L'orsetto di Cichin

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awretus
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L'orsetto di Cichin

Post by awretus »

Partenza: Cantoira 750 m
Punto più elevato: Uja di Bellavarda 2340 m
Lunghezza: 22,8 km
Tempo di cammino: 9.10 h
Dislivello: 1970 m
L'orsetto
L'orsetto
Questo ampio anello segue pressappoco il contorno del bacino idrografico di due valloni tributari della Stura di Val Grande, sul versante solatio di Cantoira. L'aspetto geografico più evidente è la ripidezza del versante: in appena cinque chilometri di sentiero, in salita supererò un dislivello di 1600 m, con una pendenza media superiore al 30%, ma ancora più elevata nella parte alta, tra san Domenico e il culmine. Nella porzione inferiore fitti boschi misti hanno ripreso lo spazio precedentemente terrazzato e destinato ai coltivi, mentre sui ripidi prati, che si estendono dalla zona mediana fino al crinale, si pratica tuttora l'allevamento bovino transumante. Inoltre in passato fu attiva una miniera di talco, che tuttavia non visiterò, preferendo invece una variante di maggiore interesse paesaggistico.

Avrei potuto dare all'escursione il nome della cima più nota ed elevata del vallone, l'Uja di Bellavarda, secondo le convenzioni alpinistiche. Anche se vi sono passato, non era tuttavia quella la meta del mio giro, che ambiva piuttosto a compiere un pellegrinaggio culturale ad alcuni dei suoi luoghi più significativi. Alla fine la traccia ha involontariamente assunto la forma di un orsetto di peluche, come se fosse un gigantesco disegno effimero di aria smossa dal mio passaggio. Mi sono ispirato alle “sculture d'aria”, il nome con cui Frank Zappa designava le sue improvvisazioni alla chitarra (il suono arriva alle nostre orecchie propagandosi sotto forma di variazioni di densità dell'aria). Ci ho aggiunto anche la mia fascinazione per la pareidolia, la nostra tendenza innata a riconoscere forme familiari in stimoli indefiniti. Se avete sentito parlare di Vru, avrete sentito parlare di Cichin Berta; gli altri scopriranno chi era leggendo l’articolo.

La lunga escursione può essere percorsa in un solo giorno sfruttando le ore di luce del solstizio d'estate, oppure in due raggiungendo il Salvin con una bretella o fermandosi all'alpe di Coassolo.


Ho preso un giorno di ferie last minute per cogliere la mela di un giorno limpido con poche nubi di calore, una rarità nelle zone prealpine, almeno nella trascorsa era del defunto anticiclone delle Azzorre. Ho deciso di mettere in pratica un progetto concepito anni addietro, ben prima di salire inutilmente sulla Bellavarda in un giorno di nuvole basse: è uno di quelle mete che ha senso raggiungere solo in giorni limpidi, per tenere fede al significato del toponimo.

Parto relativamente presto a causa della lunghezza della gita, ma anche per anticipare l'ingorgo in tangenziale. Arrivo a Cantoira poco dopo le 7 e trovo il bar ancora chiuso. Una signora che trasborda pane dal forno alla rivendita mi informa che devo aspettare le 7.30 e così faccio, per rispettare il rituale del suo caffè assai forte, approfittando dell'attesa per riempire la borraccia. La barista mi racconta che ieri sono scesi due temporali intensi.

Tra vecchie casette in pietra e legno, tra le quali una con una singolarità non appuntata e dimenticata, nel bosco imbocco la mulattiera per Lities, la cui rocca illuminata dal primo sole sovrasta il capoluogo di fondovalle. La mulattiera fu lastricata e bordata con generosità di mezzi e maestria d'opera, grazie all'ampia disponibilità di pietre concessa dal terreno morenico, come mostrano i numerosi massi erratici: le rocce sono infatti gneiss della falda Sesia-Lanzo, che occupa l'alta valle, trasportate dai ghiacciai pleistocenici, e non le rocce ofiolitiche franate dalla soprastante rocca. Salgo così tra qualche terrazzamento occupato da castagni, mentre più in alto il bosco è formato da faggi, aceri e frassini.

Lungo la via sono eretti diversi piloni votivi, che a differenza di altrove, non sono dipinti, ma hanno solo una nicchia dove apporre oggetti sacri. Nei primi sono scritti alcuni versi del Cantico delle creature di san Francesco. Piloni lignei più contemporanei segnano invece le stazioni del chilometro verticale tra Cantoira e San Domenico, una Via Crucis fachiresca di mille metri di dislivello da percorrere tutto d'un fiato, alla ricerca del miglior tempo possibile. È una delle specialità della corsa in montagna, una delle innumerevoli discipline puramente sportive, che hanno spodestato l'escursionismo e l'alpinismo tradizionali da attività più comuni dell'andare per monti.

Tra le varie opere agricole, verso Lities è segnalato un maceratoio per gli steli di canapa, un canale pianeggiante derivato dal rio. Il processo di produzione della fibra era abbastanza elaborato e cominciava con la macerazione in acqua, che poteva essere svolta accanto ai luoghi di coltivazione, per cui non è raro in montagna imbattersi in vasche apposite: ce n'è un'altra anche sull'inverso di Cantoira, nei pressi del dolmen preistorico del rio Combin. Fino al secondo dopoguerra la fibra era molto diffusa, non solo per l'autoconsumo domestico dell'economia di sussistenza, ma anche a livello industriale, per carta e vele (in Piemonte attorno a Carmagnola). Tra gli anni ‘40 e ‘50 del Novecento fu però rapidamente soppiantata dalle fibre coloniali (cotone, juta) e da quelle sintetiche. Era la stessa specie (Cannabis sativa) che dagli hippie in poi è impiegata come droga ricreativa, ma una varietà con trascurabile contenuto di principio psicotropo, dettaglio che crea non pochi grattacapi legali a chi vuole continuare a coltivarla.

Dopo un pilone al bivio per Matinin, un filare di frassini in salita mi conduce alla frazione Losa di Lities, dove mi fermo a rifiatare e farmi rinfrescare dalla brezza su una panchina. Oggi si preannuncia un giorno con scarse nubi e sole zenitale, ma per ora sono rimasto in ombra, tranne che sulla cresta Turaiet, dove il sole mi ha brevemente lambito.

Di fronte a me c'è la cappella dedicata a san Grato, il cui edificio originale fu edificato in seguito a una disposizione testamentaria del 1720. Il vescovo aostano, come anche il suo successore san Bernardo, è molto popolare in montagna, tanto che in questa stessa valle vi sono altre cappelle a lui dedicate. Protegge infatti dalla grandine, come ricorda la scritta sulla facciata: in vita diresse miracolosamente una grandinata sul fondo di un pozzo. Di questo aiuto non avrò particolare bisogno oggi, per le ragioni predette. Ignoro invece che la sua azione si estende pure agli animali infestanti come i topi, che una volta tenne lontani da Aosta aspergendoli con l'acqua benedetta; pertanto non mi affido a lui contro le zecche e così a fine giro ne troverò qualcuna attaccata alle cosce.

È un rapporto opportunista con il metafisico, nel quale ci relazioniamo per ottenere benefici materiali hic e nunc. Al giorno d'oggi, in cui la vita presente non è più solamente un doloroso passaggio, ma può fornire gratificazioni alla maggior parte della popolazione, prevale sul rapporto spirituale con il divino.

Oltre alla chiesa, nella frazione ci sono dei giochi per bambini e dei pannelli, che ricordano i tempi in cui era popolata tutto l'anno. Allora i bambini dovevano andare a scuola a Vru, percorrendo l'aereo sentiero detto Vi ’d Miculà; in origine la cappella aveva obbligo di fare scuola ai fanciulli, ma nel frattempo la funzione dovette andare perduta.


Riprendo a salire costeggiando la fila di vecchie case, alcune ancora con i vecchi balconi in legno, e fermandomi a bere alla fontana. Ora il sentiero si fa meno elaborato, da pastori, e cambia pure il fondo roccioso, ora formato da pietre verdi, poiché ho superato il livello più elevato della morena. Sale a ripide svolte dapprima nel bosco rado, dove compare qualche scorcio sulla chiesa di Santa Cristina in cima al suo picco molto aguzzo, poi per una fitta faggeta e doppia quindi un costone. In una zona di sorgenti, incrocio un pastore preceduto dal suo cane. Lui mette il piede a mollo nel punto di fango più profondo e mi indica così involontariamente dove camminare per salvarmi. «Aiè ad paciocc”, mi dice appunto. Raggiungo dapprima il sole, seppure ancora nella protezione della faggeta, quindi l'alpe Lavassey, dove questa termina. È uno dei tanti alpi, che prende il nome dal termine dialettale che designa il Rumex alpinus, una delle piante che proliferano dove ci sono alte concentrazioni di composti azotati per le deiezioni del bestiame. Al di sopra delle costruzioni, che sembrano ancora in uso, si eleva un grande acero montano e ci sono dei ciliegi; mi domando se siano puramente ornamentali o se su questo caldo pendio offrissero qualche frutto a fine stagione.

Passo quindi appunto sui prati solatii: da qui a sera non avrò tregua dal martellare della nostra stella. Le vacche sono già passate, quindi per ora non ci sono fiori. Il panorama in compenso si amplia sino a comprendere l'Argentera e il Matto, nelle lontane Marittime, che con il crescere della temperatura scompariranno nella caligine. San Domenico è visibile già da un po', ma un pilone al bivio con il sentiero per Vru la annuncia prossima. Le vacche sono ora poco sotto la mia quota, negli alpi al limite superiore del bosco. Mi appare il grande pendio erboso dove scorrazzerò fino al primo pomeriggio, con i suoi numerosi alpi sparsi.

Alla chiesa mi fermo una mezz'ora, soprattutto per bere e rabboccare la borraccia alla fonte, ma anche per mangiare degli spuntini energetici: l'ultima stazione mi annuncia infatti che ho completato il chilometro verticale. Con il binocolo ammiro le cime innevate delle alte valli di Lanzo, della dorsale tra val d'Ala e valle di Viù e poi il lontano Monviso e cime fino alle Liguri, dove al solito identifico Pian Ballaur, dove ballano le masche, che presto scompariranno tra i cumuli. All'ombra dell'edificio assaporo l'ultimo fresco di oggi, perché la sera anche l'ombra del bosco sarà tiepida.


Dell'ora e venti di cammino di qui alla cima non c'è tanto da raccontare. Arranco su sentieri ripidissimi, raspando il grugno sul pendio manco fossi un cinghiale, senza respiro, sotto un sole cocente, per quanto cerchi di calibrare l'andatura. Eppure questi prati ripidi erano colonizzati. Primo perché sono accuratamente spietrati. Secondo perché ad un certo punto oltrepasso delle baite dismesse. Non oso immaginare la fatica di salirvi portando a spalle la legna, gli attrezzi e il rischio di scendere sotto il peso delle forme di formaggio. Generalmente erano le donne a sobbarcarsi questo compito, uno degli innumerevoli lavori pesanti che accettavano come fatalità ineludibile. Mezzi o anche solo muli erano un lusso da ricchi e si sopperiva con l'abbondanza di manodopera. Fino a San Domenico non mi pare di aver notato pose.

C'è qualche fioritura, ma devono essere appena agli inizi, perché in basso sono soprattutto gigli di monte, in alto la più comune è di una specie di anemoni, il narcissino. In genere sono tra le prime a spuntare. Dopo che mi sono chinato per fotografarle, al momento di risollevarmi mi gira la testa e si contraggono le cosce. Sulla cresta che congiunge la cima con la Rocca di Lities, noto due piloni o bonhom (non ho lo spirito di posare lo zaino e cercare il binocolo per discernere), domandandomi come mai siano proprio lì. In cima, sulla carta scoprirò che una traccia vi giunge dal colle della Paglia, per ragioni ignote. Questa dorsale è molto fotogenica, perché è formata da pinne di rocce aguzze. Anche lungo il sentiero una scaglia di roccia chiara spunta dal terreno.

Superando una placchetta, mi scivola un piede e la spalla sinistra, quella sana, fa un movimento innaturale, che mi darà un indolenzimento ai tendini per tutto il giorno. Ci vorrà una settimana di ghiaccio per farlo passare.

Quando compare la grande croce metallica a traliccio, la vetta è ormai vicina. Su terreno più pietroso, raggiungo il bivio con il sentiero diretto al colle della Gavietta, da cui passerò più tardi, e proseguo sulla bretella diretta in cima. Manca il tratto più scomodo, su una esile traccia ma ben segnata, tra erba e roccette. Una volta arrivato, al panorama si aggiungono parte della catena del Gran Paradiso, anche se la cima per ora è nascosta dal Gran Bernardè, per cui la vedrò solo da La Rossa, e la Serra d'Ivrea. Le Levanne da qui appaiono un po' cubiste, perché si vede sia il versante delle valli di Lanzo che quello di Ceresole. La via di accesso dal colle della Paglia pare breve ed erbosa, salvo quel salto roccioso dove la cartina Fraternali pone un punto esclamativo a indicare un passaggio difficile. Resta invisibile il lago di Pratofiorito, nascosto dall'Uja (guglia) omonima, e tale resterà per tutto il giro. Avrei dovuto salire sulla Marsè per ammirarlo.

In cima trovo due uomini e una donna saliti dal lago di Monastero, la via di accesso con minor dislivello. Visto che è mezzogiorno, ci accomodiamo per mangiare, dopodiché loro si arrampicano sulla croce per le foto di rito. Quando si sono allontanati, con il cavalletto mi faccio un autoscatto più sobrio sopra il basamento.

Soprattutto a partire da metà Ottocento queste strutture hanno colonizzato moltissime cime delle Alpi. È una scelta curiosa, portare sugli emblemi della natura selvaggia e fuori controllo, il simbolo di una religione che ha come dimora di dio una città (Ap 21,1 - 22,15), per di più dall'immaginario sfarzoso, degno di uno sceicco che dell'Italia frequenta solo via Montenapoleone (per me sarebbe più simile all’inferno, come la discoteca di Disco Stu per Frank Sinatra). È pur vero che i cattolici se la cavano benissimo nell'ignorare la Bibbia.


Torno al bivio, con meno difficoltà che in salita, per proseguire verso l'alpe Soglia, mentre i tre puntano alla Marsè. Non hanno neppure una cartina e alla croce hanno chiesto indicazioni a me su come arrivarci. Il primo tronco non è tracciato ed è segnato il minimo per non perderlo quando c'è buona visibilità. Più in basso corrono delle tracce di bestiame più marcate. Sono proprio nel cuore dei grandi prati superiori di questo enorme pendio erboso e lo abbraccio più o meno per intero con lo sguardo. Dopo una pietraia di sassi medi, dove diventa evidente il lavoro di costruzione, diviene più tracciato e scende verso l'alpe. È molto rustica, ma pare essere ancora adoperata. C'è una sorgente, ma è impossibile riempire la borraccia e neppure bere con un bicchiere. Essendo prevista questa e altre sorgenti, ho solo la borraccia da 1,5 l e da San Domenico ne ho consumato la maggior parte.

Capisco di dover seguire la traccia che prosegue in piano, che ora sarà evidente, seppure con qualche aereo passaggio su roccia da capre equilibriste. Non avendo la loro agilità procedo con impaccio e cautela, rischiando di farmi male. Al colle della Gavietta compare un signore in arrivo dal lago di Monastero, che in poco tempo gira le suole e torna sui suoi passi. Compaiono anche un pezzo del Gran Paradiso e un pezzo in più del Rosa, i Lyskamm. Dovrò arrancare fino a La Rossa per ottenerli interi come premio.

Il colle era una via di accesso alle valli di Lanzo per i calderai della valle Orco, uno dei tanti mestieri itineranti comuni alle genti alpine, in cerca di integrazione ai redditi della magra agricoltura di montagna. La partenza avveniva sul principio dell’autunno, terminati i lavori e dei campi, e il rientro in tarda primavera. Si dormiva dove capitava, se andava bene in qualche stalla ospiti dei contadini e si avevano come riferimento i negozi di materiale aperti di emigrati definitivi. peraltro il rapporto con i contadini era complesso, perché se da un lato costoro offrivano ospitalità, dall’altra nutrivano diffidenza verso tutte le categorie professionali slegate dal rapporto con la terra e i beni immobili. Il mestiere entrò in crisi a causa delle “Inique Sanzioni”, in quanto il rame era quasi tutto importato (nei dintorni era esistito qualche piccolo filone, ma già nell’Ottocento l’estrazione li pressoché tutti esauriti). La guerra con le requisizioni statali di rame a fini bellici pose completamente fine all’attività.

Sono molto incerto se proseguire verso la Rossa o tagliare in quota fino all'alpe di Coassolo. Mi è rimasta poca acqua, ma sono curioso di vedere i petroglifi del colle di Perascritta. Quando dalla cartina scopro che il dislivello è meno di quanto temessi, decido all'ultimo di salire. La salita si svolge su prato ripido, senza traccia univoca, ed è quindi facile ma molto arrancosa e sudosa. Verso la fine, punto verso una targa bianca (un cartello venatorio) e di lì trovo un passaggio più agevole verso la cima. La fatica è ripagata da qualche altro anemone, dal volo e dai versi dei gracchi, che indi si appostano vicino alla cima, sperando forse in avanzi, dai panorami predetti, da una vista a volo sulla Bellavarda e uno sguardo dall'alto sulla conca verdissima dell'alpe di Coassolo e del lago di Monastero. Nelle valli e sulla pianura c'è molta foschia per l'elevata temperatura. In cima mi devo fermare dieci minuti a rifiatare, prima di poter ammirare tutte queste scene. La croce è decisamente più modesta di quella colossale della Bellavarda e contiene incisa un'ode alle difficoltà della vita con una connotazione positiva del buio, sebbene nella citata Gerusalemme Celeste la presenza divina causi un dì eterno. Tuttavia i suoi costruttori non sono gli unici eretici, tra cui anzi non mancano predecessori ai piani alti, come il futuro Pio XI, che, contemplando il paesaggio notturno dalla vetta del Rosa, sperimentò una rivelazione intima della maestà di dio.

Per scendere al colle di Perascritta mi toccano ancora 80 m di risalita a un'anticima, ma ora la traccia c'è e mi guida ad aggirare degli accumuli di pietre. Sul masso inciso mi sembra di riconoscere una polada dell'Età del Bronzo, ma mi dimentico di fotografarla preso dalle altre, per verificare a casa, mentre gente competente vi riconosce forme di piedi, che altrove sono datate all'Età del Ferro. Come molti massi incisi di quelle epoche si trova in posizione di confine geografico. Tuttavia non esiste un metodo come il carbonio 14 per i resti organici, per stabilire la datazione di un'incisione e bisogna sempre ricavarla da dati indiretti; inoltre qui non è mai stato condotto uno rilievo per determinare se possono essere effettivamente preistoriche o se risalgano a secoli recenti. Ci sono infatti molte incisioni chiaramente recenti, come croci, nomi e date, a testimonianza del ruolo di via di transito del colle. Oggi sul versante nord questi sentieri si vanno perdendo: ci passa poca gente e tutte le testimonianze descrivono tracce incerte, spesso invase dalla vegetazione.
Scendo alla strada, dove è parcheggiato il quad di un signore, che sta ammirando il panorama a torso nudo dai pressi di un pilone votivo posto su un dosso da cui si dominano i pascoli. Scendo un po' per tracce, un po' per acquitrini, un po' per sterrata fino all'alpe. Non ci sono presenze umane, solo una Panda e vitelli, oltre a un gatto bellissimo e molto schivo. Un edificio è adibito a posto tappa. Vado ad abbeverarmi alla fontana e inzuppo d'acqua pure i capelli, ma il refrigerio sarà di breve durata.

Il prodotto d'alpeggio più noto di queste valli è la toma omonima. Già documenti romani fanno riferimento all'invio di pastori al pian della ****, ma è con la Summa Lacticiniorum di Pantaleone da Confienza (1477), che abbiamo le prime descrizioni, secondo cui allora i formaggi erano buoni stagionati, di sapore pungente, sapidi. L'autore li riteneva adatti a eliminare dal corpo gli umori nocivi. Al tempo se ne cibavano soprattutto i ceti meno abbienti. Quanto al termine toma, di origine dibattuta, è documentato da testamenti del Settecento. Tuttavia fino a buona parte dell'Ottocento il formaggio principale era la fontina, un formaggio grasso prodotto senza prima raschiare il burro, e solo nel secolo successivo la Toma di Lanzo fu consacrata nella pubblicistica turistica e gastronomica.

Proseguo fino al lago di Monastero, incrociando il fuoristrada di tre signori con abbigliamento poco pastorale. È un peccato che la strada sia aperta a qualsiasi mezzo motorizzato, perché immagino che la domenica diventi poco fruibile da chi va in montagna per cercare qualcosa di diverso dai parcheggi dei centri commerciali e dagli stabilimenti balneari. Sul fondo della pista riconosco delle rocce montonate, a indicare l'origine glaciale della conca, che magari era un circo. Mi fermo al lago per la merenda (che è poi la seconda parte dell'abbondante insalata di farro e fagioli, oltre ai residui di frutta). Faccio un giro con la fotocamera in mano, ma il punto di vista buono era dalla cima della Rossa.


Mi aspetta ora un lungo tratto su sterrata, un po' monotona, ma con l'ampio panorama, ora visto dal lato opposto rispetto al mattino e soprattutto il bellissimo controluce della val d'Ala, che darà però il meglio più avanti, attorno al colle di San Giacomo. Supero l'edificio moderno e dimesso dell'alpe di Monastero, con il suo pilone in posizione dominante, evito il primo taglio dei tornanti, in quanto di pare un po' troppo arato dai vitelli, imbocco invece il secondo, per transitare quindi da una zona cespugliosa più chiusa. Sono ai margini dell'incassato vallone del rio Brissout, dove ci sono le miniere di talco della Brunetta.

Ad un certo punto posso scegliere se infilarmi dentro per andarle a vedere, oppure optare per la variante panoramica, che prosegue sulla dorsale con la valle del Tesso. Vista la giornata radiosa, tralascio la cultura in favore dell'appagamento estetico.

Dove la strada passa sul versante tessino, al pilone votivo di Prati della Fontana, si stacca una traccia a malapena evidente, indicata da tacche scolorite. Sulla carta è quasi sovrapposta alla strada, ma nella realtà il paesaggio è completamente diverso. Tra fioriture di gigli di monte e rododendri, transito tra prati, casette per eremiti e una curiosa formazione rocciosa detta Rocca del Gallo (non se quello nobile di san Pietro o un gallo plebeo qualsiasi). C'è anche una bella vista su Torino e il ciriacese, ora che la foschia si è diradata. Non che ci stia volentieri in mezzo, se non per andare in biblioteca, ma da lontano nella luce pomeridiana anche le conurbazioni sparse nella campagna hanno il loro fascino puramente estetico. Di fronte a me ci sono invece l'Uja di Calcante e il Civrari con il suo tesoro e i suoi dintorni. Attraverso la strada, dove c'è qualche ciclista e qualche turista. L'ombra e il fresco della sera ancora latitano.

Prima del colle di San Giacomo faccio rifornimento a una fontana di una casa ora deserta, quindi scendo a rimirare il climax del controluce serale sulla val d'Ala, con le inconfondibili sagome di Santa Cristina, della piramide perfetta dell'Uja di Mondrone, dell'arrotondata Bessanese a suggello di tutte quante.

Seguo quindi una pista erbosa diretta a Vru, transitando da una borgata dove un tale falcia l'erba circondato da capre scure, nell'ombra troppo calda. Massi morenici interrompono l'uniformità del bosco, mentre mi addentro nel vallone di Vru, risalite non riusciranno a farmi valicare i 2000 m di dislivello, ma non è quello a cui ambivo. Una maniera molto soave di planare a valle, dopo la salita alla massima potenza.

Non vado a farmi un selfie con la Mole e la Torre di Pisa di Cichin, il montanaro che li edificò nel tempo libero, assieme al presepe meccanico. Fotografo il paese ormai in ombra, con le nubi tinte d'arancio dal sole al tramonto e quella chiesetta con le tegole che paiono bizantine. Sono lose lavorate a mano con un lato circolare e sempre più piccole a mano a mano che si avvicinano alla sommità. In valle esistono altre due cupole analoghe, edificate dalla ditta Robetto di Migliere, a Bussoni e ai Rivotti. Ne vidi poi di simili sul santuario di Montenero a Riomaggiore e su un ponte finto medievale di una villa di Pontremoli. Nel paese popolato di villeggianti, molti a spasso con cani, mi fermo a una fonte e faccio un giro nella chiesa dedicata alla Madonna della Neve. Mi attirano la cupola dipinta con i colori del cielo e gli ex-voto, tra i quali un paio di guerra, di un prigioniero degli austriaci e un reduce della Libia, oltre a quelli più ordinari di malattie e incidenti sul lavoro. Il paese è rimasto pedonale e ha conservato la fisionomia caotica delle vie tortuose costruite senza un progetto unitario.

Seguo la strada di accesso e quindi imbocco la mulattiera, ammirando un grande masso erratico. L'ambiente è infatti lo stesso della mulattiera di Lities, ma il manufatto è meno fotogenico, poiché più stretto e irregolare. Il caldo e l'afa delle basse quote intanto mi opprimono un po', la stanchezza mi fa rotolare l'appoggio su sassi e legni. Sbuco infine nella parte bassa di Cantoira, da cui devo risalire il paese lungo la provinciale.


Alle nove e mezza ormai, trovo la gelateria aperta e anche abbastanza frequentata. Hanno anche panini salati che forse preferirei, ma per le piogge primaverili quest’anno non ho ancora assaggiato un gelato. Pertanto mi accomodo a un tavolo e ordino la coppa più golosa, non temendo di compromettere la mia invidiabile linea, dopo il consumo calorico odierno. Di questa gelateria mi ha sempre incuriosito la coppa con pere, cioccolato e grappa, pur non amando l'ultimo ingrediente, ma non ho mai osato ordinarla, perché toccava sempre a me guidare al rientro. Il gelato e la sosta mi raffreddano parecchio, con sommo gaudio.
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Mulattiera per Lities
Mulattiera per Lities
Pilone
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San Domenico
San Domenico
Val Grande di Lanzo
Val Grande di Lanzo
Uja di Bellavarda
Uja di Bellavarda
Alpe di Coassolo e lago di Monastero
Alpe di Coassolo e lago di Monastero
Roccia del Gallo
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Santa Cristina, Uja di Mondrone e Bessanese
Santa Cristina, Uja di Mondrone e Bessanese
Vru
Vru
«Vai finché sei giovane, perché da vecchio puoi solo andare al ricovero» (Saggezza occitana)
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