aspirava a rendere i suoi discepoli urbani, lieti, laboriosi, rispettosi, colti.

Il loro ideale di vita prevedeva appunto il lavoro, la preghiera e la predicazione a una popolazione locale ancora in larga parte legata alle religione animista italica, come testimonia Giona, il biografo di Colombano e dei suoi successori: un monaco incendiò un fauno e venne brutalmente aggredito dalle popolazioni rurali. La conversione avveniva per exempla, con miracoli che provavano i poteri della nuova religione, come da insegnamento di Gregorio Magno: ad esempio, il monaco aggredito ne uscì incolume.

Soprattutto, però, era la mortificazione di tutto ciò che era corporeo a dominare gli sforzi spirituali dei monaci: «penitentiae medicamenta» è definita da Giona. Più volte il biografo narra dell'incredibile capacità del santo di vivere con pochissimo cibo, anche se non arriva ai racconti mirabolanti della'agiografia del monaco buddista tibetano Milarepa. Negli ideali altomedievali, persino il sogno, quando la coscienza era assopita, era considerato fonte di vergogna e debolezza della carne, se portava immagini peccaminose, per quanto involontarie. Tutte le virtù esteriori dovevano infatti avere un corrispettivo nei pensieri del monaco, per cui il sogno impuro era attribuito a una mancanza diurna nel loro controllo. La regola di Colombano, in particolare, era così difficile da seguire, anche per gente in fuga dal mondo, che il monastero non filiò mai, nonostante l'appoggio rinnovato da ogni re longobardo; anzi, non pochi monaci, dopo la sua morte, abbandonarono il cenobio lamentandosi dell'asprezza della vita. Dopo qualche decennio, la regola colombana fu sostituita da quella benedettina.

Il sito scelto era un luogo favorevole all'insediamento. Era presente una sorgente termale, citata nella concessione di Agilulfo, come già a Luxeuil, dove il monaco si era insediato su resti di terme romane. Un'iscrizione del I secolo rinvenuta in val d'Aveto prova che già i romani avevano colonizzato queste valli per la medesima ragione. La posizione rilevata rispetto al Trebbia, su un conoide di deiezione del rio Bobbio, rendeva poi il sito protetto dalle alluvioni e fertile. Come già detto, le alluvioni nei decenni precedenti erano state molto frequenti e i fiumi avevano ripreso i propri alvei naturali, che invece in età imperiale erano stati regimentati. Lo stesso Paolo Diacono, lo storico dei Longobardi, riferisce questi fatti e anche Giona cita un miracolo di un successore di Colombano relativo alla protezione da un'alluvione del rio Bobbio. Gli scavi archeologici mostrano che i romani era insediati nei dintorni, e che c'era anche un luogo di pellegrinaggio, un santuario di Minerva a Travo. In età tardo antica si era formato un vicus, un centro fortificato, con forse centro di culto nella basilica di san Pietro. Questa forma di mutamento dell'insediamento fu molto comune in Italia a cavallo tra VI e VII secolo, periodo durante il quale si modificò il modello insediativo dalle ville romane sparse a centri accentrati, spesso su alture o in prossimità dei fiumi, che avrebbero poi caratterizzato il Medioevo. Le ville persero il loro ruolo di sede dell'aristocrazia, che si spostò in città, il carattere di monumentalità dato loro dall'utilizzo di materiali pregiati come marmi, divenendo piuttosto nucleo fondativo dei villaggi, spesso ricostruiti in legno e molto piccoli, senza una vera struttura urbanistica e una stratificazione sociale, oltre che precari, nel senso che era comune abbandonarli in cerca di condizioni migliori. In epoca giustinianea, in particolare, anche per via di un'ondata di peste, la popolazione italiana calò dai 12 milioni di abitanti del tardo impero agli 8, gli incolti e la natura in genere si accrebbero, le ceramiche di importazione furono sostituite dalla pietra ollare delle Alpi e soprattutto il legno dei boschi sempre più estesi divenne la materia prima per case e oggetti di uso quotidiano.

Al tempo di Colombano la zona si presentava in parte coltivata e in parte incolta; Giona, nella narrazione di un miracolo fa riferimento a estesi saltus, il nome medievale del bosco sfruttato, sul Penice, la collina alle spalle di Bobbio, che si presentavano di difficile accesso.


I monaci e il secolo

Il re longobardi che, a ogni successione al trono, si affrettavano a rinnovare la protezione al monastero, avevano invece altre mire, nel concedere proprio quel lembo di demanio al santo irlandese: l'indicazione del luogo arrivò infatti direttamente dalla corte regia, secondo le fonti da un latino (è indicato il nome Iocundus) al servizio del re germanico. Il fatto stesso che del terreno fosse stata concessa la licenza di sfruttare e abitare, ma non il possesso, indica chiaramente come il re si proponesse di tenere la situazione sotto il suo diretto controllo. Il rapporto tra re e santo mi ricorda un po' quello moderno tra investitori e scienziati: questi sono motivati dal desiderio di scoprire la natura, ma sono finanziati solo nella misura in cui sono funzionali a produrre reddito a beneficio di quelli.

La valle del Trebbia era stata sottratta da poco al dominio bizantino ed era un nodo strategico di strade in parte romane, in parte anche più antiche: lungo il Trebbia verso Genova, per Torriglia e il passo della Scoffera; verso la sede vescovile di Tortona, a cui la zona era assegnata, e la capitale Pavia passando dal Penice; in parte verso Est, dove la Toscana longobarda era raggiungibile evitando il dominio bizantino (questa sarà la nostra via). Il ruolo dei monasteri regi era anche quello di riportarle sotto l'egida del potere centrale: altri ne sarebbero stati fondati in contesti analoghi nei decenni a seguire.

Il re si proponeva infatti di tenere sotto il suo controllo l'élite militare longobarda insediata nella regione appena conquistata. Nella concessione regia compare il riferimento a un certo Sundrarit, con cui il monastero deve condividere una sorgente salina. Il regno longobardo fu ben diverso dalle monarchie assolute moderne, perché il re doveva coabitare con l'aristocrazia e solo i più carismatici riuscirono ad avere una presa salda sul regno, ad eccezione dei ducati meridionali di Spoleto e Benevento, che rimasero sempre indipendenti. Lo stesso vale per la popolazione rurale, la quale, venuto meno il sistema fiscale romano, era pressoché libera da imposizioni superiori, in quanto l'aristocrazia, rinchiusa nelle città, non era in grado di estendere il suo controllo all'esterno: come già osservato, i villaggi rurali sembrano abitati da eguali.

Il re, creando un monastero sotto l'egida una figura di primo piano del cristianesimo occidentale e di provata fede apostolica, si proponeva inoltre di allacciare i rapporti con il papato, che, come destimoniato dai Dialoghi di Gregorio Magno, aveva percepito l'invasione longobarda come una iattura. La situazione religiosa si presentava assai complicata: le élite longobarde professavano un misto di arianesimo e animismo, le popolazioni rurali italiche spesso erano ancora legate alla religione italica e gli stessi cattolici latini erano divisi dalla questione tricapitolina. Agilufo si proponeva inoltre di creare un clero longobardo, per cui il cattolicesimo fosse slegato dal rapporto con l'imperatore di Costantinopoli. Colombano fu scelto proprio per sua insofferenza verso il potere dei vescovi mostrata in Francia, dovuto alle origini irlandesi, con cultura difforme dal sistema romano, che aveva il centro cittadino con le sue autorità come fulcro. Il monastero era infatti sottratto al controllo vescovile e aveva potere sull'ordinazione dei sacerdoti, come rimarcato da uno dei successori di Colombano, Bertulfo, il quale si recò a Roma per ottenere il riconoscimento del diritto di esenzione dal controllo episcopale.

Il carattere regio si accentuò con la dinastia carolingia, che concesse il mundeburdio (protezione) imperiale e nominò abati provenienti dalla sua corte. Questo doppio filo segnò anche la traiettoria discendente del prestigio dell'istituzione: quando il potere centrale venne meno e le città italiane si avviarono a conquistare l'autonomia, nel X secolo, prese il largo un'opera di erosione delle sue proprietà, per effetto dell'attacco combinato dei signori locali e della privatizzazione dei detentori dei fondi. La diatriba fu particolarmente serrata con i vescovi di Piacenza, a suon di documenti, forse falsi, che volevano sancirne un'autonomia garantita dal papa Onorio I agli immediati successori di Colombano.

Il monastero perse potere anche perché erano cambiati il mondo e la concezione del mondo rispetto a quando era nato: la materialità non era più fuggita, ma apprezzata, persino dai religiosi. Mentre la rivoluzione borghese si sarebbe rivelata irreversibile, questa seconda conversione avrebbe tuttavia avuto vita breve tra i religiosi e già nel XIII secolo in seno alla chiesa sarebbe riemerso il penitenziagite.


L'opera materiale dei monaci

Il lavoro dei monaci ebbe profonde ripercussioni sul paesaggio circostante. Due elenchi delle proprietà del periodo carolingio, le Adbreviationes dell'862 e dell'883, mostrano che il territorio era coltivato soprattutto a cereali, vite e prati da sfalcio, per una limitata produzione di formaggio. Un approfondimento merita il vino, che aveva una funzione ben diversa da quella odierna: era infatti un alimento, che, grazie al potere antimicrobico dell'alcool, sostituiva l'acqua, impossibile da potabilizzare con le conoscenze e le limiate risorse tecnologiche dell'epoca. Il prodotto è sopravvissuto egregiamente al cambio di paradigma e prospera tutt'oggi nell'Oltrepò pavese, dove è la coltura che modella maggiormente il paesaggio agreste.

La produzione di pregio dell'epoca era invece l'olio d'oliva, che proveniva dai possedimenti sulle rive dei laghi prealpini, soprattutto Garda. Allora l'olivicoltura in Liguria, dove dal periodo carolingio il monastero possedeva l'alpe Adra nel Levante, non era ancora decollata. Solo nel Basso Medioevo la coltura si sarebbe estesa lì e nel Mezzogiorno, mandando in crisi le produzioni lacustri.

Un'attività preponderante nel periodo longobardo, ma ancora vitale ai tempi delle Adbreviationes, fu l'addomesticamento del bosco con l'allevamento di suini bradi, nei querceti molto estesi della zona. In epoca longobarda, il magister porcarius era uno dei ruoli servili più prestigiosi ed esistevano pure livelli multipli di importanza dei funzionari. Una volta, ad un esposizione di piccoli produttori mi è capitato di assaggiare del lardo prodotto da suini bradi e l'impressione sul palato è stata celestiale. Più marginali erano l'apicoltura per la produzione di cera e il castagneto.

In conformità all'organizzazione delle aziende agricole del tempo, dette curtes in Italia, ma come agià avveniva per le ville romane, c'era un territorio dominico attorno al monastero, con servi (detti prebendarii); le zone più lontane erano invece affidate coloni liberi (detti mansi). Questi dovevano essenzialmente grano, vino e corvée. Le imposizioni sui coloni non erano uniformi, in quanto erano richiesti maggiori servigi a chi era vicino al monastero, magari ex servi allentati.
L'economia era prevalentemente chiusa, votata all'autosufficienza con limitati scambi sui mercati, ma non statica. Confrontando le due Adbreviationes, pur vicine nel tempo, si vede come l'attività agricola fosse in espansione per sostenere la crescita della popolazione e che i mansi erano in aumento. Sembra essere del tutto assente il denaro contante, verso cui c'era un forte avversione, com'era tipico del tempo: basta leggere il trattamento che Dante riserva a chi presta a interesse per comprendere l'atteggiamento dell'epoca. Un'opera pubblica davvero notevole per il periodo, come il canale Courtaud in valle d'Aosta, fu interamente finanziata senza ricorrere al denaro, ma scambiando direttamente lavoro con acqua irrigua. I contadini delle Alpi hanno conservato questo schema economico e questa diffidenza fino al termine della loro civilità, come testimonia il disprezzo che nutrivano per chi, come i carbonai, produceva per ottenere denaro, con cui acquistare i beni necessari.


L'opera culturale dei monaci

i monaci medievali sono anche noti per la loro fondamentale opera di trasmissione e diffusione della cultura, tramite la copiatura dei testi antichi e contemporanei. Bobbio non fece certo eccezione. Da questo punto di vista, fu un monastero di portata europea, che scambiò cultura con altre aeree del continente. Sia l'analisi delle fonti coeve che l'analisi dei nomi dei monaci citati da Giona, mostra che da principio non vi fossero né conterranei di Colombano, né latini: i primi non compaiono mai, i secondi solo come popolani del luogo: i nomi hanno tutti radici nelle aree germaniche.

Il testo più antico della biblioteca a noi pervenuto è una traduzione dei vangeli in latino, anteriore alla Vulgata di san Girolamo, che si ritiene sia stato portato a Bobbio dallo stesso Colombano. Le prime opere furono invece testi patristici di origine tardo antica, passate per le corti longobarde, sotto la cui protezione era nato il monastero e presso cui Lombano aveva soggiornato prima di stabilirsi a Bobbio. È poi interessante osservare che molti dei testi più antichi fossero scritti cancellando precedenti opere in lingua gotica di area ariana, a indicare un iniziale ruolo del monastero nell'opera di conversione delle élite longobarde, che divenuto superfluo con la conversione generale, portò al riutilizzo delle pergamene.

Un altro corpus importante fu quello dei testi giuridici: da un lato la corte si appoggiava alle competenze dei monaci (l'editto di Rotari fu promulgato il giorno della ricorrenza di san Colombano) e li adoperava come tramite per trattare con il Papa, dall'altro gli stessi monaci ne avevano bisogno per dirimere le contese con il vescovo di Tortona.

Gli scambi con l'area irlandese ci furono, soprattutto dopo il periodo carolingio, ma già in epoca longobarda figure religiose di spicco vennero a trascorrere gli ultimi anni della loro vita, segno del prestigio di cui godeva l'abbazia sull'isola. Alcuni codici risultano scritti in calligrafie insulari. Analogamente, sebbene agiografie di santi gallici fanno riferimento al valore religioso dell'abbazia bobbiese e a loro pellegrinaggi, non è documentato lo scambio di codici con monasteri di quell'area, nemmeno quelli fondati da Colombano.

Gli scambi furono invece molti fitti con le aree tedesche, dove sono attestati possedimenti colombiani lungo le vie di transito dell'epoca, il lago di Como e lo Spluga e la vale Venosta e il Resia, oltre riferimenti al culto di san Colombano nelle abbazie di Coira e Disentis, poste oltre quei passi. All'abbazia di San Gallo fu inviata una reliquia della cambutta (bastone), frammenti della quale sono tutt'ora conservate in chiese abbaziali della zona. Inoltre proviene da San Gallo l'edizione più antica a noi pervenuta dell'Editto di Rotari (643), a cui i monaci bobbiesi contribuirono in maniera decisiva. Particolarmente intensi furono i rapporti con la Baviera: era bavarese la regina Teodolinda e come lei molte altre regine longobarde. È stata anche avanzata l'ipotesi che il più antico testo in lingua tedesca esistente, l'Abrogans (765-775), un vocabolario tedesco-latino, abbia un'ascendenza indiretta bobbiese: l'autore a cui è tradizionalmente attribuito, Arbeo, è legato a doppio filo a zone e istituzioni di influenza colombane e la stessa pratica dei vocabolari era molto diffusa in epoca longobarda, come testimoniano gli elenchi di libri della biblioteca bobbiese pervenutici.

Il culmine della ricchezza della biblioteca avvenne in epoca carolingia, quando sono attestati quasi 700 codici. Nei secoli successivi, con la decadenza del monastero e infine la soppressione napoleonica i testi andarono via via dispersi verso varie sedi. A metà XV secolo ne risultano solo 260; nel 1606 il cardinale Federico Borromeo ne ottenne 77 per la Biblioteca Ambrosiana, seguito a ruota da papa Paolo V che ne ottenne 29 per la Vaticana; negli stessi anni qualche altro confluì nella Biblioteca Reale Sabauda, dove purtroppo andarono distrutti in un incendio; alla soppressione i restanti furono messi all'asta e acquistati da un privato. Per fortuna i più antichi si sono conservati.


Sulle orme dei monaci

I primi a recarsi a Bobbio per Colombano, quando questi era ancora in vita, furono Teodolinda, moglie del re Agilulfo, e il figlio Adaloaldo, da Pavia passando per il Penice. Prima di loro, già nelle Gallie re locali si erano ripetutamente recati dal santo. Il loro fu un pellegrinaggio penitenziale, in luogo dove il divino aveva un ancoraggio nello spazio materiale, in un luogo sia reale che trascendente. Come loro, poco dopo la morte di Colombano altri monaci, futuri santi, vennero a Bobbio a fini di apprendimento e edificazione spirituale, tanto dalla Gallia quanto dall'Irlanda, come documentato dai reperti conservati del museo, ad esempio nella forma di reliquiari merovingi del VII secolo. Vi sono anche testimonianze di area palestinese o siriaca, a indicare che era un punto di transito verso la Terrasanta. L'abate Wala, nel periodo carolingio, fece perciò provvedere alla costruzione di un ospizio per pellegrini, come del resto vi erano xenodochi a Pavia e Piacenza, per chi arrivava da nord, e a Boccolo per chi era diretto a Roma.

Per noi era il ritorno al viaggio a piedi non più praticato da prima del COVID, o anche molto prima, per una serie di motivi molto personali. Ci siamo dovuti confrontare con i cambiamenti climatici, nella forma di un caldo estivo già ai primi di giugno e di una bomba d'acqua, oltre che con il nostro invecchiamento. Alcuni ne sono usciti provati, hanno sofferto lungo il cammino, non essendo più abituati allo sforzo e all'usura quotidiani, tutti abbiamo desiderato ripetere l'esperienza e già stiamo cercando idee per l'anno prossimo. Come sempre nei percorsi tra i paesi dell'Appennino, l'aspetto da portare a casa è stato soprattutto l'incontro con le persone, sia i gestori delle strutture ricettive che gente qualsiasi incontrata per strada.


Il percorso oggi proposto agli escursionisti è formato di due parti distinte: la tratta Pavia-Bobbio e quella Bobbio-Pontremoli.

La prima è ispirata dalla traslazione delle spoglie da Bobbio a Pavia, avvenuta nel 929, in occasione di un incontro tra re e potenti locali. L'episodio è narrato nei Miracula Sancti Columbani, un testo posteriore all'evento, con il quale i monaci rivendicavano il possesso dei territori che i nuovi poteri locali stavano loro sottraendo. La rivendicazione avvenne anche in quel caso per exempla, tramite i miracoli che la sante spoglie compirono al loro passaggio. La spoliazione fu infatti descritta in chiave morale: che costoro cessassero ab illorum rapacitate fu la richiesta. Significativo che il primo miracolo, in località Ponte presso S. Maria, fosse la comparsa di una croce su un albero presso cui è depositata l'arca: la demarcazioni con croci sugli alberi del territorio erano il tipico metodo di appropriazione dei monaci; il miracolo si ripetè regolarmente nell'Oltrepò. L'uso della traslazione delle reliquie era invalso in Francia a partire dall'Alto Medioevo come normale forma giuridica, ad esempio per smascherare gli spergiuri di fronte ad esse, per invocare l'intervento divino di fronte all'inefficienza del potere temporale. Pertanto il testo non è chiaro sul percorso effettivamente fatto dalla processione, puntando piuttosto a indicare i luoghi contesi che quelli effettivi di passaggio. Uno dei pochi nomi citati è Canevino, dove un bambino muto dalla nascita riacquistò la parola per declamare un riconoscimento al carattere divino del santo.

In mancanza di precisi riferimenti geografici, il percorso scelto dagli ideatori è lungo all'incirca quanto quello dell'andata dei monaci e passa per Canevino. Fino a Caminata segue strade secondarie, mentre in seguito anche dei sentieri.

La seconda parte ricalca invece, per quanto possibile, le vie di comunicazione medievali, da cui dovevavno transitare i monaci e gli abati a partire da Bertulfo, secondo successore di Colombano, diretti a Roma per ottenere dal Papa la conferma dei diritti del monastero, contro le ingerenze dei vescovi cittadini. Grazie alle Adbreviationes, è possibile sapere dove fossero le proprietà del monastero, dove sorgessero le chiese e gli xenodochi per dare alloggio ai viandanti. Inoltre le carte più antiche disponibili ci dicono quali fossero i percorsi storici. Venute meno, per mancanza di manutenzione, le vie classiche piatte e dritte (i romani avrebbero edificato i tunnel di base della valle di Susa e del Gottardo, se avessero potuto), il traffico si spostò sui crinali e su preesistenti mulattiere secondarie, per restarci fino al sorgere delle carrozzabili e delle vie ferrate ottocentesche. Proprio per queste vie, oggi spesso divenute piste sterrate, camminiamo in questi giorni.


Noi abbiamo modificato i punti di partenza e arrivo in ossequio all'ideologia escursionistica della capogita, che prevede di camminare essenzialmente per la contemplazione estetica del paesaggio di stampo romantico. Abbiamo tralasciato la porzione da Pavia alle colline, ritenuta troppo monotona. Inoltre questa comporta l'attraversamento del ponte della Becca, che è molto trafficato e non ha un passaggio pedonale e pertanto richiederebbe di essere accompagnati dall'arca di san Colombano per ottenere protezione sufficiente. Abbiamo quindi escluso la tappa per Pontremoli, che si snoda lungamente per una noiosa e ampia sterrata.

Come forma mentis, siamo sempre partiti abbastanza tardi e siamo stati fermi nelle ore più calde, per arrivare non di rado a ora di cena, dopo aver anche pranzato in un locale. Per fortuna spesso i posti tappa hanno un ristorante e non danno cena alle 19 come i rifugi alpini.

Il cammino ha un antefatto, perché circa un lustro fa io e la capogita percorremmo la tratta tra Bobbio e Pontremoli, nello stesso periodo dell'anno. Di allora ricordiamo che di giorno c'era sì un caldo afoso, ma il meteo era molto più instabile, per cui la sera spesso scoppiava un violento temporale e il mattino l'aria era fresca, mentre stavolta abbiamo grondato sudore sin dai primi passi. Soprattutto, allora il fango appenninico fu un'esperienza mistica, mentre stavolta, fatto salvo dopo la bomba d'acqua, abbiamo camminato sul secco. I ricordi di quella esperienza riaffioreranno periodicamente.


A corredo delle descrizioni vedrete pochissime foto. La maggior parte dei luoghi attraversati si prestavano poco ad essere resi nel linguaggio fotografico. Il fotografo del Bauhaus Andreas Feininger ha scritto un intero libro per spiegare la differenza tra la percezione dei sensi e la percezione della fotocamera. Gli inesperti spesso confondono un bel soggetto con una bella foto e riprendono tutto ciò che piace loro; se invece si ha l'ambizione di scattare una foto che valga di per sé, i soggetti d'interesse cambiano: ho avuto più occasioni di scatto nel paesaggio desolato della prima tappa che in buona parte del resto del tragitto. Ci sono ambienti affascinanti, che offrono un’esperienza emotivamente coinvolgente, ma che non possono essere resi in un’efficace immagine bidimensionale, in grado di tradurre nel linguaggio visivo quello che si prova sul momento: i boschi e i prati quasi sempre, ad esempio.

Se poi una faina guizza come un’ombra nella fioca luce del crepuscolo, per poi scomparire nel folto del bosco, come si può tradurre in un’immagine statica un'esperienza così dinamica? Se si cammina un’ora ascoltando il brontolio dei tuoni sopra la testa, come si può tradurre in immagini il timore? Se si beve un caffè con dei cacciatori, chiacchierando di orti, lupi e brambille, perché riprenderli come se fossero un soggetto folkloristico? In questo viaggio di esperienze del genere ne ho vissute dal principio alla fine, per cui mi sono accorto quasi subito che non sarei riuscito a portare a casa grandi scatti. Poco male, ci sono i ricordi e le impressioni appuntate nelle pause, che sono persino più menzogneri.


Per approfondire

C. Cipolla [a cura di], Codice Diplomatico del monastero di San Colombano di Bobbio, Roma 1918
E. Destefanis, Il monastero di Bobbio in età altomedievale, Firenze 2002
S. Gasparri, Italia longobarda, Bari 2012
Giona di Bobbio, Vita di Colombano e dei suoi discepoli, Milano 2001
N. Mazzucco - L. Mazzucco - G. Mori, Guida alla Via degli Abati, Milano 201
V. Polonio, Il monastero di San Colombano di Bobbio dalla fondazione all'epoca carolingia, Genova 1962
R. Rao, I paesaggi dell’Italia medievale, Roma 2015
E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari 1961
A. Zironi, Il monoastero longobardo di Bobbio. Crocevia di uomini, manoscritti e culture, Spoleto 2004
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awretus
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Re: Via degli Abati

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Broni-Canevino

Raggiungiamo la partenza del viaggio a piedi, ispirato all'Alto Medioevo, con i simboli della velocità contemporanea. Per prima cosa il treno che sfreccia doppiando le auto sulla contigua autostrada, poi una linea secondaria, che per contrasto oggi è associata alla lentezza, tanto ci siamo assuefatti alla velocità, sebbene viaggi un ordine di grandezza più rapida di una diligenza. Quest'ultima si ferma in molte stazioni eviscerate dalla carne viva, ridotte al puro scheletro, dal progresso dei trasporti ed è condotto da un giovane capotreno da una rigogliosa barba, che gli dà un tono che la capogita definisce risorgimentale. Il Po e il Ticino si presentano quasi secchi. Nonostante ci aspetti un lungo cammino, non ci siamo alzati troppo presto, come sarà una costante del viaggio.

A Broni tralasciamo i bar desolanti attorno alla stazione e puntiamo verso il piccolo centro storico, dove ci lanciamo verso una cremeria. Dettiamo le ordinazioni a una persona, che le passa a una vecchia non in grado di leggere la sua scrittura, cosicché mi tocca ripeterle imprecisamente a memoria, quando tutti gli altri si sono già accomodati ai tavoli esterni. Il risultato è che la seconda colazione ci arriverà a rate. Ad ogni modo, cannoli e torte grondano zucchero, ma sono buoni.


Il centro del paese si rivela minuscolo e privo di guizzi. Imbocchiamo quindi una stradetta, che rimonta la prima collina, tra casette con giardino e successivamente per bosco dalle molte acacie e dall'apprezzabile ombra, accompagnati dalla vista di un castello, oltre una valle. Raggiunta la dorsale a Colombarone, la seguiamo per una stradetta, immergendoci come in un libro di Guido Guidi sul paesaggio dimenticato italiano. I margini del progresso successivo al Boom postbellico, che ha ampliato a dismisura le città, ne sono divenuti la cifra molto più dei palazzi storici e dei connessi monumenti, e nel contempo hanno eroso gli spazi agresti. Questi non erano certo una realtà statica, in quanto nel corso dei secoli erano più volte radicalmente mutati in seguito alle vicende politiche, all'evoluzione dei sistemi economici e tecnologici. Tuttavia in questo caso si sono improvvisamente visti invasi da strutture nate al di fuori di essi e slegate da essi, come capannoni o case residenziali di chi vive e lavora in città. Inoltre da un certo momento in poi fu abbandonata ogni ambizione estetica: gli impianti industriali precedenti e le relative abitazioni dei lavoratori erano spesso progettati con attenzione all'aspetto esteriore e all'ecosistema sociale degli abitanti, ma ad un certo punto tutto questo fu dismesso.

La fotografia di Guidi mira agli interstizi e non al centro monumentale. Anche se non sono in grado di comprendere la riflessione sull'arte che sottende la scelta delle sue inquadrature, non avendo né la formazione ma nemmeno l'interesse per questo settore, la fascinazione per questi paesaggi marginali mi fa apprezzare questo primo pezzo di strada, mentre i miei compagni di viaggio tirano più o meno dritto, senza fotografare. Mi rendo infatti conto che Guidi non è certo il fotografo preferito da chi cammina in montagna, che normalmente preferisce tradizionali paesaggi più edulcorati e bucolici, ma io ne sono affascinato. Bordeggiamo case trasandate e spesso dimesse del tutto, case singole anni ’60, piccoli caseggiati antecedenti, villette più recenti con palme, nascoste da siepi fuori controllo. Sarà il tratto il cui scatterò di più, producendo infinite brutte copie delle sue foto.

Tra le prime case di Castana ci fermiamo su una panchina, presso una fontana, per un frutto. Abbiamo già incontrato un'invitante trattoria, che disdegnava i clienti a dieta, ma era troppo presto. Con Google Maps scopriamo che ce n'è un'altra a un paio di chilometri e ci facciamo più di un pensierino. Intanto gli edifici si sono diradati e si fanno invece quasi continui i vigneti. Per una strada alberata tra le case raggiungiamo la grande chiesa, il cui viale di accesso sembra sia stato invece privato del verde. Superato un GPM del Giro d'Italia dello scorso anno (abbiamo visto non pochi ciclisti stamattina), tralasciamo un ristorante desolatamente vuoto, in cui la TV è l'unica presenza animata, per accomodarci invece nella veranda di un locale gestito da un mercenario della Legione Straniera in congedo: lui cucina, la moglie serve ai tavoli.

Avremmo voluto una semplice insalata, prevedendo una cena sostanziosa nell'agriturismo di stasera, mentre offrono solo un menu fisso, con carne di antipasto, primo e secondo, per cui dapprima il legionario si indispone alla nostra richiesta di prendere un solo piatto, ma alla fine ai complimenti si scioglierà. Anche il caffè è molto buono; naturalmente la marca è “Medaglia d'oro”. I due gestiscono anche una colonia felina e hanno un cane gigantesco e una cagnetta tredicenne. Lui intavolerà infine una discussione con il nostro artigliere, che dovremo trascinare via a forza, con il supporto della moglie affamata.

Vorrei inserirmi anch'io, quando il legionario emerge da una discussione sulla battaglia di Poitiers affermando che la storia è prevalentemente militare: a scuola odiavo tale storia fatta di guerre, statisti e trattati, mentre mi interessava sapere come viveva la gente in giro per il mondo nelle varie epoche, cosa pensava, com'erano allora quei posti, e così via. Purtroppo, tra gli otto di medie e liceo, solo l'insegnante di storia romana nel biennio mi parlò anche di queste cose, mentre per il resto studiavo, passavo l'interrogazione e dimenticavo. Ricordo ancora invece la ricetta del garum, tanto da riconoscerlo immediatamente in un libro che lo descriveva, senza subito nominarlo. Senza contare che nessuno mi spiegò mai come si arriva alle conoscenze storiche, tramite la valutazione critica dei documenti. Per fortuna da adulto ho scoperto dei libri interessanti che hanno saziato qualche mia curiosità e riconciliato con la materia.


Oltrepassato un campo sportivo trasandato molto guidiano, ci inoltriamo in un paesaggio di boschi e vigneti. Lasciamo la via principale in favore di una sterrata, bordeggiata da numerose querce monumentali coperte di muschio, a indicare che era la via principale, quando si girava a piedi. All'ombra di una di queste, il meno tecnologico del gruppo cerca invano di scaricare le tracce del viaggio, supportato dalla capogita. Il muschio sui tronchi stride con il terreno duro e riarso: quest'anno la siccità è molto aspra e, come scopriremo stasera, è stata anche intervallata da un violento temporale che qualche giorno addietro ha danneggiato il raccolto di uva. Una chiesa presso un cocuzzolo della dirimpettaia fila di colline, sostituisce la torre del mattino come elemento trainante del paesaggio circostante. Di questo tratto ho conservato soprattutto appunti fotografici: degli operai indiani su un macchinario, rustici edifici agricoli, delle cucce che mi evocano una base militare sovietica abbandonata. Dopo una chiesetta moderna accanto a un prefabbricato dei lavori stradali, saliamo a un borgo su cui annoto “vecchia dei gatti mangiati”, forse a indicare l'incontro con una gattara, ma a distanza di due mesi ho dimenticato cosa intendevo e l'episodio tout-court. Questi gruppi di case sparse non paiono essere popolati in un giorno feriale.

Per una dorsale, raggiungiamo quindi una casa isolata, ormai con Canevino in vista. Incontriamo un sessantenne con un tatuaggio di Rambo sull'avambraccio, che ci dice di essere il figlio del mediatore del vecchio conte, scomparso recentemente. Oggi le figlie (nomina solo loro anche se c'è anche un erede maschio) hanno dismesso le attività agricole (aveva 40 cascine) e offrono servizi di supporto ai cacciatori. Il signore ci dice di aver contato una quarantina di cinghiali una sera.

Il conte Luchino Dal Verme, morto nel 2017 alla verde età di 103 anni, portava il medesimo nome del capostipite della sua dinastia. Egli, cacciato da Verona nel 1354 in seguito a una fallita congiura contro Cangrande Della Scala, offrì i suoi preziosi servigi miltari ai Visconti. Morì infine nel corso della crociata bulgara dei Savoia, la stessa a cui potrebbe aver partecipato Bonifacio Rotario, che avrebbe poi salito per primo il Rocciamelone in seguito a un voto lì contratto. Fu il figlio Jacopo a ottenere in feudo la prima porzione di Oltrepò, dove al tempo della conquista viscontea si era dedicato, nelle parole dello storico piacentino Cristoforo Poggiali, «ad abbruciar le biade nè campi […] e a saccheggiare e distruggere»: fu il premio per i servigi militari e per aver contribuito alla rappacificazione tra i signori di Milano e il papa. In breve lui e i successori videro ampliarsi i possedimenti, destreggiandosi nel ruolo di mercenari al servizio di questo e quello. La storia secolare proseguì con alterne fortune, che compresero l'estinzione del ramo legittimo per un avvelenamento, la presa di possesso della sorgente salina citata nella concessione di Agilulfo, la condanna a morte per decapitazione voluta del re di Francia, la spoliazione e ripresa dei feudi. Divennero quindi ricchi signori di campagna. Infine il conte Luchino entrò nell'esercito, combattendo nella Seconda Guerra Mondiale su vari fronti. L'8 settembre si trovava in Italia; per scampare alla deportazione, aderì alle brigate garibaldine della sua terra, di cui assunse il comando. Al termine del conflitto si sposò e si dedicò all'allevamento.

Rambo fino a pochi anni orsono ha coltivato i vigneti, recentemente ceduti per andare in pensione. I vigneti dell'Oltrepò risalgono a un periodo posteriore al monastero bobbiense, perché sono del Basso Medioevo. Per ora non sembra ancora aver trovato un suo ruolo da pensionato attivo quanto la sua indole necessita. Accanto alla sua abitazione, c'è un edificio pericolante, del quale ha già segnalato la potenziale minaccia alle autorità. Purtroppo la proprietà è stata spezzettata dalla successione secondo il diritto napoleonico, con il risultato che ora i troppi discendenti non riescono a trovare un accordo su cosa fare di questa costruzione. In una sua stanza affacciata sulla strada ci sono dei Rollerblade, gettati da Rambo stesso dopo aver tentato invano di suscitare interesse nei suoi nipoti, perché i dintorni non si prestano a questa attività. Si stupisce non poco che fotografi delle sedie di plastica. Purtroppo non riuscirei a spiegare né a lui né a me stesso la fascinazione di angoli quotidiani, che, ben inquadrati, acquistano un sapore paradigmatico della provincia periferica e marginale. Lo stesso soggetto mi riuscirà meglio prima di Bardi, in una frazione dal nome longobardo, dove però il paesaggio si sarà fatto più bucolico e turistico, mentre è soprattutto oggi che fotografo come un ossesso. Il signore ci indica infine il Penice, di cui senza binocolo ancora non riusciamo a discernere le antenne, che lo rendono riconoscibile a distanza.

Mentre il cielo è ormai quasi coperto di spessi cumuli blu, che lasciano filtrare raggi di luce resi visibili dalla densa umidità, costeggiamo quindi un vigneto, prima di rientrare sulla strada principale. Dovremmo ora seguirla in quota, ma preferiamo salire alla chiesa illuminata da un raggio di luce radente, perché ci sembra assurdo tagliare via un luogo dove non torneremo mai più. Sudando non poco nell'aria assai afosa, tra qualche imprecazione raggiungiamo il sagrato e ci fermiamo a rifiatare e ammirare il paesaggio, dal muretto che delimita lo spiazzo, dove ci sono resti di un matrimonio. Esploro il paesaggio con il tele, affascinato dai giochi di luce fosca delle nubi, in questo tramonto altrimenti sgradevole al tatto perché umido e soffocante.


Scendiamo per una scalinata intitolata a un prete, tra le curate casette grigie del paese, fino a ritrovare la strada principale. Dobbiamo ora scendere per strada verso l'agriturismo, quando ormai è ora di cena. Un loro pick-up ci supera, ma non fa nessun segno di offrirci un passaggio: ci spiegheranno che molti puristi del cammino si irritano a queste profferte. In compenso all'arrivo ci offrono subito della gradita acqua fresca.

La struttura, che prende il nome dal miracolo del bambino muto, è gestita da giovani; oltre a loro e i lavoratori agricoli messicani, ci vivono anche nove cani, svariati gatti e pare anche dei ghiri nel sottotetto, a giudicare dai rumori serali. Sarà il posto tappa con le camere più curate e anche l'unico con queste tirate a lucido. In genere invece, la ristorazione sarà pregevole, mentre la ricettività più trasandata, in quanto dormiremo sovente in stanze dall'arredamento datato e con bagni non funzionali, a indicare una minore loro importanza nell'economia di queste strutture.

Nella contrattazione della cena dobbiamo implorare un po' di verdura, perché, come ci sarà confermato tutte le sere, qui sono prevalentemente carnivori. La tagliata è anche parecchio al sangue.

Per approfondire
F. Bernini-C. Scrollini, I conti Da Verme tra Milano e l'Oltrepò Pavese Piacentino, Pavia 2006
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Cicognola
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Colombarone
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Rambotta
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Cassinassa
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Tromba
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Casone
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Presso casa Costa
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Canevino
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Andrea Bezimen
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Re: Via degli Abati

Post by Andrea Bezimen »

Leggo sempre con interesse ed ammirazione i tuoi scritti.
Approvo la scelta di eliminare parti di percorso poco interessanti e troppo stradali.
Addirittura se mai riuscirò a fare la via degli abati, io partirò direttamente da Bobbio, magari se riesco raggiungendolo a piedi dalla Val Borbera (è solo un'ipotesi, non ho ancora verificato se la sentieristica lo consente).
Attendo le prossime puntate : Thanks :
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awretus
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Re: Via degli Abati

Post by awretus »

Andrea Bezimen wrote:Addirittura se mai riuscirò a fare la via degli abati, io partirò direttamente da Bobbio, magari se riesco raggiungendolo a piedi dalla Val Borbera (è solo un'ipotesi, non ho ancora verificato se la sentieristica lo consente):
Dalla valle Scrivia al Lesima dovrebbero esserci sentieri, seguendo l'anello Borbera-Spinti. Di lì al Penice potresti dover pestare asfalto, per poi riallacciarti al percorso ufficiale. Non so dirti dei punti di appoggio: tu vai anche in tenda, ma ti consiglio di cenare in ristoranti, per entrare in contatto con i gestori e gli avventori sedentari, che sono un plus del viaggio appenninico rispetto ai trek per rifugi delle Alpi.
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Re: Via degli Abati

Post by Andrea Bezimen »

awretus wrote:
Andrea Bezimen wrote:Addirittura se mai riuscirò a fare la via degli abati, io partirò direttamente da Bobbio, magari se riesco raggiungendolo a piedi dalla Val Borbera (è solo un'ipotesi, non ho ancora verificato se la sentieristica lo consente):
Dalla valle Scrivia al Lesima dovrebbero esserci sentieri, seguendo l'anello Borbera-Spinti. Di lì al Penice potresti dover pestare asfalto, per poi riallacciarti al percorso ufficiale. Non so dirti dei punti di appoggio: tu vai anche in tenda, ma ti consiglio di cenare in ristoranti, per entrare in contatto con i gestori e gli avventori sedentari, che sono un plus del viaggio appenninico rispetto ai trek per rifugi delle Alpi.
Sicuramente, almeno per mangiare mi fermerei spesso in ristoranti visto che sono zone interessanti anche dal pdv eno-gastronomico : Thumbup :
Come hai scritto, arrivare fino a Capanne di Cosola e da lì proseguire magari verso la valle Boreca seguendo il sentiero del postino, è piuttosto semplice (nel senso che sono sentieri che conosco). In alternativa dal Monte Chiappo qualche sentiero scende verso la Val Curone e da lì potrei provare a raggiungere Varzi. Da Varzi a Bobbio però ignoro la sentieristica ma immagino che qualcosa ci sia
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awretus
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Re: Via degli Abati

Post by awretus »

Intanto anticipo che, per chi non ha voglia di leggere un testo così lungo sullo schermo, quando avrò tutto pronto tenterò di prepare un epub.
Ora passo alla seconda tappa

Canevino-Grazzi

Tappa nella zona superiore dell'Oltrepò e inferiore dell'Appennino, in cui il paesaggio, le architetture e l'economia diventano decisamente più agresti e montane, conformi a tutto ciò che incontreremo successivamente. Abbiamo inoltre gli iniziali contatti con il turismo della prima festività dal sapore estivo e le relative temperature.


La colazione è decisamente più scarsa e meno strutturata della cena e pure un po' raffazzonata: dobbiamo mendicare i vari pezzi ad uno ad uno. Questi si dimostreranno posti da pranzi e cene dei giorni di festa dilatati nella quotidianità, ma non da colazioni, nella più folkloristica declinazione italica. Tra l'altro non ce la servono per nulla presto, nonostante siano abituati agli escursionisti, e così dobbiamo camminare sin dal principio con temperatura e insolazione estivi.
Risaliamo infatti già al caldo la strada per Canevino percorsa la sera precedente, ondeggiando nella carreggiata alla ricerca dell'ombra. Dopo la sera fosca, la mattina limpida e soleggiata mi consente una foto turistica alla chiesa sul cocuzzolo. Riallacciatici al percorso della Via, imbocchiamo una sterrata accanto a una cascina, dove una signora innaffia l'orto, circondato da terreno riarso. Salito un dosso nell'erba alta, passiamo tra vigneti, ma soprattutto tra fitti pali e fili, con bella vista sulle basse colline di ieri. Raggiungiamo il municipio di Pometo. Una signora e un vecchio elegante, seduti davanti a una casa, ci indicano il percorso automobilistico per Bobbio, l'unico che concepiscono. Mi prudono le mani dal desiderio di fotografarli, ma non ho l'indole adatta a chiedere dei ritratti.

Scendiamo verso la strada principale, dove ci hanno indicato un bar e un alimentari, a cui approvvigionarci per il pranzo al sacco. Ai tavolini del bar, accanto a un tale accompagnato da un Labradror molto affettuoso, troneggia un distinto signore con un giacca a righe verdi e Borsalino, che ben presto e per un bel po' monopolizza la nostra attenzione. Si chiama Antonio Magri e nella nostra città fu collega del commissario Santamaria. Ora, in pensione, si interessa delle storie dei partigiani di questa zona, sulle cui steli commemorative e relative storie ha scritto due libri. Prima che dei problemi di salute lo fermassero, camminava anche molto sui sentieri di queste colline e dell'Appennino circostante.


Dopo il commiato e gli acquisti, per mia distrazione seguiamo i bolli di un sentiero diverso dal nostro, che per prati scende lungo una ripida capezzagna verso un impluvio. Solo quando noto dell'infrascamento mi sorge qualche dubbio e verifico dal GPS di essere fuori percorso. E dire che prima avevo notato che avremmo dovuto seguire una strada asfaltata, ma non ero stato in grado di fare due più due. Tornati sui nostri passi, tra ciclisti e motociclisti, sotto un sole cocente seguiamo una dorsale con cascine e coltivi. È ormai mezzogiorno e abbiamo percorso appena cinque chilometri dei venti previsti senza l'errore, il caldo è pienamente estivo, sulla strada l'ombra è una chimera: siamo pertanto un po' nervosi. La capogita, che pure indossa scarpe basse, ha i piedi martoriati da asfalto duro e caldo e pertanto si ferma per cambiarle con i sandali, prevedendo ulteriore asfalto, e si protegge dal sole con l'ombrello.

Raggiungiamo in discesa la china di una collina, da cui ci affacciamo sulla sottostante Caminata e lontane e più alte colline, blu per l'intensa prospettiva aerea dovuta alla foschia, con il Penice a fare da quinta. A est il paesaggio include un lago artificiale e un campanile che sbuca dal bosco. Attorno a noi ci sono invece prati falciati e secchi, mentre i dintorni del paese sono più verdi e boscosi; sempre per la caligine, il paese, nonostante i suoi tetti rossi, per ora è a malapena distinguibile dai dintorni. Un detour su prati costringe la capogita a una nuova sostituzione di scarpe. Io invece ho terminato il litro e mezzo d'acqua e ancora non ho fatto pipì.

Giungiamo quindi in un fosso il cui rio, ora secco, era detto in una carta settecentesca di “Malagrida o sia dei porci”, a indicare lo sfruttamento pascolivo delle selve (il primo toponimo è tutt'ora esistente nella costa qui sopra). Risaliamo un vigneto con papaveri e in breve siamo a un parco pubblico videosorvegliato ai margini di Caminata, con fontanella e tavoli da picnic in ombra quanto basta, che eleggiamo a sala da pranzo. Poco dopo arriva, sempre a piedi, un coppia con una bimba in groppa, che si sistema al sole.


Dopo una pausa, nella vana speranza che le ore più calde siano trascorse, attraversiamo il bel paese medievale in pietra, molto curato. La prima citazione del borgo è del 833-835 circa, con il nome di San Sinforiano, un santo importato dalla peregrinatio gallica di Colombano, in un documento dell'abate Wala di Bobbio che elenca le curtes del monastero. Un vecchio con abbigliamento informale e una pila di carte da geometra in braccio, ci racconta che lui ha gestito per un po' di tempo il posto tappa, prima di arrandersi per la malattia della moglie. Ci parla del sentiero della val Tidone, che ha contribuito a tracciare. Per un caffè, ci consiglia un bar ristorante poco fuori percorso, pieno di gente che, con questo caldo, si sta abbuffando di carne alla piastra.

Scendiamo a valle del paese, tra gente che passeggia, evitiamo per poco un'orda di moto da cross, e risaliamo una collina su una salita molto tattile, dove sulla pelle percepiamo il contrasto tra il sole e l'ombra, grondando per poi vibrare al fresco relativo. Passiamo accanto a una villa fortificata, contemporanea ma simile nel concetto a quelle tardo antiche, nel cui prato mi infilo di soppiatto per una foto del paese alle nostre spalle. Per vigneti arriviamo alle due case di Trebecco, dove c'è una casa di riposo, accanto a cui approfittiamo di una provvidenziale panchina all'ombra.

Imbocchiamo una sterrata nel bosco, poi alternato a prati, dove ci vorrebbero uno storico rurale e un naturalista, per leggere le passate funzione e le trasformazioni in corso di questi ambienti. Prima di passare da una bella casa rurale con roseto, incrociamo dei motociclisti di un raid e poi un ragazzo con la vecchia moto del padre, che va in giro da solo per imparare. Nel fitto bosco raggiungiamo Case Giorgi, dove è in corso la ristrutturazione per la creazione di un centro di ritiro spirituale laico.

Per sterrata raggiungiamo una cappelletta, dove ci fermiamo a fare merenda, in compagnia delle zanzare, che la fanno con il nostro sangue. La calura si è un po' placata, ma l'afa resta opprimente. Qui ci sono delle indicazioni per dei cippi indicatici da Magri e dal signore di Caminata. La sterrata sale bordeggiando dei muretti, della rosa canina e alternando prati e boschi, dove frusciano i selvatici, fino a raggiungere dei campi di grano dopo una ripida discesa, in una luce ormai serale. Un tratto che ci riconcilia con il percorso, dopo tanto asfalto. Vista appunto l'ora, telefoniamo per avvisare l'agriturismo e l’albergatore si offre di venirci a recuperare, anche perché pare proprio che letto e tavola siano ben più distanti di quanto ci avesse anticipato all'atto della prenotazione. Ci dà appuntamento all'asfalto.

Poco dopo il nostro arrivo, vediamo giungere un grosso pickup, guidato da un giovane omone dall'aria simpatica e la pelle saracena, in compagnia di un bambino. Carichiamo gli zaini sul cassone, dove si accomoda anche il figlio per farci posto, e ci stringiamo sui sedili. Durante il viaggio il signore ci racconta che, per resistere qui, bisogna arrabattarsi a fare vari lavori a tempo parziale, dal gestire l'agriturismo dove dormiremo e il ristorante dove ceneremo, al coltivare i campi e allo spalare la neve d'inverno con il trattore. Per i ragazzi è parimenti impegnativo, perché le scuole superiori sono a Voghera e Pavia: 50 chilometri di autobus sono davvero tanti, bisogna partire alle 6 e tornare alle 15.

Concordiamo di andare subito a cena e fare la doccia dopo. Il ristorante è una struttura lignea ai margini dell'area protetta di Pietra Corva, di proprietà pubblica. Vi arriviamo al tramonto e mangiamo all'aperto. La cena è nuovamente carnivora, ma riusciamo almeno a scampare ai salumi. Dopo cena, quando è ormai buio, il gestore ci accompagna a dormire a Grazzi, una frazione molto graziosa di vicoli, dove il grosso mezzo deve fare un giro vizioso per trovare un varco largo abbastanza. Sul finire del X secolo, il borgo insieme a un suo castello furono dati in beneficio dal monastero al capostipite degli Obertenghi, feudatari del Regno d'Italia, esempio della nobiltà locale che sottrasse terre e influenza ai monaci bobbiesi. Al piano terra c'è una cucina con un divano letto matrimoniale, al piano superiore ci sono una stanza per due e il bagno. Visto che qui, dopo una giornata rovente, la temperatura è fresca e l'umidità penetrante, accendiamo i termosifoni elettrici per asciugare il bucato, ma li dobbiamo spegnere prima di addormentarci, perché la ventola è più rumorosa di un elicottero.

Per approfondire

Un'intervista ad Antonio Magri in una TV locale
https://youtu.be/AK95DZclooA
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Presso Pometo
Presso Pometo
Ruino
Ruino
Caminata
Caminata
2 giugno
2 giugno
Caminata
Caminata
Trebecco
Trebecco
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Monte Penice
Monte Penice
Pietra Corva
Pietra Corva
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Re: Via degli Abati

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Grazzi-Bobbio

La colazione è autogestita. Per fortuna da qualche mese gli accidenti della vita mi hanno portato a imparare il funzionamento della macchinetta Nespresso, altrimenti saremmo restati senza caffè.

Quando usciamo il cielo è coperto da spesse velature e l'atmosfera molto bigia. Alle finestre ci sono delle signore anziane e un uomo con un cane corso gironzola tra i vicoli. Dobbiamo dirigerci al ristorante e per farlo seguiamo un sentiero indicatoci dall'albergatore, per poi confluire sulla strada percorsa ieri in pick-up, tra prati e alberi coperti di licheni. Seguendo invece le indicazioni per il cammino di San Colombano (un percorso distinto dalla via degli Abati) ne potremmo evitare un tratto più lungo. L'aria è fresca ma molto afosa. Il bar ristorante a quest'ora è ancora chiuso.

Entriamo nel bosco di pini e piccoli faggi, su fondo un po' fangoso, dove scorgiamo fugacemente un capriolo. Con una breve salita nel bosco umido siamo al colle di Pan Perduto, sul confine del territorio assegnato al monastero di Bobbio da Adaloaldo, successore di Agilulfo, nel 622. Pochi anni prima la madre era transitata dal vicino Penice, con lo scopo preciso di fare questa donazione. Sulla costa del Penice non lontano da qui, c'è una pietra confinale con un incavo, ritenuto da una tradizione documentata dall'Ottocento l'impronta della mano di san Colombano, che nell'adiacente grotta si sarebbe ritirato in eremitaggio. Margaret Stokes, colta e devota scrittrice irlandese venuta in pellegrinaggio nei luoghi di san Colombano nell'autunno del 1889, riferisce anche di passate credenze popolari nei poteri taumaturgici della grotta. Le impronte miracolose nella pietra sono un classico della religiosità popolare, che ha bisogno di ancorare la divinità alla materia e ai proprio territorio: ricordo come ieri quel simpatico vecchietto, che in borgo medievale della Ciociaria mi mostrò quelle del santo locale sulla mura del paese.

Saliamo al soprastante affioramento roccioso per un sentiero molto eroso, presumibilmente dalle moto, tra qualche fioritura. In cima la visuale sarebbe a perdita d'occhio, in particolare sulla bassa val Trebbia su cui ci stiamo affacciando, con la Pietra Parcellara e il mosaico di campi. Purtroppo l'atmosfera è davvero tanto fosca e la visibilità limitata, per cui tutto questo ci appare come velato da una cortina e quasi privo di colore. Oltre a ciò vediamo un paese nella direzione di arrivo, magari Romagnese, e il Penice, che ora è vicino. Il Casalis magnifica il panorama visibile da quest'ultima cima, con toni lirici un po' fuori luogo per un'enciclopedia: «si gode il piacere di viste, che dilettosamente sorprendono. I celebri campi di Novi, di Marengo, della Trebbia, tutte le colline del Monferrato dalla Superga a Valenza; la gran pianura lombarda coronoata dalle nevose alpi, che si vedono girare dal Mediterraneo al Tirolo, ed intersecata dal Po, che tratto tratto nascondesi allo sguardo, e vedesi ricomparire in uno sfumato orizzonte, che si confonde col cielo sin verso l'Adriatico; le città di Voghera, Novi, Alessandria, Piacenza di qua dal Po; Milano, Pavia, Cremona Bergamo di là da questo fiume; il Tidone, la Staffora, la Scrivia, la Nure, il Taro e persino il navglio da Pavia a Milano; tutto da quel sommo vertice all'occhio prenstasi distintamente, ove l'aere sia puro, e limpido l'orizzonte. Dalle parte di mezzodì veggonsi le giogaje dell'appennino, e principalmente il Lesima, l'Alfeo, il Dego, l'alto scosceso Penna, o Apenna, disposti in arco; veggonsi i più lontani balzi verso Rapallo, Chiavari, e Spezia; ed anche si discernono agevolmente le fertili valli di Nure, di Enza, di Taro». Può sembrare strano che un'enciclpedia del Regno di Sardegna includa Bobbio, oggi in Emilia, ma il suo circondario fu annesso al Ducato di Savoia dal Ducato di Milano con il trattato di Utrecht del 1713, insieme all'Ossola, al Monferrato e agli Escarton cisalpini. I Savoia erano molto legati all'abbazia, da cui, come detto, avevano in precedenza ottenuto dei codici per la loro biblioteca. Il dotto ci dice anche che ai suoi tempi tutte queste pendici erano coltivate, mentre oggi tra noi e Bobbio si prospettano anche boschi.


Tornati al bivio, su sterrate incredibilmente un po' fangose ci inoltriamo per la faggeta parecchio ombrosa, tra tracce di moto. Dopo il sole a picco dei due giorni precedenti, in questo momento il clima fresco e umido mi è molto gradito, anche se poco fa ha compromesso il panorama. Cerco invano di ottenere buone foto ai compagni tra i maggiociondoli fioriti: domani pomeriggio avrò miglior sorte. Incrociamo un signore, uno dei pochissimi escursionisti incontrati lungo tutto il percorso. Oltrepassiamo dei bivi per sentieri diretti alternativamente a valle o verso il Penice. Dopo una discesa, il sentiero si mantiene in quota e sbuca infine tra i prati presso una cascina, tra timide gocce di pioggia, che verranno e andranno fino a più convinti rovesci pomeridiani. Con prudenza oltrepassiamo la strada del Penice, proprio mentre sfrecciano due Porsche, per imboccare quindi una stradina. La carrozzabile esisteva ai tempi del Casalis, ma una via c'era già in età classica, per congiungere Bobbio con Libarna e Derthona, oggi Tortona; in cima è stata trovata una statuetta raffigurante un togato. La capogita a questo punto decide di indossare i sandali, presso delle formazioni rocciose nere. Il silente resta invece fedele agli scarponi, anche se i suoi mignoli infiammati gli stanno facendo vedere le stelle.

La stradina ci piace molto e decidiamo pertanto di restarvi fedeli, anche quando il percorso ufficiale opta per una via parallela per i prati. Attraversiamo un paesaggio molto agreste di prati e frazioni, con vista sul Lesima: è la montagna più alta di questo circondario ed è facilmente riconoscibile per la cupola bianca del radar in cima. Questa montagna è legata a un personaggio se vogliamo ancora più illustre di Colombano, ma di ben diversa indole, il condottiero cartaginese Annibale: la mulattiera poi divenuta l'attuale SP 88, tra Brallo di Pregola e Capanne di Cosola, che ne costeggia il crinale settentrionale, sulla carta sarda del 1853 è indicata come “strada di Annibale”. L'avv. Felice Bosazza, in arte Orofilo, un escursionista genovese, autore di imprese superomistiche tra questi monti sul finire dell'Ottocento, in un suo libercolo fa riferimento a un'etimologia varroniana, secondo cui il cartaginese avrebbe dato il nome latino di “lesa manus” (mano ferita) alla vetta, per un incidente capitatogli. Anche alcuni toponimi della contigua val Boreca deriverebbero dallo stanziamento di disertori africani del suo esercito. In età romana esisteva una strada lungo la valle, ma purtroppo Polibio non fornisce descrizioni della traversata appenninica, limitandosi a dire che l'esercito passò dall'accampamento invernale sul Trebbia all'Etruria, per cui non è possibile fare ipotesi sul percorso, a differenza che per l'attraversamento delle Alpi. Anche in altre zone dell'Appennino tosco-emiliano ci sono toponimi che evocano il passaggio dell'esercito cartaginese.

Ci fermiamo per il pranzo accanto alla fontana di Gorazze, dove circola un cane dall'aspetto di peluche, che purtroppo non dà confidenza ai viandanti foresti, che desidererebbero ardentemente sprofondare i polpastrelli nel suo pelo. All'artigliere tocca un pranzo un po' magro, perché contava di reperire qualcosa a Pietra Corva, mentre gli altri sono stati più previdenti. In epoca romana, qui esistevano delle sorgenti che venivano convogliate a Bobbio tramite un sistema di tubature, di cui sono stati trovati alcuni tronconi nel corso del Novecento.


Proseguiamo nel medesimo ambiente di cascine sparse, prati, frazioni, casette residenziali, fino a una panchina a un incrocio, dove abbiamo nel frattempo recuperato il percorso ufficiale e ci fermiamo un po'. L'intero versante del Penice si presenta fittamente colonizzato da cascine sparse. Come già osservato, numerosi sono i ritrovamenti di età romana su questo fianco. Di qui in breve raggiungiamo nuovamente la strada del Penice, da seguire per qualche centinaio di metri, in località Valle. Spiccano il rudere di un'osteria e un carro di carnevale o teatro ambulante che sia, parcheggiato sotto una tettoia.

L'albergatore di Grazzi non ci aveva prospettato alternative alla statale, ma evidentemente non deve camminare molto, come si deduce anche dal suo fisico corpulento, perché imbocchiamo invece un sentiero, che ci porterà fino alla periferia di Bobbio. Da una cappella in pietra, ci inoltriamo per calanchi fioriti di ginestre profumate (non ho mai capito la differenza tra quelle che hanno un forte odore e quelle che ne sono prive). Il cielo, coperto dal mattino, inizia ora a scaricare qualche goccia più insistente. Da principio copriamo solo gli zaini, ma entro pochi minuti dobbiamo anche estrarre giacche o ombrelli, che all'arrivo si saranno già quasi asciugati. La capogita trova un luogo riparato dove indossare di nuovo le scarpe.

Per bosco, ma su terreno calanchivo brullo, raggiungiamo un tratto affacciato su un valletta calanchiva. Per scattare una foto, un paio di bacchette malamente appoggiate su una staccionata troppo alta cascano nella scarpata, qualche metro più in basso, ma recuperarle non presenta difficoltà. Ci manca poco per raggiungere le villette moderne, arrampicate dalla periferia di Bobbio sul primo pendio del Penice, lungo la strada che porta lo stesso nome dell'imbocco di Valle, reminiscenza lontana di quando si saliva a piedi. Troviamo invece subito dei motociclisti, di cui Colombano è stato fatto patrono, perché il viaggio perpetuo che caratterizzò la sua vita oggi non può essere concepito che a bordo di mezzi meccanici.

Decidiamo di concederci una pausa prima di un giro turistico per il paese e ci dirigiamo perciò direttamente all'albergo, i cui tavoli esterni alle 15 sono ancora pieni di gente; trippa e fagioli era la specialità odierna. La struttura deve campare assai di più con costoro che con i soggiorni, perché la camera è datata e poco funzionale, con bagno angusto. Fatto il bucato, viene indi appeso con un filo militare di tre metri gettato tra due finestre, nell'infondata speranza che asciughi, per l'aria sempre più umida, per via un breve rovescio.

I dolenti concedono del riposo alle doloranti cavalcature, mentre gli alcolisti spazzolano patatine e birra radical-chic, originaria delle Alpi intitolate ad Ercole e condita di speziato immaginario, per restare in sintonia con il mondo antico qui di casa. Colombano moltiplicò la birra a beneficio dei suoi monaci di Luxeuil intenti al lavoro nei campi: al nord aveva la stessa funzione alimentare del vino mediterraneo e non era certo un prodotto legato all'edonismo e al divertimento come oggi; la Regola vietava comunque di ubriacarsi. Non so se lo abbiano reso patrono dei motociclisti anche per la loro assidua frequentazione delle birrerie, tipo quella intitolata a un'abbazia altomedievale dalle mie parti. In un altro episodio, il monaco cantiniere venne chiamato da Colombano mentre spillava e nella solerzia (l'obbedienza è il primo capitolo delle Regola e deve essere osservata «cum fervore, cum laetitia») dimenticò di chiudere la botte, ma quando tornò la birra non era traboccata, perché aveva formato un cilindro miracoloso oltre il livello del recipiente e non andò pertanto sprecata, negligenza che sarebbe costata una punizione al monaco.

Passo poi a prendere dei contanti al bancomat: avevamo caricato la maggior parte del budget sul mio conto, pensando di poter pagare sempre con la carta, mentre abbiamo dovuto sborsare contanti molto più del previsto.


Dopo un giro in farmacia, in cui i dolenti rimediano della connettivina, paghiamo sotto forma di gelato il nostro obolo all'affollata piazza turistica di gnocchi fritti e analoghi prodotti etnici, non senza ispezionare l'alimentari tipico in vista del pranzo al sacco di domani. Certi prodotti paiono avere parentele liguri: mentre la sera la carne sarà sempre obbligatoria, negli alimentari è possibile reperire anche torte salate di verdure ed evitare il triste panino.

La chiesa dell'ex monastero ha un'atmosfera molto raccolta, grazie al buio romanico. Il dettaglio che più apprezzo è il mosaico del sotterraneo, con anche la rappresentazione dei mesi, un tipico tema del Basso Medioevo; purtroppo lo si può vedere solo di sguincio, perché è cintato. Anche il chiostro zen con porticato e senza giardino è di mio gradimento. Tra le reliquie di san Colombano, una che farebbe comodo sia a noi che al territorio da noi attraversato, è un bicchiere del santo, in grado di risanare chi beve da esso e di colmare d'acqua i pozzi asciutti in cui viene gettato. Sotto il porticato esterno, bordato da un roseto, potremmo rischiare di diventare delle involontarie star overage di TikTok, se distrattamente passassimo mentre due ragazzine filmano i propri balletti.

La cena, come quasi unici clienti dell'albergo tra molti venuti per il solo ristorante, è organizzata in maniera assai caotica, perché i camerieri sbagliano a prendere le ordinazioni, chiedono le stesse più volte, ma soprattutto sembrano non sapere esattamente che cosa sia compreso e che cosa no nella mezza pensione. Ad ogni modo alla fine saranno comprese pure le bevande. La proprietaria è poi così distratta che ci addebiterebbe solo due stanze e non le quattro mezze pensioni, se non la correggessimo noialtri. Come primo prendo pisarei e fasò, gnocchetti e fagioli, l'unico piatto di tutto il viaggio conforme alla Regola, che prevedeva un unico pasto al giorno, con pochi cereali e legumi.

Dopo cena ho ancora il tempo per una puntata al celeberrimo Ponte Gobbo, stupidamente senza portare con me la fotocamera: ci sarebbero la luce crepuscolare e le prime lucciole. D'altra parte, ho voluto restare leggero: non ho portato nemmeno il cavalletto mignon e mi sono limitato a un solo ricambio di intimo, contando che il caldo e la protratta luce serale di giugno asciugassero facilmente il bucato, cosicché lo zaino pesa appena 11 kg, compreso il litro e mezzo di acqua. Oltre il ponte c'è un ristorante affollatissimo.
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Pietra Corva
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Pan Perduto
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Santa Maria
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Strada della Squera
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Re: Via degli Abati

Post by Andrea Bezimen »

Bobbio mi piace un sacco.
Anche i pisarei e fasò peraltro... : Thumbup :
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awretus
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Re: Via degli Abati

Post by awretus »

Bobbio-Mareto

Lunga tappa lungo la quale rimontiamo il morbido e ampio fianco orientale della val Trebbia, per sentieri e stradine, per passare infine in val Nure. I paesaggi sono molto belli, ma saranno soprattutto due incontri appenninici a segnare il cammino.


La colazione è quasi continentale, con il prosciutto e il formaggio a fette per i toast del bar ad ampliare la gamma dolce di prodotti di qualità non eccelsa, ma abbondante e soddisfacente. Dopo gli acquisti per il pranzo di pane, formaggi locali, torte di verdura mezze liguri, frutta e così via, per vicoli molto medievali scendiamo al Ponte Gobbo, il ponte sul Trebbia che deve il nome agli undici archi tutti diversi tra di loro per altezza. Vi avevo già fatto un'inconcludente puntata fotografica prima di colazione, buggerato dalle nuvole ad est.

Il ponte, come lo vedono i nostri occhi, è il risultato di multiple opere di ripristino e rinforzo in età Moderna e Contemporanea, fino ai giorni nostri, dopo le frequenti e distruttive alluvioni del Trebbia, ma gli archeologi hanno trovato fondamenta dell'età imperiale romana. Tuttavia nell'immaginario è uno dei tantissimi ponti del diavolo: chi non era più in grado di comprendere l'organizzata civiltà romana, ne categorizzava le opere mirabolanti nei termini magici della sua epoca, un po' come facciamo noi oggi, che attribuiamo a onnipotenti cricche processi sociali o naturali troppo complessi per poter essere afferrati intuitivamente. La leggenda vuole che san Colombano in persona avesse stipulato il patto, per un manufatto in cambio di una creatura. Il diavolo si adoperò alacremente, con l'ausilio di undici diavoletti di diversa statura a supporto, che spiegano la diversa altezza delle varie arcate come sostegno. Il duro lavoro di una notte fu poi ripagato ben peggio di quello dei precari in nero delle spiagge italiane, perché la prima creatura che passò fu un orso che il santo aveva costretto a lavorare per sé, dopo che gli aveva ucciso uno dei suoi buoi. Della storia esistono naturalmente infinite varianti.

Il ruolo dell'orso riprende, in una storia comune anche ad altre agiografie di santi dell'epoca, il tema del soggiogamento della natura dei monaci, che addomesticarono una seconda volta la natura inselvatichita dopo il collasso del mondo classico. È inoltre una prova della validità della religione cristiana, che si dimostra più efficace delle pratiche animiste, ancora diffuse al tempo, nel controllare la natura. È interessante notare che l'orso pericoloso venne solo reso domestico da Colombano, non venne eliminato fisicamente: allora la natura era preponderante e l'uomo dipendeva da essa, per cui non aveva senso pensare di espungerla, ma bisognava conviverci. Episodi analoghi sono raccontati anche da Giona a proposito di altri orsi, lupi e corvi: ad esempio durante un eremitaggio condivise le bacche, suo unico nutrimento, con un orso e in un altro caso un corvo gli restituì spontaneamente un guanto da lavoro che gli aveva rubato. D'altronde in Borgogna dei lupi avevano accerchiato minacciosamente Colombano, lasciandolo infine incolume, ma soprattuto evitandogli un incontro con briganti feroci, mentre il santo si chiedeva se fosse peggio incontrare belve feroci o uomini malvagi.

Solo con la ripresa delle civiltà e l'estensione dei coltivi a discapito del loro habitat, in epoca carolingia e soprattutto nel Basso Medioevo, i lupi sarebbero divenuti nemici da sterminare: nell'editto di Rotari, c'è al più un riferimento alla concorrenza con loro per le prede selvatiche. Colombano fece un miracolo anche a questo proposito, salvando la preziosa pelle di cervo morto da un orso e dagli uccelli spazzini.

Ai nostri giorni, dopo l'annientamento della natura sulle Alpi operato dall'espansione demografica ottocentesca e al conseguente assalto alla montagna, che eliminò quasi del tutto gli habitat naturali e sottopose a pressione venatoria molte specie di ungulati e grandi carnivori, portandole all'estinzione, si sta ripresentando una situazione analoga. Le ragioni dell'espansione dei selvatici sono molteplici e anche opposte, in parte conseguenza del ripristino dei loro habitat e in parte a dissennate immissioni venatorie, ma sembriamo aver conservato la memoria storica di quando li avevamo eliminati e non siamo in grado di pensare a una nuova coabitazione.


Sul nuovo lato, seguiamo a distanza il fiume verso monte, fino a trovare l'imbocco di una pista, che punta il versante orientale della valle. La pista diviene presto un sentiero sassoso, anche molto incavato nel fitto bosco, con rari scorci, per cui appena possibile lo abbandoniamo in favore della strada, che riteniamo più panoramica. Frattanto il fresco è durato davvero poco, perché si è tramutato troppo presto in afa. Dalla strada l'altra volta vedemmo una volpe rotolarsi felice nell'erba, stavolta una distesa di papaveri con vista su Bobbio e il mosaico di campi circostanti, che per la prima volta nel viaggio mi motiva a adoperare il grandangolare. A breve vedremo invece una fatta di canide piena di pelo: purtroppo solo quando è fresca è chiaramente attribuibile a un lupo, per l'odore nauseabondo di ghiandole anali invece atrofizzate nei cani domestici. Passiamo accanto a delle arnie, protette da una recinzione metallica elettrificata, per impedire i frequenti furti. Tralasciato il percorso del trail “Abbots Way” tra Bobbio e Pontremoli, raggiungiamo la frazione di Santa Cecilia, dove ci fermiamo all'ombra della chiesa per rinfrescarci e siamo raggiunti da un cane lupo molto affettuoso. Un bimbo riempie alla fonte un secchio più grande di lui.

Per sentiero ombroso siamo a Fontana, dove ci sono vecchie case in pietra e una interamente ricoperta d'edera. Per estesi prati, raggiungiamo la sommità di un colle, da cui per calanchi fioriti di ginestre scendiamo tra le colorate case di Coli, dove non ci sono segni di vita, che non siano auto di passaggio: l'unico bar è chiuso. Ci fermiamo a contemplare l'andirivieni motorizzato nel solo angolino ombroso di una grande piazza asfaltata, a un tornante della strada.

Nei pressi di Coli è presente una piccola grotta dove san Colombano si sarebbe ritirato in eremitaggio, presso cui c'è una grande caverna con dentro i resti un oratorio; già al tempo dei Miracula, nel X secolo, era luogo di pellegrinaggio. Era anche luogo sepolcrale, oggi franato, che ha restituito una lastra attribuita al VII secolo con iscrizione del secolo successivo. La Stokes visitò il sito in autunno e rimase particolarmente colpita dai fitti boschi e dal loro aspetto quasi gotico, oltre che dai loro colori, arrivando a concludere che erano molto migliori di quelli delle Alpi, allora quasi prive di boschi. La scrittrice irlandese non riuscì invece a trovare un fiore che, sempre secondo i Miracula, nascerebbe dalla nuda roccia priva di acqua e ogni anno in un luogo diverso, cosa che al monaco che li scrisse pare ancora più miracoloso, sebbene nessuno lo semini. Era di un legume, chiamato herbilia dai locali, che un botanico ginevrino coevo della Stokes, Alphonse de Candolle, identificò con qualche specie di pisello, o la roveja (Pisum arvense), il pisello selvatico che si vede fiorire un po' ovunque in bassa montagna, tutt'ora coltivata in Umbria e Marche, oppure il Pisum sativum, il pisello che mangiamo più comunemente.

Per noi invece la tappa è già troppo lunga così: ci vorrebbe tutt'altro passo e spirito per la deviazione. Scendiamo pertanto in una conca boscosa e per sentiero raggiungiamo Magrini. Prima di arrivarci, a un bivio vediamo che è possibile prendere in ambo le direzioni. Non so in base a quale ragionamento andiamo a sinistra, forse perché era citato il nome Faraneto nel cartello, sicuramente non dopo aver consultato la traccia e la guida, che mandano invece a destra. Seguiamo una strada, quindi labili segni ci indirizzano a un sentiero che scende in un fitto bosco, dove resteremo a lungo, benedicendo l'ombra, perché il sole picchia come Tyson dopo che hai offeso l'onorabilità della mamma. In un tratto più aperto notiamo dei rapaci in alto.

Dopo un lungo tratto in quota, tagliando un pendio, superato un rio, prendiamo a salire su una pista. Troviamo una zona cintata con corrente elettrica e in parte disboscata di recente, dove pascolano delle vacche pelose e cornute di color marrone.


Raggiungiamo infine una spalla del pendio, dove si trova il castello di Faraneto, un edificio di origine medievale (XIV secolo), che fu di proprietà dei Nicelli, signori della val di Nure, a cui i vari stati che si succedettero nel dominio della zona nella Prima Età Moderna, prima del consolidamento del Ducato di Parma e Piacenza, si appoggiavano per imporsi sulle popolazioni locali e sottrarre loro gli antichi diritti medievali. Sono ancora chiaramente riconoscibili dei fregi sulla facciata.
Ci stringiamo a pranzare nella poca ombra disponibile, seduti su un gradino. Esce un vecchio molto coperto, che ci dice di essere il proprietario e di essere nato lì, quando il gruppo di case funzionava come azienda agricola e c'era anche una chiesa. Per lavorare lui invece emigrò in pianura, naturalmente a San Colombano al Lambro, e ora nella bella stagione torna a vivere qui con la moglie. Nel tempo libero, praticò la caccia alla piuma, fino a due anni fa, quando gli morì il cane da ferma. I dintorni appartengono invece a un architetto di Milano, come anche le vacche Highlands, allevate per la carne a basso colesterolo. Il signore ci racconta di un vitello mangiato dai lupi e di uno ucciso dai cacciatori. Immagino che l'architetto starà facendo la macumba ai due vecchi, per poter entrare in possesso anche del castello e includerlo nell'ecovillaggio costruito nel decennio scorso.


Quando possiamo sperare che il sole si sia rabbonito, riprendiamo a camminare lungo una stradina, tra i vitelli, alcuni dei quali hanno superato le recinzioni. In parte la nostre speranze sono concrete, in compenso però ora anche l'ombra è calda. Circumnavighiamo la chiesetta di san Medardo, costruita su uno sperone dirimpetto a Faraneto, mentre sull'altro lato della strada ad un certo punto compaiono l'Alfeo e il Lesima. Il valore leggendario del primo è più concreto, in quanto in cima vi fu trovata una statuetta classica di un orante, durante i lavori di scavo per posare l'attuale Madonna di vetta.

Raggiunto un gruppo di case, dove si favoleggia la presenza di cinquanta gatti e dove dei bambini giocano a palla per strada, ci fermiamo a bere a una fontana alimentata dall'acquedotto, ma un signore ci indirizza su una poco più avanti, con acqua fresca di sorgente. La troviamo subito a valle della strada, contornata da una muratura in pietra calcarea.

Mentre siamo seduti, ci raggiunge la moglie del costruttore, che ci racconta di quando i suoi nipoti allora fanciulli avevano voglia di trascorrere tutta l'estate in paese, mentre ora, divenuti adolescenti, non resistono che pochi giorni. Con grande passione, ci racconta di come cura quest'angolino, dove hanno appena falciato l'erba, e di come continuano a progettare di abbellirlo. La passione e la cura per un luogo sembra essere una sensibilità che viene soprattutto da vecchi, mentre nelle età centrali della vita si preferisce vagare o si è costretti a farlo. Purtroppo l'elevazione dell'età pensionabile contrae sempre di più quella stretta fascia, in cui siamo troppo vecchi per un lavoro utile al PIL, ma ancora abbastanza attivi per un lavoro utile alla vita. Tra tutte queste parole, mi dimentico di chiederle come si chiama la chiesa, di cui vediamo il campanile svettare dalla dorsale di fronte. Mentre ci allontaniamo, passiamo accanto al marito, che sta lavorando a torso nudo nell'orto. Questi con passione e foga si lancia nella minutissima cronaca della ristrutturazione della fontana, partita da un'idea emersa in un brain storming durante una libagione collettiva, che magari Colombano avrebbe disapprovato, e proseguita con un lavoro gratuito collettivo, questo sì degno di quello dei suoi monaci.


Ci divincoliamo non senza sforzo e seguiamo la stradina assolata fino a Pescina, poche case in pietra e nessuna persona. Imbocchiamo un sentiero in salita tra affioramenti rocciosi e ampi prati fioriti, in via di invasione dai primi cespugli, dove nel periodo estivo vengono a pascolare le Highlands. La luce ora è meno dura, anche per il cielo parzialmente velato, ma non abbastanza per le foto ai fiori, che tento senza convinzione. Mi va meglio con Alfeo e Lesima, lontani spiriti svolazzanti sopra le colline, per la foschia della caldissima giornata dal sapore estivo, ma chiaramente riconoscibili per la forma singolare.

Sbuchiamo su una strada asfaltata e per essa raggiungiamo la Sella dei Generali, valico tra la val Trebbia e la val Nure, dove ci attendono dei ciclisti. Dobbiamo ora seguire una sterrata per vari chilometri. L'altra volta le percorremmo quasi correndo per anticipare un temporale che brontolava sopra le nostre teste, stavolta con la stanchezza e l'indolenza del caldo, ora non più opprimente, ma che ci ha fiaccato. Inoltre non è prestissimo, per cui avvisiamo che faremo tardi per la cena, ma per fortuna siamo in un albergo ristorante, dove fino alle 21.30 affluiranno clienti e non hanno problemi. Li avevamo invece avuti in fase di prenotazione, perché in zona si è appena tenuto un fastoso matrimonio, che aveva riservato tutte le strutture della zona anche per svariati giorni successivi (in questa tappa si può pernottare indifferentemente a Mareto o alla vicina Nicelli), ma su nostra richiesta avevano liberato due stanze.

In tre imboccano pertanto la sterrata, mentre io seguo una traccia poco sopra cercando invano di carpire un po' di panorama verso la val Nure. Tra motociclisti e ciclisti che risalgono, percorriamo stanchi e annoiati questo tratto monotono tra cespuglieti e boschetti, ingannando il tempo in discussioni su argomenti non correlati al viaggio o fotografando i maggiociondoli.

Attraversiamo i prati attorno al paese, tra casette di vacanza, fino a raggiungere l'albergo, privo di insegna, di fronte alla chiesa con il campanile in ristrutturazione. Dobbiamo perciò chiedere conferma ad alcuni avventori seduti nel dehors. Come ieri, l'arredamento delle stanze e della zona notte in generale è datato, senza contare che le docce sono anguste, con non pochi disagi per l'artigliere, che pesa quasi cento chili (e li ha portati tutti sul Monviso). Il silente e la capogita hanno invece seri problemi ai piedi, macerati dal caldo e dai tratti sul duro della tappa più lunga del viaggio. Io consiglio loro di riposarli e fare in taxi la tappa di domani, che ricordo poco entusiasmante anche se certo non brutta, ma stringeranno i denti e ce la faranno. La cena è molto buona e il locale per il ristorante tirato a lucido di recente.

Con i paesani ai tavolini parliamo del caldo, che non ricordano mai essere stato così asfissiante in questa stagione, così come gli inverni mai altrettanto avari di neve.
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Bobbio
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Cascina Pre
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Coli
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Faraneto
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San Medardo
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Cornaro
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Lesima e Alfeo
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Re: Via degli Abati

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Mareto-Groppallo

Come anticipato, questa non sarà certo la tappa più entusiasmante del viaggio, se non per note antropologiche, ma nel finale avrà qualche spunto gradevole.


Al mattino scambiamo due chiacchiere con un romagnolo in bermuda di jeans, T-shirt e collana d'oro, uno dei molti tizi del viaggio che dovrei avere il coraggio e la faccia tosta di ritrarre. Al mattino presto è andato a fotografare i caprioli nei prati circostanti, con il grandangolo del cellulare, per cui ci mostra dei puntini marroni. È affascinato dal nostro viaggio.

Per stradina andiamo a Bolderoni, una frazione di casette ristrutturate con tocco moderno, protetta da un minaccioso Padre Pio, dove ci ricongiungiamo al sentiero di Nicelli. Scendiamo per una sterrata tra prati assolati, di un sole molto fastidioso, perché velato da una densa foschia. La chiesa di Groppallo, nostra meta oltre la valle, è ben visibile sin da qui in cima alla collina oltre la valle.

Dove ai prati succedono dei boschetti, sentiamo un rumore sordo e inquietante, come quando in galleria entra una colonna di TIR. Ben presto dal basso, lacerando il silenzio dei boschi come le grida di guerra vichinghe di “Immigrant song”, arriva un'orda selvaggia di moto rombanti e sgommanti, che sollevano terra e lasciano i loro solchi sul fondo, dandoci appena il tempo di metterci al sicuro al margine della mulattiera. È una domenica italiana, fino a domani dobbiamo lasciare ogni speranza.

Costeggiamo un rio quasi asciutto profondamente scavato dall'alluvione di qualche anno fa, a causa della quale morirono anche due persone nella loro auto travolta dal Nure. Ne oltrepassiamo un affluente, incrociando tre persone di corsa e senza zaino e un signore in cammino con. Superiamo un complesso ricettivo chiuso, ma in buono stato e prati circostanti curati, per poi seguirne la stradina di accesso, tra sole e qualche ombra di fronda. Mi arrampico sulla sponda per scattare una foto a un albero in mezzo a un campo di grano e ho la sorpresa di trovarvi i fiordalisi. Purtroppo non posso condividere, perché gli altri sono troppo avanti e già impegnati nel saccheggio ungaro di un ciliegio. Passate un paio di frazioni molto rurali, con macchinari agricoli parcheggiati tra le case, facciamo una pausa a Guglieri. Da queste parti le frazioni non prevedono spazi di riposo ombreggiati. Il silente sta patendo le pene dell'inferno per i suoi mignoli infiammati.

Tra boschi e prati, un sentiero ci conduce alla sponda del Nure, dove confluiamo su una stradina asfaltata poco ombreggiata. Con una certa pena, ci trasciniamo verso Farini, tra numerosi bagnanti nel letto di molti sassi e assai scarsa acqua. Vista la siccità, potremmo guadarlo e tagliare via la noiosa strada che ci attende, ma non abbiamo approvvigionamenti per il pranzo e dobbiamo pertanto passare per Farini. Ci dobbiamo nuovamente fermare su una panchina all'ombra, nei pressi di un parcheggio per camper, oltre un colatoio di detriti: il paesaggio e l'atmosfera non sono certo ilari e bucolici. È ormai ora di pranzo e il mio progetto di prendere un boccone al supermercato, anche solo della frutta vista le temperature, è sfumato. Il cellulare della capogita individua un ristorante oltre il ponte sul torrente e lì ci dirigiamo, con un rapido e distratto sguardo al paese moderno e al suo possente argine di cemento armato, dipinto di murales.

Subito il titolare dal volto inespressivo dice di non avere posto, salvo poi rincorrerci perché ha un tavolo libero all'interno, dove peraltro fa più fresco che nel dehors, con nostro gaudio. Vorremmo solo prendere un piatto, perché la cena si annuncia sostanziosa (saremo in un albergo salumificio), ma poi ci lanciamo. Incredibilmente troviamo della frutta, nella forma di fragole al naturale; nelle gite in giornata in questa stagione le porto spesso con me, ma in un trek di più giorni sono poco pratiche, perché richiedono una lunga pulizia, una fontana per lavarle e un sacchetto da frigo dedicato, per il succo che la pressione dello zaino fa loro trasudare. Intanto il titolare si è rilassato e ha cominciato a sorridere e fare battute: forse era solo teso e stanco per i quattro giorni di intenso lavoro. Al momento del pagamento ci lascia con un'espressione dialettale che ho dimenticato di appuntare prima di dimenticarla.


Ripreso il cammino, sotto un cielo più azzurro per la diminuzione della foschia, con un clima meno afoso e della brezza, tagliamo i tornanti della strada seguendo una curiosa indicazione, che manda a Boccolo de' Tassi: ci transiteremo domani e all'epoca delle Adbreviationes era sede di un importante ricovero per pellegrini, ma oggi è un gruppo di case come un altro. Quando siamo nuovamente sull'asfalto, cerco il cellulare per controllare che non abbiamo perso un imbocco e mi rendo conto di non averlo in tasca. Subito mi ricordo di averlo posato sul tavolo prima di andare in bagno e non averlo più ripreso. Lascio pertanto andare avanti i miei amici e torno sui miei passi. Non appena varco la soglia del ristorante, sono accolto da un boato: «Il telefono!» Il titolare me lo porge, lo ringrazio e mi rimetto in moto.

Tra i prati, con lo sfondo del colatoio sull'opposto versante, che d'altronde sarebbe difficile non notare, date le dimensioni, passo a fianco di un rustico in rovina e a dei signori seduti su una sedia accanto all'auto. Sento intanto gli amici, descrivo dove sono e apprendo che mi stanno aspettando più avanti all'ombra del bosco (tra le case non c'erano posti dove sedersi). Quando li raggiungo, sono impegnati in un pit stop ai piedi doloranti.

Raggiunti dei bei prati attorno a Groppazzolo, lasciamo il sentiero nel bosco e seguiamo invece la strada, per apprezzarli meglio. Anche la borgata è molto graziosa; della gente è seduta sull'uscio a godersi il giorno festivo. Inoltre, nonostante la tappa breve, anche oggi siamo riusciti a essere ancora in viaggio al tardo pomeriggio e a godere della relativa luce. Dalle case saliamo, con vista su un blocco roccioso in lontananza, che all'albergo mi diranno chiamarsi Roccone di Cassimoreno, per un bosco che sembra di cerri. Da un prato ammiriamo dal basso la grande chiesa in cima alla collina, fino a raggiungere la strada ai margini di Groppallo.

Andiamo subito in albergo. La doccia di stasera è anche più scomoda che nei giorni precedenti, perché hanno quelle vasche corte con sedile, dove si può solo stare seduti. Almeno però la stanza è ampia. Dopo, in solitaria salgo alla chiesa costruita in cima al monte Castellaro, così chiamato per aver ospitato un fortilizio medievale. Ci arrivo per una stradetta sassosa, indossando solo i sandali da rifugio da tre etti il paio, con la loro suola sottile come una fetta di prosciutto. Speravo che il luogo fosse panoramico, ma purtroppo il camminamento attorno è circondato dai alberi, per cui rinuncio all'idea di salire a fotografare l'Appennino all'aurora, con il tele. In compenso, però, il cimitero moderno è davvero monumentale, persino sproporzionato per la piccola frazione, come la chiesa del resto, e si presta pertanto a qualche foto al tramonto. Naturalmente nel luogo elevato non possono mancare i ripetitori dei cellulari, che non sfuggono al mio obiettivo. Nel basamento del cimitero c'è poi un interessante deposito di avanzi, tra cui un gigantesco cappello da alpino, su cui mi dimenticherò di chiedere ragguagli in albergo. Tutto intorno ci sono depositi di materiale antico, accumulati durante i lavori di ampliamento di chiesa e cimitero, che sono stati scavati nei primi anni 2000: il luogo è infatti interessante, sia per il fortilizio, sia per la presenza di un'officina medievale di fabbricazione di perline in steatite, una roccia ofiolitica ricca di talco e quindi facilmente modellabile. Il monte stesso è un affioramento ofiolitico dell'originale basamento dell'oceano ligure-piemontese, su cui si sono depositati i sedimenti marini, che formano la quasi totalità delle rocce appenniniche; la steatite proviene invece da zone circostanti. La destinazione dei manufatti erano forse i primi rosari, per la celebre forma di culto mariano che nasceva proprio in quei secoli.

Torno quindi alla base per ora di cena, non senza vaer verificato la presenza di un supermercato che apre presto. Come antipasto ovviamente ci fanno assaggiare i loro salumi, tra cui spiccano i nervetti, tendini bolliti accompagnati da cipolle e fagioli. L'altra volta, evidentemente in una fase più vegetariana, preferimmo evitare l'esperienza e optammo per un albergo alternativo, che era così trasandato che gli estintori risultavano verificati l'ultima volta negli anni ’90. Quella volta, poi, a quest'ora era sceso un acquazzone e, al termine, nuvole basse correvano per le vie come nei romanzi fantasy più kitsch. Per secondo vorrebbero propinarci appunto altra carne, ma riusciamo a contrattare un frittata, che condiscono con formaggio. Come amaro assaggiamo un prugnolo di loro produzione.

Chiacchierando poi con la signora che ci serve a tavola, viene fuori l'episodio di un gruppo di camminatori giunti in un sol balzo da Bobbio a qui. Lei è affascinata dall'impresa: come molti sedentari, è colpita soprattutto dall'aspetto atletico del cammino e sembra sfuggirle del tutto quello contemplativo, che con una marcia forzata del genere non è possibile curare.
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Mareto
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Guglieri
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Groppallo-Bardi

Questa tappa transita per una miriade di minuscole frazioni, in parte popolate e in parte disabitate, dove ad ogni modo nel giorno feriale non abbiamo incontrato anima viva. All'inizio descriviamo un semicerchio, restando in quota, per poi entrare nella valle del Ceno e scendere verso Bardi.

Dai pressi del passo Liguadà è possibile seguire una variante più per boschi, lungo una dorsale. Pur non avendola percorsa, non mi sento di consigliarla, perché il bello di queste terre sono i paesaggi misti di natura, coltivazioni e abitati, oltre agli incontri con i loro residenti, mentre, come constateremo scendendo verso Borgo Val di Taro, i tracciati nei boschi sono più monotoni.


Dopo un'abbondante colazione a base di pane, burro e marmellata, qualcuno acquista ancora dei salumi dell'albergo al supermercato. Questa piccola frazione è assai vivace, perché vi sono diverse strutture ricettive e di ristorazione, oltre a questo supermercato, nonostante l'agglomerato consista in poche brevi file di case lungo una strada molto secondaria.

Dal paese seguiamo una dorsale boscosa alternata a prati, su fondo di fango rinsecchito. Successivamente compaiono i campi coltivati a cereali, macchiati di rosso dai papaveri. Le frazioni paiono in parte ancora vissute, ma ci sono anche grandi case dismesse: a meno che non si riesca a inventare qualche prodotto agricolo, generosamente condito di mitologia del naturale, da propinare a caro prezzo ai radical-chic, è duro immaginare un futuro per l'agricoltura marginale di questa zona. L'osservazione sui vecchi fatta alla fontana di Cornaro è valida anche qui: generalmente ci è capitato di vedere solo vecchi girare sui trattori, gente in pensione che probabilmente lo fa solo per passione, tradizione o per tenersi vivo.

Raggiungiamo la torre di Sant'Antonino, che ha l'aspetto di un campanile, forse della tipica chiesa altomedievale, circondata da case di legno, successivamente rimasta isolata quando i processi insediativi del Basso Medioevo trasferirono le popolazione altrove, verso altri centri di potere. La torre si presenta completamente vuota all'interno. Ci fermiamo e ci scattiamo qualche foto con essa.

Poco più avanti mangiamo della frutta in un borgo deserto, in cui dei pavoni sono l'unica presenza animata. Doveva avere un certo tono in passato, perché alcuni portali presentano dei fregi.

Proseguiamo in saliscendi alternando gruppi di case, prati, boschi, asfalto, sentieri, in un'atmosfera assai bucolica e rilassante. Non ci rendiamo conto di sfiorare un bar, da cui nel precedente viaggio avevamo sentito arrivare una melanconica nenia. Entrati, avevamo trovato una ragazza esercitarsi alla fisarmonica, mentre altri avventori stavano seduti e muti, come in uno sperduto avamposto nella steppa, dove la gente è consumata dalla solitudine e dalla noia.
Completato il semicerchio, ammirando dapprima Groppallo e il Castellaro dal lato sud-est, quindi un picco roccioso oltre il passo, il monte Roccone, percorriamo un lungo tratto in cui ci sparpagliamo, seguendo ciascuno i propri interessi, fino ad arrivare alla poco pronunciata sella del passo Linguadà, dove transita la strada e c'è un ristoro, che al nostro arrivo è sprangato.


Cerchiamo un posto dove sistemarci per il pranzo, tra le casette di vacanza nei pressi del passo, e finiamo attorno a un tavolo sotto una tettoia, a fianco di una casa ora vuota, come paiono esserlo tutte le altre. Mentre pranziamo passa l'ostessa del passo in auto e subito dopo torna indietro. Pochi istanti più tardi, arriva a piedi e ci fa un ***** epocale con tono acido: è stata incaricata dai residenti di verificare il rispetto delle proprietà e fa il suo dovere spietatamente. Non ci scomponiamo più di tanto, visto che non stiamo danneggiando nulla e concludiamo il pasto.

Dopo andiamo a prendere un caffè dalla signora, che di voglia di parlare ne ha davvero tanta. Ci racconta la sua storia di figlia di emigrati a Parigi dalla Val Soana, una valle del Canavese oggi quasi spopolata, dove d'estate le targhe francesi sono comuni. Ha sposato una persona di queste parti emigrata e ha deciso di rientrare nella terra dei suoceri quando la figlia si è sentita discriminata per ragioni sociali. Ora gestisce tra mille difficoltà questo locale in una zona marginale, dove anche ottenere delle forniture è una battaglia con l'unica ditta disponibile a venire sin qui: per la maggior parte delle materie prime deve arrangiarsi da sola.
Ha anche un bel caratterino: è incattivita contro tutti. In primis l'amministrazione di Bardi, rea di curare solo il centro cittadino, dove è stato creato un albergo di lusso dove ha soggiornato la Hunziker, trascurando invece le attività sui monti. Quindi anche l'associazione che cura la Via degli Abati, alla cui richiesta di obolo ha risposto con un diniego, perché non cura i sentieri della zona, con il risultato che ora il suo locale non è più citato nell'ultima versione della guida. Non parliamo poi degli escursionisti che si mettono a dormire o mangiare il proprio panino nel suo dehors e non consumano nulla. Riguardo alla sua patria, ce l'ha con i *neri* immigrati e i dipartimenti d'oltremare, con i meridionali in Italia (non ricordo più i motivi di questi ultimi tre rancori).

Ci racconta poi dell'alto tasso di tumori intestinali della zona, dovuti all'elevato consumo di salumi. Ci mette infine in guardia dalle zecche, che finora nessuno ha raccattato.


Sotto un cielo ora coperto, scendiamo verso Bardi per uno stradello, quindi ci tocca una breve risalita per un viale alberato a una frazione con una grande fonte: Boccolo de' Tassi, dove una volta operava un ospizio per viaggiatori intitolato a san Pietro e gestito dal monastero bobbiese, documentato negli inventari del IX secolo. Questo indica chiaramente che la via verso la Toscana longobarda, essendo inagibile la costa ligure, bizantina fino alla conquista di Rotari, doveva passare di qui: d'altronde Bardi allora era una fortezza longobarda. Questa via ricalcava una precedente via romana tra Luni e Veleia. Il legame con il cenobio era così forte che ancora nel secolo XII era suo compito provvedere alla presenza del prete, di tutti i paramenti sacri e persino dell'olio santo. Va detto tuttavia che la pista non transitava dal passo Linguadà, ma dal Pellizzone.

Passiamo nei pressi di altre case sparse, di cui una intonacata e abbellita da fregi. L'altra volta qui avevamo sperimentato il misticismo del fango appenninico, scoprendo pure che era meglio camminare nelle pozze lungo i solchi dei trattori, dove il terreno era più compatto. Intanto, tra chi si ferma a bere alla fonte, chi prosegue oltre ma si ferma dopo a fare pipì, ci disperdiamo e non sappiamo più se gli altri siano avanti o dietro. Per di più non prendono i cellulari, non solo quelli Wind, ma neanche i TIM, per cui a poco vale la strategia di uno dei primi di usare il fisso di una casa. Ad ogni modo, fermandoci e esplorando i dintorni, ci ricompattiamo rocambolescamente a Cerreto, un tipico nome bassomedievale di quando i cerri si diffusero a discapito delle farnie e dei roveri, perché si rigeneravano come ceduo, a differenza dei secondi.

Dopo aver chiacchierato con un signore con tendenza alla confabulazione, seguiamo una strada asfaltata dallo scarso traffico, mentre comincia a cadere qualche goccia. Mi accorgo intanto dal prurito che il maleficio della masca valsoanina ha funzionato e ho una zecca sul braccio. Il termine masca, adoperato ancora oggi in Piemonte per indicare pressappoco le streghe, è doppiamente appropriato, perché compare la prima volta nell'Editto di Rotari. Mentre raggiungiamo una sterrata diretta a Grezzo, le gocce si tramutano in acquazzone e ci costringono a indossare le coperture.

La pioggia non dura però che pochi minuti e già alle case successive splende il sole. La capogita riconosce un vecchio con cui chiacchierammo l'altra volta; già allora aveva 93 anni e quindi ormai va per i 100, e al tempo girava sul trattore solo per tenere vivi entrambi. I miei compagni si fermano, mentre io proseguo per avere più soggetti con la luce di dopo la pioggia e il terreno e le foglie ancora bagnate. Raggiunta la provinciale del passo Linguadà, la lascio nuovamente per attraversare una frazione dal nome longobardo, Villa dei Gazzi: il gazzo, termine del nord Italia, gaggio nell'editto di Rotari, gualdo nell'Appennino (foresta era invece il termine franco equivalente), era il bosco demaniale di pertinenza regia.


A causa dell'aumento della superficie boschiva connessa con la crisi dell'Antichità e la crisi demografica del VI secolo, i longobardi dipendevano assai più dalla caccia e dalla raccolta dei prodotti del bosco che dall'agricoltura. Quest'economia poteva sostenere una minor quantità di popolazione, ma era un vantaggio per la popolazione rurale, che era più libera e meglio nutrita: gli ultimi cacciatori-raccoglitori del Neolitico erano più in salute dei primi agricoltori, ma questi prevalsero perché erano più numerosi, ingabbiando così la maggior parte dell'umanità nella schiavitù di un lavoro molto più pesante e meno remunerativo, da cui sarebbe uscita solo dopo le conquiste sociali successive alla Rivoluzione Industriale. La società dei cacciatori-raccoglitori, inoltre, come già osservato a proposito dei villaggi di legno costruiti sui resti delle ville romane, era una società più egualitaria di quella agricola.

Il bosco era così importante per la casse regie che lo sfruttamento era regolato da funzionari preposti, come i già citati porcari, ma pure i silvani o i gualdamanni, con anche gerarchie al loro interno, per la presenza di arciporcari e arcigualdamanni. Tramite la concessione di boschi demaniali a aristocratici o monasteri, il re gestiva i rapporti politici e sociali.

Non di rado le concessioni producevano conflittualità con le comunità rurali che fino ad allora vi avevano attinto risorse liberamente. I beni demaniali erano rimpinguati tramite il sistema penale. La legislazione longobarda non prevedeva pene afflittive, salvo un uso molto parco della pena di morte, ma un sistema di compensazioni volte a impedire la vendetta privata e il turbamento della pace sociale. Le multe dovute al re erano spesso pagate in natura tramite terreni, con i quali il demanio regio si arricchiva. Nel corso della fase di crescita di cui fu protagonista il monastero di Bobbio, i boschi, oltre a contrarsi, mutarono anche volto, perché si espansero le selve coltivate a ceduo per la produzione del legname, dove mutarono anche le essenze dominanti, perché le specie in grado di rigenerarsi dai polloni, come gli appena citati cerri, si estesero a scapito delle altre.


Poco più avanti vedo una chiesa con ampio sagrato poco a valle della strada e decido di aspettare lì gli amici. Mando loro un messaggio, che però non arriva, perché hanno i dati disattivati; mi vedranno tuttavia scendendo. Approfitto della sosta per levarmi la zecca con la pinzetta preposta e poi facciamo una merenda tutti assieme.

Di qui seguiamo la strada, che ogni tanto si può evitare con piste sottostanti che non cambiano il senso del percorso. Dopo uno spiazzo con statua della Madonna di Lourdes, arriviamo così alla chiesetta romanica di San Siro, molto graziosa, se non fosse a bordo strada e non avesse vicino i ripetitori dei cellulari. In Italia la protezione del paesaggio rurale tradizionale non è proprio una priorità, anche dove esigenze produttive o di modernizzazione non sono così pressanti.
Imboccata una stradina secondaria ormai con vista sul massiccio castello di Bardi, costruito su una rocca a sovrastare il paese, passiamo accanto a un cenacolo di anziani, alcuni dei quali inglesi, per raggiungere infine il centro abitato. Il castello in cima a una rocca o a un colle è il simbolo per eccellenza del Basso Medioevo. Il suo ruolo non era solo militare, ma anche civile, perché la popolazione viveva accentrata in luoghi che le offrissero protezione. A volte la costruzione dei castelli era promossa proprio per attrarre contadini in un’area prima disabitata, che si desiderava colonizzare.

Con grande sconcerto, scopriamo che oggi è giorno di chiusura dell'hotel prenotato. Telefoniamo e appare così la proprietaria, che ci dice di averlo comunque tenuto in funzione per noi. La dispensiamo però dall'improvvisare una cena, preferendo invece un ristorante. Dopo la doccia e il bucato, che non asciugherà per nulla, vista l'ora tarda e l'aria umida per l'acquazzone, ci accomodiamo perciò in un cortiletto con una vite per tetto, dove tentano una cucina molto ricercata: io provo una pasta ripiena di castagne, che come tutte le altre portate sicuramente reintegra i sali (mi sveglio di notte con una sete pazzesca).
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Torre di Sant'Antonino
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Boccolo de' Tassi
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Cogno di Grezzo
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Fulgoni
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Villa dei Gazzi
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Bardi
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Bardi-Noveglia

Tappa non molto lunga, che abbiamo dovuto accorciare per la furia degli elementi: ci hanno sorpreso infatti prima un temporale e quindi una bomba d'acqua, durata un paio d'ore.

La guida prevede di raggiungere Borgo val di Taro in sol boccone, ma la tappa risulta troppo lunga, a meno di non procedere con una marcia forzata, per cui è meglio suddividerla. L'altra volta avevamo finito per prendere una scorciatoia, più sbrigativa e meno gradevole del percorso principale.


Annoto che facciamo una discreta colazione, ma soprattutto che la signora ha modi molto più cordiali di quelli bruschi di ieri sera. Compriamo il pranzo in parte in un alimentari poco fornito, indi in una panetteria con ottime torte salate, dove incontriamo anche l'albergatrice. Facciamo poi un giro in farmacia per la gamba del silente, che si è gonfiata da un paio di giorni per il caldo sommato a problemi cronici.

Tra rustici diroccati, imbocchiamo il sentiero che gira attorno alla rocca del castello, molto pittoresca con i suoi picchi e la costruzione in cima, come nei sogni di Ludovico II di Baviera. È formata da rosso diaspro, una roccia sedimentaria dovuta all'accumulo di gusci silicei di microorganismi, abbondantemente coperta di licheni. Una fortificazione è attestata dall'898, opera del vescovo piacentino Everardo, uno dei poteri locali che contendeva a Bobbio il controllo sulle valli. Scendiamo quindi al Ceno, il cui ampio letto sassoso e quasi asciutto attraversiamo su un ponte stradale, per poi replicare con il Noveglia. Su questo secondo ponte, largo poco più di un'auto media, incrociamo una Panda bianca delle prime serie, guidate da un vecchio che accosta incollato al parapetto e si ferma per lasciarci passare.

Imbocchiamo una mulattiera che sale diretta per il pendio, ombreggiata da due filari di alberi, che rendono più sopportabile il caldo oggi molto afoso e con aria stagnante. Oltrepassate varie borgate carine, con vista su Bardi, raggiungiamo il colmo della salita presso Chiappa. Qui procediamo in quota, su una pista ora più assolata, perché chi viaggia in auto non ha bisogno dell'ombra, bastando un finestrino aperto o il condizionatore; anzi i filari di alberi lungo le strade sono talvolta bollati come assassini per quelli che ci finiscono contro. Dopo una casa in ristrutturazione circondata da un noccioleto di recente impianto, rientriamo nel bosco. Il sentiero transita tra vecchie case abbandonate e avvolte dalla vegetazione, che dovevano avere un loro tono e una loro ambizione, come testimoniato da architravi e stipiti di pietra, ma questo desiderio di prestigio sociale è stato inghiottito dall’edera, insieme a tutta la civiltà sottesa. Per la monotonia del paesaggio boschivo, si accende un'animata discussione su temi sociali; la Regola prevedeva 50 bastonate per chi alzava la voce.

Raggiungiamo Monastero, un paese in larga parte diroccato, con una grande chiesa barocca, presso cui ci concediamo una pausa. In paese circolano molti gatti e altri sono chiusi in un appartamento. Vediamo arrivare un temporale e ci suddividiamo tra due tettoie, approfittando della pausa forzata per pranzare tutti seduti. Un tuono romba cinque secondi dopo il fulmine, quindi altri due dopo tre e infine non se ne odono più: il fronte ci ha girato intorno.


Quando smette ripartiamo lungo una stradina, anche se il cielo resta cupo. Mentre andiamo si fa sempre più buio e quindi si scatena un temporale intenso. Dopo esserci inzuppati nell'erba alta, troviamo un tetto a Palazzo, in un deposito di cianfrusaglie del genere “non si butta via niente”, dove spiccano in particolare degli ombrelli sbrindellati. Sfortunatamente mi dimenticherò di fotografarlo. Il riparo non è molto confortevole, perché attraversato da una fredda corrente d'aria e senza posti dove sedersi o appoggiare gli zaini, dati gli spazi risicati e il fango sul fondo.

Dal cielo scende una vera bomba d'acqua, che si potrae un paio d'ore, salvo brevi pause, durante le quali non smette davvero, tanto che non riusciamo nemmeno a mettere il naso fuori: ci tocca stare in piedi come asparagi e la temperatura cala drasticamente. Durante una tregua un po' più lunga passa nei pressi un signore, al quale chiediamo se c'è qualche bar nei dintorni, ricevendo purtroppo risposta negativa. Non prende il cellulare, per cui non possiamo nemmeno rassicurare il posto tappa di essere al sicuro.

Quando finalmente schiarisce, decidiamo di tornare sui nostri passi e raggiungere Osacca per strada, in quanto il guado nella successiva valletta sarà senz'altro impraticabile. Stasera ci mostreranno delle foto di un gruppo che lo attraversò tirando una corda e entrando nell'acqua fino al ginocchio, durante una piena analoga a quella odierna. Anche qui da un calanco arriva una cascata. A Monastero troviamo nuovamente linea per il cellulare e vediamo che ci mancano ancora parecchi chilometri alla meta per questa via e siamo perciò titubanti sul da fare.

Nel prossimo paragrafo riporto cosa avevo scritto l'altra volta sul sentiero tra Monastero e Osacca. Tra parentesi quadre ci sono le annotazioni odierne.


Oltre Monastero il sentiero attraversa un calanco. La guida ci aveva messo un po’ di ansia, parlando di terreno argilloso: con tutta la pioggia di questo periodo, sarebbe stato un mare di fango colloso. Per fortuna la granulometria del terreno è decisamente più grossolana, credo da marna, e la sua capacità di legarsi all’acqua fondamentalmente innocua, come direbbe Douglas Adams. Procediamo poi tra muri e attraversiamo subito dopo un prato di erba alta, naturalmente fradicia. Arriva quindi un gruppo di case antiche, il cui proprietario non gradisce il passaggio di escursionisti, che considera degli invasori. Manifesta il suo disappunto con garbati cartelli di protesta. Questo luogo è davvero molto isolato e non mi sorprende che ci abiti gente che cerca la segregazione totale dal mondo. Alcune di queste considerano il loro ritiro una loro proprietà esclusiva, comprese le zone di pubblico passaggio. [A distanza di sei anni, mi chiedo se il signore si è rassegnato o se è emigrato.]

Dopo un tratto di asfalto entriamo in Brè, dove ci accoglie una quaglia placida. In questa frazione ci sono un palazzo e una casatorre, retaggio di tempi in cui il paese era assai più popoloso, perché lungo la via di comunicazione tra due valli. Oggi i percorsi per le auto hanno preso altre vie e questa zona è stata consegnata all’abbandono; inoltre è cambiato il modo di occupare il territorio, perché si è passati dall’abitato diffuso alla concentrazione nei centri principali di fondovalle. La mulattiera lastricata diviene sentiero stretto, che perde rapidamente quota, con secchi tornanti che portano a guadare un ruscello, nei pressi di un mulino ristrutturato e videosorvegliato. Risaliamo poi altrettanto rapidamente per una mulattiera lastricata, che è stata preservata dalla costruzione della strada di accesso. Il fondo di pietre calcaree è scivolosissimo, tanto che viene da chiedersi se nel Medioevo avessero già inventato la pioggia e la rugiada del mattino. Va detto che questa scivolosità era anche voluta, perché consentiva il trasporto su slitte, che dalle mie parti erano dette lese [anche qui, come scoprirò stasera a Osacca, chiacchierando con gli albergatori].

Arriviamo a Pieve di Gravago, sede di un antico monastero benedettino, al suono della campane che annunciano il mezzodì. Un ottimo momento per fermarsi a fare uno spuntino, sul muretto a fianco della chiesa. All’ombra delle querce è fresco, mentre la temperatura è più mite al pallido sole. L’umidità è molto elevata. Durante la sosta passano dei motociclisti che imboccano il sentiero, lasciando una traccia erosa.

Dopo un percorso in quota che alterna asfalto e piste erbose, svoltiamo decisamente a sinistra e imbocchiamo una pista in salita. All’imbocco c’è un’enorme pozzanghera marrone, che richiede un minimo di studio del percorso ideale per superarla indenni. Nel primo tratto di bosco c’è qualche relitto di castagno da frutto, ma aceri di monte e faggi stanno riportando questa zona al suo aspetto naturale. In passato l’uomo, affamato di territori per la sussistenza di una popolazione in continua espansione, appena rallentata dalle epidemie e dalle guerre, colonizzò ogni spazio possibile, anche quelli dal clima meno adatto. Da tempo ormai invece la produzione agricola si è concentrata in meno aree a più alta produttività e queste zone sono tornate al loro climax, peraltro sempre mutevole per via dei cambiamenti climatici. La pista sale ripida: sudiamo e non commentiamo quello che ci circonda, ma risparmiamo fiato. Verso lo scollinamento, il tracciato concede un po’ di riposo. Il tratto pianeggiante ha meno fango di zone omologhe attraversate ieri. Prendiamo quindi a scendere, condividendo di malavoglia lo stretto sentiero con alcuni motociclisti rombanti.


A Noveglia, dove è tornato a splendere un sole caldo, ci fermiamo in un baretto dove hanno un tè inglese eccezionale, portato dalla terra d'origine appositamente da un cliente abituale. Varie foto sui muri testimoniano una socialità insospettata, per una frazione così marginale. Telefoniamo frattanto alla meta e loro si offrono di venirci a prendere, perché altrimenti arriveremmo a malapena per ora di cena. Inoltre, come scopriremo durante il passaggio, avremmo dovuto affrontare il maremmano libero di una casa indipendente, che ha già causato varie segnalazioni per la sua aggressività alle autorità preposte.

Nella minuscola frazione dove alloggeremo vive una comunità di cacciatori, con cui chiacchierammo nel viaggio precedente, e che ci raccontò delle mirabolanti leggende metropolitane sui lupi. Manifestò il proprio risentimento verso chi protegge gli animali, personificato nella Brambilla, la politica berlusconiana animalista. Anche se con noi furono gentili e ci offrirono il caffè, non amano chi lascia l'auto qui per andare a camminare, percependoli come invasori dei loro spazi, che delimitano con catene e cartelli.

La coppia titolare del B&B è invece di pianura, pur avendo ascendenze in zona, e non lega con costoro, con cui ha anzi degli screzi. La struttura prende il nome da una canzone di Vasco, loro coetaneo di cui su una parete campeggia una foto in prima pagina, in occasione del grandioso concerto per i 40 anni di attività. «Siamo veri come Vasco. Mi vengono i brividi quando lo sento cantare», ci dirà lei. I due sono appassionati della Via, anche se ora non sono camminatori. Lui in gioventù girò per i monti con la moto da trial e rivendica il ruolo dei motociclisti nell'aver conservato sentieri storici; lei purtroppo è molto debilitata da cure salvavita a cui si è sottoposta alcuni anni orsono.

Durante la doccia trovo una zecca su una chiappa. L'incomoda posizione mi costringe a torcermi come il collo di un tacchino al Ringraziamento, per avere la visione binoculare necessaria ad afferrarla. Sono l'unico ad averne prese, mentre l'altra volta erano toccate alla capogita.

In assenza di ristoranti in zona, ceniamo con loro a base di gnocco fritto e vino frizzante, di cui abuso più del giusto. Ci parlano diffusamente di loro e ci raccontano anche molte cose private. Hanno anche loro problemi con l'amministrazione di Bardi, accusata anche stavolta di marginalizzare le frazioni di montagna. Nutrono un grande affetto per i loro animali, di cui ci narrano le prodezze, come i genitori e i nonni fanno della loro prole. Una loro gattina è molto socievole con gli estranei e si fa grattare la pancia. Sono anche innamorati di quest'angolo di Appennino e di questa struttura, che purtroppo potrebbe non avere eredi in grado di continuarne l'attività, in quanto il loro unico figlio ha presso tutt'altre strade.

Mentre può avere un senso passare ai figli dei beni necessari come la casa, trovo assurdo che la stessa sorte tocchi alle attività imprenditoriali, perché i figli non sono prolungamenti dei genitori, ma hanno aspirazioni diverse. Purtroppo non c'è modo di trasmetterla a persone meritevoli e interessate a portarle avanti, a meno che non abbiano una dote di famiglia con cui acquistarle. E dire che è stato assegnato un Nobel a un economista, che ha dimostrato con l'esperienza diretta che i poveri sono molto bravi a far fiorire attività del genere, se si offrono loro i mezzi.
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Val Ceno
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Dopo la bomba d'acqua
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Re: Via degli Abati

Post by Andrea Bezimen »

awretus wrote: la Regola prevedeva 50 bastonate per chi alzava la voce.
Immagino che "Il Silente" non abbia fatto una piega... :risata:
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Re: Via degli Abati

Post by awretus »

Andrea Bezimen wrote:Immagino che "Il Silente" non abbia fatto una piega... :risata:
Beh, neanche io parlo tanto più di lui. Il titolo calzerebbe a pennello anche a me
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Re: Via degli Abati

Post by awretus »

Tra l'altro segnalo che ieri era san Colombano

Osacca-Borgo Val di Taro

La tappa si svolge quasi interamente nei vasti boschi della val di Taro, senza incontrare centri abitati, se non a basse quote. Questa valle è infatti decisamente meno coltivata e abitata di quelle attraversate in precedenza e presenta un paesaggio affatto diverso. Questo non significa che i monti siano selvaggi, in quanto incontriamo castagneti, cappelle, capanni di caccia, rustici isolati, solo che lo è in maniera completamente differente.

Il bosco doveva essere l'ecosistema più comune ai tempi di Colombano ed era percepito come selvaggio e ostile per le difficoltà di comunicazione. Compito dei monaci era anche quello di addomesticarlo, come rivela il già citato miracolo del trasporto del legname.

Avendo ben magre competenze naturalistiche e enciclopedica ignoranza archeologica, ho difficoltà a leggere la storia dei boschi quando li attraverso, per cui il resoconto della tappa sarà breve, in rapporto alle ore camminate.


Dopo la colazione, salutiamo i due ospiti e passiamo accanto alle case dei cacciatori. Gli spiazzi a bordo strada sono cintati da catene, per non lasciare parcheggio agli escursionisti foresti. Per qualche centinaio di metri, seguiamo la strada per Borgotaro, per poi piegare a sinistra su una ripida pista nel bosco, a prevalenza di faggi, anche se nel mio archivio fotografico troneggia una castagno monumentale. Probabilmente il bosco era stato trasformato in coltivazione di castagni, ma con l'abbandono la vegetazione spontanea lo sta sostituendo. Grazie alla pioggia di ieri, per terra calpestiamo dei lacerti di fango appenninico, tuttavia facilmente aggirabile, davvero misero rispetto a quello dello scorso viaggio. Ad ogni modo anche questo poco sembra essere gradito dai buprestidi, quegli scarabei d'acqua dai colori metallici, messi a rischio di estinzione dai collezionisti: ne vedremo per tutto il giorno in gran copia e di ogni tonalità possibile.
Presso un bivio, c'è uno spiazzo erboso, in parte adibito a orto. Ci immergiamo nuovamente nel bosco, per una rilassante passeggiata in quota spesso all'ombra, assai gradita dopo il sole e il caldo dei giorni precedenti.

Dopo lungo peregrinare, raggiungiamo la Maestà, una cappelletta campestre molto rustica, dentro la quale facciamo una pausa, sfruttando le panche, e dove accendiamo una candela devozionale. Accanto c'è un monumento metallico di ruote dentate, dedicato a un motociclista. Fortunosamente non transitano però motorizzati, ma solo una signora molto asciutta e atletica, con cui scambiamo due parole.


Ci conduce a Pradonico un tratto di sentiero in faggeta, con molti licheni sui tronchi, che apprezzo sempre molto, in quanto sono invece meno frequenti sulle secche Alpi attorno a casa mia. Lì ci troviamo un capanno attrezzato per magnate in compagnia, con anche piastre per grigliate e prese elettriche industriali a triangolo per attaccarvi un generatore e alimentare i neon. Strana concezione di una serata nella natura: per me i neon sono l'emblema dell'IKEA, così come le luci elettriche in generale della città, che rifuggo quando vado in vacanza sui monti. Rabbocchiamo le borracce a una fonte al margine della sterrata.

Il fondo della pista ci riserva qualche acuto: prima del fango appenninico, che riesco finalmente a immortalare, in quanto fotogenico grazie alle ampie pozze, dovute agli scavi dei fuoristrada e delle moto, quindi formazioni erosive di arenaria, con geometrie a scacchiera. Abbiamo nel frattempo abbandonato l'idea di una puntare al laghetto indicatoci dalla signora della Maestà, in quanto ci porterebbe via troppo tempo. Oggi siamo vincolati dall'orario del treno del rientro: nei viaggi itineranti, in cui incombe un termine ultimo alla camminata, è sempre meglio non mettere troppa carne al fuoco, altrimenti si rischia di dover correre e non godere a fondo di nulla di ciò che il percorso offre. Nelle gite in giornata con viaggio in auto si è un po' più liberi, così come in viaggi in tenda, anche se alla fine il maggior carico e i tempi dell'autogestione vincolano in altro modo: la libertà assoluta e astratta è un'illusione, possiamo solo scegliere quali vincoli preferiamo.

Il bosco si dirada successivamente, dove raggiungiamo una dorsale, consentendoci così uno sguardo d'insieme sulla valle boscosa. Nei secoli del monastero i prati dovevano essere invece assai più estesi, a giudicare dalla quantità di fieno ricavata dalla zona. Compaiono le prime case isolate e il fondo diviene a tratti cementato o asfaltato. Con discesa più ripida su sentiero, attraversiamo gruppi di casette sparse. Troviamo un discreto punto dove pranzare, ma, visto che manca poco a una chiesetta campestre, faccio prima una puntata senza zaino per verificare se lì è meglio: in effetti c'è una tavolo di legno con panche. Torno perciò indietro e raccatto gli amici. Tra i due punti, ci sono un punto di sentiero interrotto da lavori in corso a una villa, una casa con bandiera del Milan e cani dietro ai cancelli. Le casette sono molto carine e curate.

La chiesetta in pietra, citata la prima volta nel 1221, secondo quando riferisce un cartello, è dedicata a san Cristoforo, patrono dei viandanti e indice che qui transitasse una via. Era dipendenza della pieve di San Giorgio, citata a sua volta nel Breviarium de terra Sancti Columbani, un inventario del X secolo delle dipendenze bobbiesi. Il posto è molto panoramico sulla valle boscosa.


In un corridoio boscoso tra prati scendiamo decisamente per un sentiero sostenuto a monte da un possente muro a secco, dove è anche infissa una macina di mulino, al cui centro è installata una croce. Passiamo a monte della chiesa di San Pietro, citata nell'Adbreviatio dei possedimenti bobbiesi dell'883, insieme ai suoi vigneti tuttora esistenti. Sbuchiamo sull'asfalto; oruxmaps ci inganna, indicandoci una pista inglobata invece in una proprietà privata, quando dobbiamo invece risalire la strada, per poi imboccare un sentiero in ripida discesa che vi si riallaccia oltre il limes. Sul fango ancora fresco vediamo delle tracce di tasso, oltre che quelle di un grosso cane o lupo che sia (anche se i cuscinetti plantari dei cugini selvatici hanno delle differenze, una volta che l'orma è deformata dal fango non c'è modo di distinguerle).

Transitati tangenti al tornante di una strada, imbocchiamo un sentiero bordeggiato da muri a secco, che un cartello entusiasta equipara a quelli tra i vigneti di Volastra. A me paiono ben più modesti e ordinari: in parte perché i vigneti sono estinti, sostituiti da cespugli spinosi, che mi pungono mentre poso lo zaino per bere, costringendomi a cercare un cerotto. Tuttavia vieppiù perché lo sfondo sono gli impianti industriali di Borgo Val di Taro anziché il mare blu: grazie alla ferrovia pontremolese, la valle ha infatti conosciuto lo sviluppo industriale (nei pressi dello sbocco in pianura ci sono anche i famosi stabilimenti Parmalat di Collecchio). Il ruolo viario della valle, tramite cui con un solo colle si può accedere a una gran varietà di luoghi, dall'alpe Adra (Sestri Levante e Chiavari) concessa da Carlo Magno al monastero, fino alla Lunigiana, per cui fu impianata una propria curtis fortificata, Turris appunto. Già i romani del resto vi si erano insediati capillarmente per le medesime ragioni. Della ferrovia ammiriamo un ponte in acciaio sul Taro. Gli inventari del IX secolo mostrano che il circondario di Turris era molto produttivo sia di uva che di cereali, per cui doveva presentarsi assai più coltivato che ai giorni nostri.

Raggiungiamo delle case e una stradina, che corre ai margini del fiume e ci immette su una pista ciclopedonale, frequentata da molta gente a passeggio. Di Borgotaro vediamo solo la periferia di casette, perché a Osacca ci hanno detto che in centro non c'è nulla che meriti. L'altra volta soggiornammo in un albergo lussuoso, dove impiegammo cinque minuti a capire il funzionamento della doccia tecnologica. Tra gruppetti familiari e adolescenziali, oltrepassiamo il fiume su un ponte trafficato, da cui scorgiamo un airone nel greto.

Raggiungiamo in largo anticipo la stazione, dove dobbiamo prendere un bus sostitutivo fino a Berceto, perché nei feriali la linea è interrotta per lavori. Mi giunge intanto notizia che l'Intercity diretto dalla Puglia a Milano è in forte ritardo e rischiamo di perdere l'ultima coincidenza per Torino. Grazie al cielo, verso la fine del viaggio recupererà quanto basta a consentirci un agevole trasbordo.

Ci accomodiamo ai tavolini esterni del bar. All'interno, la barista sta facendo una sceneggiata isterica a un avventore vestito in maniera originale, con scarpe verdi e blusa variopinta, il cui cane è reo di essere d'impiccio e fastidio per gli altri clienti. Nei momenti di pausa delle urla, con olimpica calma prende le nostre ordinazioni. Pensavo di cestinare qui i miei scarponi dalla tomaia bucatasi nel tragitto, ma alla fine scelgo di tenerli e adoperarli ancora un po' di volte su sentieri agevoli.

Nel piazzale c'è un certo viavai di autobus, dalle mete non sempre chiare; con altri viaggiatori confusi a ogni arrivo sciamiamo speranzosi, alla ricerca del nostro, fino a incoccarlo. Il rientro fila liscio, prima con il bus, seguito da un treno locale modello pop da Berceto a Parma, quindi l'Intercity in affanno; chiudono una settimana a ritmo lento i 300 km/h del Frecciarossa nel buio della notte risicola. La riflessione su questo ossimoro è lasciata come esercizio per il lettore.
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Castagno
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Maestà
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Fango appenninico
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San Pietro
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Strada vecchia delle spiagge
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Ferrovia pontremolese
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Re: Via degli Abati

Post by awretus »

Visto che non posso allegare file epub, metto il link al mio sito

http://www.cronoescursioni.it/trekking/abati/abati.epub

Rispetto al testo pubblicato qui c'è qualche minimo aggiustamento
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Re: Via degli Abati

Post by Andrea Bezimen »

Sempre molto interessanti le tue annotazioni.
Sperando che possano venirmi utili se, durante periodi italiani, mi troverò finalmente a percorrere la Via degli Abati.
PS: alla cappella della Maestà c'è un fantasma !! :risata:
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Re: Via degli Abati

Post by awretus »

Se preferite un PDF con foto

http://www.cronoescursioni.it/libri/abati.pdf

Avrei potuto rendere disponibile il libro cartaceo. Tuttavia, essendo di qualità fotografica, perché lo adopero anche per avere le mie foto stampate, il prezzo sarebbe ~110 € (senza guadagno da parte mia), per cui mi parrebbe una presa per i fondelli
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