Alpe Quinseina 1925 m

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awretus
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Alpe Quinseina 1925 m

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Data: 6 giugno 2023
Partenza: Oltresoana 484 m
Lunghezza: 19 km
Tempo: 8.00 h
Dislivello: 1600 m
Difficoltà: E

Escursione molto varia, com'è tipico quando si attraversano plurime fasce altitudinali, dal fondovalle industriale ai prati del piano alpino. Presenta inoltre pieghe assai eterogenee, da quelle antropologiche dei piloni votivi o di un santuario con ascendenze pre-cristiane, fino ad altre più prettamente paesaggistiche come una fioritura di narcisi e i panorami a perdita d'occhio, senza farsi mancare architetture arcaiche e contemporaneità turistiche. Per chi avesse ulteriori energie, può essere prolungata con la conquista di una cima affacciata sulla pianura, da cui nei giorni limpidi non sfuggiranno il Monviso e il Bric Puschera.


All'imbocco della valle Orco, da cui la val Soana si diparte immediatamente, dalla rotonda circonvallazione della 460 i cartelli annunciano il versante povero del Parco del Gran Paradiso. Tralascio il bar della stazione dismessa di Pont Canavese, ora degradata a capolinea dei bus, in quanto i treni si attestano a Rivarolo, e, senza varcare il Soana ed entrare in paese, proseguo tra ragazzini che vanno a scuola a piedi: secondo un cartello, solo il venerdì mattina pare previsto un autobus per il cimitero. Parcheggio alla frazione di Oltresoana, al tornante presso la chiesa intitolata a sant'Anna, la vergine nonna materna di Gesù citata nei vangeli dell'infanzia. È una cappella molto semplice, fino agli interventi novecenteschi era al limite della decorosità e era officiata solo nella festa della santa. La frazione condensa molto folklore alpino: Panda vecchia serie, intrichi di pali e fili della luce, miscela di architetture tradizionali e edilizia popolare anni Settanta.

Non ci sono indicazioni, ma seguendo la guida imbocco una mulattiera lastricata nel bosco fitto, che mi conduce a una fonte e quindi a una strada. La seguo tralasciando la mulattiera, diretta a Frassinetto, da cui invece transiterò al pomeriggio, in discesa. Da una zona senza alberi mi si presenta un colpo d'occhio su Pont, con le sue torri medievali svettanti sulle rocche e i molti palazzoni in stile Quarto Oggiaro di quando era un centro industriale. L'industria si sviluppò presto sulle Alpi, facilitata dalla disponibilità di energia elettrica e acqua, ma patì molto la deindustrializzazione degli Anni ‘80, poiché era costituita da realtà marginali di grandi gruppi estranei al territorio, che la dimisero alle prime difficoltà. Qui furono abbastanza fortunati, perché, dopo il fallimento della storica manifattura tessile Mazzonis, due imprenditori locali, Dino e Modesto Sandretto, avviarono un'attività di stampaggio della plastica, che resistette fino al 2017. La figlia di Dino, Patrizia, è tuttora un'imprenditrice molto in vista nel settore dell'arte contemporanea a Torino, dove gestisce una fondazione ad essa dedicata. Lo stabilimento si trova all'inizio della strada per la Val Soana, proprio ai miei piedi.

Provo a usare un'app magica per distinguere qualcuno dei canti degli uccelli che sento e costei identifica una capinera, un passeriforme insettivoro. Questi canti così melodiosi non hanno funzione estetica, ma servono a delimitare il territorio. Tentativi successivi con la medesima app avranno meno successo. Continuo a seguire la strada per un tratto, in un castagneto, fino a trovare l'imbocco del sentiero diretto a Gorla. Vi corre poco a monte, sempre in un fitto castagneto a tratti terrazzato, tra massi erratici e rocce montonate. La val Soana, che qui sotto sbocca nella valle Orco, in questo ultimo tratto presenta il tipico salto della valle laterale sospesa e profondamente incisa dal torrente, per cui non ha né paesi né coltivi, ma solo impenetrabili boschi. Posso ammirare varie forme erosive dei massi, dalle radici che si insinuano nelle fessure e le allargano, alle foglie che si accumulano e, grazie all'acidità dovuta alla loro macerazione, producono idrolisi della roccia scavando vaschette. Tra le altre curiosità geologiche di questo tratto, ci sono una grande placca di gneiss violaceo, tipica della falda Sesia-Lanzo, simile a quelle dell'alpe Vailet in Val Grande, e una parete rocciosa, localmente detta deir, con un pilone votivo in cima).

Raggiungo Rubello, una borgata diruta e invasa dai rovi, il cui nome vuol dire “quercia bella”, da cui si diparte una traccia indicata da un pilone votivo, che sale a Frassinetto. Continuo invece sul sentiero che, salendo gradualmente, taglia il pendio, a mano a mano più ripido. Sto infatti dirigendomi verso una forra dove corre un copioso rio, di cui odo lo scroscio già in lontananza. Oltrepasso due piloni votivi. Tra tutti i santi che vedrò dipinti oggi, spicca l'illustre assenza di san Besso, oggetto di un partecipato pellegrinaggio intervallivo in alta val Soana e valle di Cogne, ma molto localizzato. Si tratta di uno dei tanti santi alpini che fu trasformato in martire tebeo, quando questo culto fu diffuso come antidoto alle eresie riformate. Fu oggetto di un famoso studio antropologico nel 1913 da parte di Hertz, un giovane studioso francese di lì a breve caduto nella Grande Guerra, allora in vacanza a Cogne, che ricostruì le vicissitudini storiche del culto a partire dalle testimonianze raccolte dai pellegrini.

Raggiungo il ponte detto “del Bigio” sul torrente omonimo, che corre qualche metro più in basso con salti. È moderno, ma doveva esistere da lungo, in quanto qui corre il confine tra Frassinetto e Pont. Bigio vuol dire montone in dialetto: una leggenda vuole che una donna, che stava portando un pesante carico dal mercato di Pont, vi trovò un poderoso montone e pensò di sfruttarne i servigi. Quando giunsero nei pressi di una piazzola dei carbonai, il montone si arrestò spaventato dal fuoco, quindi venne avvolto dalle fiamme e fuggì. La donna comprese allora che aveva corso un grave pericolo, poiché il montone non era altri che il diavolo. Oltre vi sono un pilone votivo con la raffigurazione della Madonna Nera incoronata di Oropa e delle panche consunte dall'umidità e dal muschio, dove mi accomodo come riesco.


Riprendo a salire ripidamente per una mulattiera lastricata, danneggiata in un unico punto per la caduta di un castagno, in un clima afoso. Fino al ponte ero sul versante ombroso al mattino, mentre ora il sole picchia, seppur filtrato dal fogliame. Ad un tornante c'è come un recinto di pietre di cui mi sfugge la funzione, in questo bosco dove non era possibile altra attività agricola. In prossimità di Gorla il sentiero si smarrisce un po' e devo seguire le tacche e puntare a due piloni a tema doloroso, per trovare la retta via. Oltre una casa, mi fermo a fotografare delle vacche accomodate sul prato. Spunta il pastore, insospettito dal loro sincronico voltarsi, raccatta il cellulare a terra e mi chiede in quali condizioni è il sentiero, che ha pulito due anni addietro, tagliando tronchi e sfoltendo vegetazione.

Potrei ora salire a Puet per la strada, ma cerco la vecchia mulattiera. Prima di arrivarci, vedo una traccia con lapide all'imbocco, che secondo il signor MU vi arriva. Lui è sempre molto ottimista sul concetto di sentiero, segnalazioni e via discorrendo e infatti anche stavolta la traccia ben presto si perde. Fortunatamente il castagneto è rado e privo di sottobosco, per cui non ho difficoltà ad avanzare, nonostante il terreno ripido e la fanghiglia. Credo di intercettare la mulattiera principale a Balma d' Giot. Ben presto anche questa si perde sui prati paludosi prima di Puet, prima di ricomparire come passaggio obbligato tra le case. Passo accanto a un pilone di una casa dipinto di recente. I lineamenti dei personaggi sono molto più delicati e fini di quelli più rustici dei pittori itineranti dell'Ottocento, magari ispirati alle fisionomie dei montanari.

Per un tracciato inerbito passo accanto alla chiesa di san Domenico, preceduta da un pilone, e raggiungo la strada nei pressi di Colletto, dove c'è un punto prestito self service della biblioteca, con i libri alla mercé di chiunque. Non sono certo una merce ambita dai ladri, ma è ragguardevole che non siano presi di mira dai vandali o da chi ha conti in sospeso con l'amministrazione, come capita in alcuni casi di incendi boschivi dolosi. Dal piazzale dove termina la strada, godo di una bella vista sull'alta Val Soana, assai verde e con le cime ancora imbiancate dalla neve recente, dopo un anno e mezzo di siccità terribile. Le nuvole le stanno avvolgendo. Tralascio il sentiero in quota, dove ricordo una surreale indicazione per i laghi di Canaussa, due valloni e chissà quante ore più in là, per seguire invece una traccia nell'erba alta e zuppa. Entro in un castagneto con terrazze e massi. Sbuco sui prati di Trucco, dove un pilone votivo con una Madonna incoronata bianca, anziché il nome del committente riporta la frase “lunga la strada, scoscesa la [ripa], eppure si arriva in cima”. Nella borgata un signore dalla faccia pingue sta falciando un prato. Raggiungo la strada e prendo a sinistra per Berchiotto.


Nonostante siano appena le 11, mi fermo a consumare la prima parte del pranzo di farro e ceci, con il condimento degli avanzi di una ricotta (troppo) salata, perché mi sento fiacco, credo per l'afa. Il sole intanto però è sparito e mi rendo conto che ben presto finirò in mezzo alla nebbia. Mi accomodo di fronte alla chiesa dedicata a san Rocco, il santo per eccellenza della peste manzoniana; sembra essere stata dipinta in anni recenti. Vari abitanti sono impegnati in lavori nei giardini o agli edifici. Ricordo case con infissi dai colori provenzali e targhe francesi: da questa valle quasi tutti sono emigrati, soprattutto in Francia. Sull'Appennino l'anno scorso trovai un'emigrante di ritorno. Vedo una zecca camminare sui pantaloni: la sera ne troverò quattro appese alle cosce. Quando piove per loro è più facile resistere in attesa di un ospite, perché posso idratarsi. Lungo la salita ho osservato non poche arature di cinghiali, quindi immagino che ogni filo d'erba abbia la sua bella zecchina appostata.

Proseguo per la strada diretta al vallone di Codebiollo e imbocco quindi una pista inghiatata, che sale a tornanti fino al punto di partenza dell'Arc Ansel, uno di quei voli appesi al filo. Suppongo che il nome sia un gioco di parole con arc an ciel (arcobaleno in francese). Sono molto popolari e sono emblematici della frequentazione odierna della montagna, fatta di esperienze legate alle sensazioni personali e slegate dal territorio, trattato unicamente come scenario per l'impresa. Anche Ferragni e consorte si sono fatti appendere a uno, naturalmente in una zona più fashion di questa valle spopolata, in grado di remunerare lautamente la loro pubblicità, ça va sans dire.

Termina così la pista e parte il sentiero, subito ripido. Passo da un primo alpe, Pian Col, dove entro nella fascia della nebbia, per poi transitare da una successione di piccoli alpi, tutti abbandonati. Il sentiero alterna tratti ripidi a traversi e in molteplici punti sorgenti sgorgano poco a monte e lo invadono con rivoli d'acqua. La prima parte della salita si snoda nel betulleto di invasione, quindi il bosco si fa a mano a mano più rado fino alla scomparsa totale degli alberi. Nel primo tratto tento qualche scatto, perché gli alberi danno spessore e profondità al paesaggio, anche se non ho con me gli obiettivi migliori per questi soggetti, perché sono ingombranti e pesanti e li riservo a quando vado apposta nei boschi con questo scopo e faccio giri più brevi. Terminati gli alberi, mi trovo sommerso dalla desolazione e dalla solitudine, perdendo completamente la percezione della mia posizione. Ad un certo punto estraggo il GPS, per capire se ho superato senza accorgermene l'alpe Colli, da cui si stacca un sentiero che scende a Frassinetto. Sento anche dei campanacci di vitelli a valle di me, senza però vederli: è l'unico suono nel silenzio ovattato della nebbia. Nei boschi, adoro fermarmi per sentire il silenzio totale, rotto solo dal gocciolio della rugiada che cade dai rami, impensabile nella città in cui vivo, anche di notte. Stavolta però sono troppo preso dall'impegno per essere così geniale.

A Colli, che non riconosco neanche un po' per la nebbia fittissima, decido di persistere nella salita, anche perché la stanchezza è passata. La traccia del sentiero si fa più vaga e devo prestare maggiore attenzione alle tacche. Finisco quindi in un'isola di visibilità circondata dalle nebbia, finché, quando arrivo a Pian Gimente, mi trovo al limite superiore delle nuvole. Proseguo ancora un poco e giungo al bivio tra la via per la Quinseina e il sentiero che taglia in quota il versante meridionale, tra dense fioriture di genzianelle, primule, viole e pure un narciso. Resto fedele al piano di seguire quest'ultimo, snobbando la vetta. Retrospettivamente, dal momento che non arriverò certo esausto alla meta, avrei potuto salire fino lassù, per godere dello spettacolo del mare di nubi, che invece mi mancherà, essendone arrivato appena al bordo superiore. Tuttavia probabilmente avrei trovato chiusa Santa Maria di Doblazio, a cui arriverò già così verso le 19. La quadratura del cerchio sarebbe stata alzarmi alle 4 anziché alle 6, scelta come ora più tarda prima dell'ingorgo in tangenziale, ma chi ne aveva voglia? Su un bollettino CAI dell'Ottocento è narrata un'escursione con partenza alle 2 da Cuorgnè, ma molto meno creativa della mia, con salita e discesa per la medesima via.

Al sole, di fronte alla schiuma bianca dei cumuli, proseguo ancora brevemente, prima di accomodarmi su una panca di pietra per la seconda parte del pranzo, poco prima dell'alpe Quinseina. Sole e ombra si alterneranno per tutta la sosta, lasciandomi incerto se spalmare o meno la crema solare.


In pochi passi raggiungo l'alpe, costruita su un ripiano al riparo di un salto roccioso. L'edificio, in avanzato stato di deterioramento, è molto semplice e spartano, completamente a secco. Resiste meglio il sentiero, un manufatto davvero pregevole. Mi hanno sempre affascinato i sentieri che tagliano in quota i pendii, senza ragione razionale. Ricordo quando da ragazzo vidi la mulattiera reale nel vallone del Roc e, parecchi anni dopo, il sentiero degli Alpini tra il colle del Pis e il colle dell'Albergian. In ambo i casi ero salito e sceso per la via diretta: questi sentieri perfettamente piani mi colpirono moltissimo, per ragioni che restarono indecrifrate, ma immagino riguardino l'antinomia tra l'escursionismo montano inteso come luogo della scalata verso la cima e quello inteso invece come viaggio in una cultura altra. Nel corso degli anni li percorsi entrambi.

Il sentiero è molto ben preservato, specialmente fino a Le Raie, nella zona precipite dove non sale più il bestiame, mentre a valle il suo passaggio ha compromesso la traccia. Fino lì è assai aereo (in un impluvio sono anche presenti delle corde fisse), con vista sui ripidi pendii e canaloni, da cui le nuvole risalgono infrangendosi e dissolvendosi, una scena che resterei a guardare per ore e rimpiazza la successione di onde marine nelle tempeste invernali, che non posso mai ammirare, per la lontananza e perché in quei giorni la circolazione ferroviaria è in gran parte interrotta. Nonostante le nuvole, la porzione più panoramica dell'escursione. L'edificio di Raia alta lascia le medesime impressioni del precedente. La sua posizione è invece affatto diversa: protetta dalla valanghe dalla da una spalla protesa nel vuoto, che la rende assai fotogenica quando osservata dal basso.

Raggiunta La Raie e con essa una zona meno ripida, cessa il lavoro ingegneristico di costruzione e il sentiero diviene una semplice traccia nel prato, spesso non molto marcata. Le sorgenti non sono regimentate e così attorno agli alpi cammino in un pantano irregolare, ma in compenso le fioriture divengono sempre più lussureggianti.

Passata una curiosa formazione rocciosa, indicata sulla cartina, che vista da monte ha la forma di una piramide bianca, mi pare di quarzo, prende il via la fioritura dei narcisi selvatici (Narcissus poeticus). Tutta una fascia tra Oropa e questo versante della Quinseina presenta fioriture estese e dense, tra maggio e giugno. I luoghi più rinomati si trovano nell'adiacente valle Sacra e possono essere affollati come la spiaggia di Rimini a Ferragosto, nel climax del fenomeno. Alcuni anni fa lo trovai in questi giorni, mentre quest'anno l'apice è già passato e molti sono sfioriti, credo per via del caldo elevato tra tardo inverno e inizio primavera: già molti fiori hanno perso i petali ed è rimasto loro solo il cono giallo a cui erano attaccati, che magari ha anche un nome. Lo spettacolo è comunque ragguardevole e mi fermo nelle zone più dense a tentare qualche scatto grandangolare, per accentuare l'effetto della distesa di fiori, seppure la densità non sia più adeguata a questa focale.

Ho frattanto notato un cartello ligneo, che mi ha fatto abbandonare la dorsale, per piegare invece a destra per prati dove fanno la comparsa le prime betulle, ma soprattutto domina la linea del Superphénix, l'elettrodotto che trasporta in Italia l'energia prodotta in eccesso la notte dalle centrali elettronucleari francesi. Mi risulta misterioso perché la linea transiti ai margini del Parco del Gran Paradiso, per montagne molto belle, anziché sul fondovalle aostano abbondantemente antropizzato. Dove trovo un po' di ombra, seppure quella chiara delle betulle, mi fermo un attimo a svuotare la borraccia. Il cielo si è in gran parte sgombrato sulle valli, con addensamenti residui rimasti solo sulle vette, per cui il sole di giugno picchia duro e prosciuga. Da questa zona apprezzo bene la posizione della sottostante Frassinetto, edificata su una spalla pianeggiante del pendio.

Raggiungo una pista inghiaiata, senza altre alternative che seguirla; non è eccessivamente assolata, ma noiosa. Al bivio con il percorso per l'alpe Colli c'è finalmente un taglio nel bosco, su sentiero moderatamente fangoso, anche per il calpestio delle vacche, che ho visto su un prato in basso, poco prima di lasciare la dorsale. Questo tratto di betulleto è nuovamente gradevole. Finisco su una sterrata, che in breve mi conduce a una chiesetta bianca seicentesca con una crocifissione dipinta sulla facciata e sono a Chiapinetto, frazione superiore di Frassinetto. Raggiungo subito una fontana recentemente restaurata di recente, dove riempio la borraccia e bevo, ma non eccessivamente, perché mi aspetta un lungo attraversamento del paese e non devo rischiare di dover fare la pipì.

Chiapinetto è la frazione più caratteristica del paese, per le sue architetture in pietra ad archi, buie e caotiche, cupe e oppressive, che trasmettono un senso di antico, di ancestrale, pur risalendo al Seicento. Gli architetti le chiamano “a valva chiusa”, a indicare la protezione da briganti a selvatici, che questa struttura offre. Un altro vantaggio è il risparmio di materiali (i muri sono spessi fino a un metro e richiedono quindi molte pietre). Di strutture simili, come fossero tante cellule indipendenti, ne esistono diverse, corrispondenti a momenti successivi della fase espansiva che conobbe il paese in quel periodo.

I primi documenti attestano Frassinetto nel 1321, indicato separatamente dalla val Soana citata invece in blocco, a indicarne l'importanza. Una congettura colta, proposta dal Patrucco, vuole che alcuni dei Frassineto delle Alpi, non sarebbero stati battezzati dalla presenza del frassino (Fraxinus excelsior) o dell'orniello (Fraxinus ornus). Invece gli abitanti avrebbero così chiamato le basi dei saraceni che nel X secolo misero a ferro e fuoco le Alpi, in analogia con la base principale: tale autore osserva che alcuni di questi luoghi, a differenza di questa Frassinetto, sono ad fuori dell'areale abituale del frassino, anche se non fornisce esempi specifici, per cui non sono riuscito a capire a quali si riferisse. Un'ulteriore elaborazione di questa storia vuole che Fraxinetum fosse una latinizzazione del termine arabo per “luogo fortificato”, con cui i predoni avrebbero appellato la propria base in Provenza. Quest'ultimo passaggio è senz'altro errato, perché le fonti arabe del tempo chiamano questo insediamento Gabal-al-Qualal, ovvero “Rocca degli alberi”, mentre Fraxinetum ne era l'antico nome latino. Il Casalis afferma che gli abitanti di Frassino in val Varaita «sono dediti soverchiamente al litigio», come si conviene a discendenti di feroci predoni e soldati di ventura quali erano, un antropologo spezzino ritenne di spiegare i costumi arcaici e feroci di una frazione di montagna attribuendole una fondazione saracena. In effetti l'atmosfera cupa di queste architetture non può non evocare l'ambientazione di racconti sui secoli bui e cruenti.

Dopo la zona antica, passo per prati, case più diradate e decisamente più moderne. Una pastora con qualche capra trattiene il suo cane, Deus, dal farmi le feste, con gran dispiacere di entrambi. Nella parte più densa e bassa dell'abitato, due file di case di svariate epoche accanto a un'ampia strada quasi dritta, trovo aperto il bar e ne approfitto per un panino supplementare, che mi farà anche da cena. La giovane barista è intenta a leggere un giornale, mentre un muratore lavora a ristrutturare parte del locale. Due avventori parlano di altri lavori edilizi. Tutti mi ignorano né io molesto loro.


Dopo la breve pausa, scendo alla chiesa ai piedi del paese e di lì al parcheggio. Percorro un tornante della strada e imbocco la vecchia mulattiera. Nel primo tratto è una pista erbosa, che conduce a una chiesa restaurata nel 1978, per iniziativa del parroco e con il lavoro di alcuni abitanti. È detta del Bellosguardo o del Bel Riguardo, in quanto, come mostrano le foto d'epoca, una volta sorgeva tra campi di patate e segale e godeva di un un'estesa prospettiva, nella quale si vedeva l'Orco serpeggiare nella pianura canavesana. Oggi invece il bosco ha ripreso questi terreni abbandonati dall'agricoltura e solo d’inverno si scorge del paesaggio lontano tra i rami. All'edificazione contribuirono gli emigrati a Roma nel Seicento per i cantieri di San Pietro.

Entro quindi in un bosco di castagni, ombroso e fresco, dettaglio molto apprezzato dopo il calore e il sole del pomeriggio, per quanto quest'anno la prima ondata di aria africana non sia ancora arrivata. La mulattiera lastricata è molto ben fatta e contrasta con quanto riferisce il Casalis sui suoi tempi, quando le mulattiere del paese erano tutte in cattivo stato. Anche un secolo prima, quando il paese fece istanza per edificare una propria chiesa, per liberarsi dalla dipendenza da Santa Maria in Doblazio, sul fondovalle, l'estensore scrisse, magari con qualche iperbole per perorare la causa, che la mulattiera «resta molto aspra, malageuole, disastrosa et alpestre, essendo in molti Luoghi precipitosa, in più Luoghi corrosa fortemente da acque scolatitie cadute nella medesima in tempo di Pioggia». Tutto attorno a Pont oggi ve ne sono di analoghe davvero magnifiche e mi sono sempre chiesto se la manifattura tessile avesse un ruolo in questo. Purtroppo un libro sulla storia di Pont, scritto da un parroco, era scomparso dalla biblioteca che l’aveva in catalogo. Per un consistente tratto, ci sono solo alberi, salvo qualche edificio di servizio alla coltura, oggi abbandonato. Solo in basso compaiono degli edifici residenziali e le loro radure. Dopo un breve segmento su asfalto, la mulattiera è interrotta dalla caduta di un grosso cespo di castagni, ma in loco c'è già il ruspino per il ripristino e, in ogni caso, una traccia per aggirare l'ostacolo è stata approntata. Prima di arrivare a Santa Maria di Doblazio, spavento un gregge di capre bianche, che nonostante la rassicurante presenza del pastore, si mettono in agitazione per il mio passaggio, spingendomi a chiedere scuse imbarazzate al vecchio per l'incomodo.

Alla pieve trovo una coppia di sessantenni intenta a parlare con un frate dell'attiguo monastero. Poso lo zaino e scatto qualche foto di prammatica alla chiesa, con scarsa ispirazione per lo stile barocco (mi incuriosisce però il doppio altare preconciliare). La maggior parte dell'architettura risale infatti al periodo tra il Seicento e il Settecento, con ritocchi fino al Novecento, dopo che una visita pastorale sul finire del Cinquecento la descrive in pessime condizioni. La chiesa è tuttavia senz'altro molto più antica: una tradizione documentata dal Seicento, probabilmente creata dai Valperga per nobilitare le proprie origini, attribuisce nientepopodimeno che ad Arduino importanti interventi di restauro e la ritiene una delle chiese più antiche dedicate a Maria mai costruite, mentre fonti ottocentesche fanno riferimento a sepolture dei primi cristiani, anche provenienti da luoghi lontani. Il basamento del campanile è ritenuto ritenuto dell'XI secolo.

Nei pressi della chiesa vi è inoltre un masso coppellato: non di rado luoghi di culto medievali furono edificati su preesistenti luoghi di culto italici. Lo stesso nome evangelico dell’altura, Monte Uliveto, potrebbe essere un modo per cristianizzare un luogo di culto precedente, come nel caso del Tabor della Valle Stretta. A conferma di ciò, è presente la leggenda dell'indicazione divina del luogo, secondo cui la chiesa avrebbe dovuto essere edificata altrove, ma un intervento misterioso demoliva quanto era costruito di giorno, fino a quando una mula bianca indicò dove edificare, fermandosi in quel luogo: la sacralità del luogo non deriverebbe quindi da un'arbitraria scelta umana, ma sarebbe inscritta in esso.

La zona risulta infatti popolata fin dalla notte dei tempi, grazie alla posizione sopraelevata al sicuro dalle alluvioni della valle Orco, soleggiata grazie all'esposizione meridionale e fertile per il terreno morenico. Dal punto di vista geologico questo contrafforte è detto verruca glaciale, ovvero un lembo di roccia scampato all'esarazione della lingua di ghiaccio che ha scavato la valle. Gli scavi condotti negli Anni Ottanta del Novecento, accanto a un masso erratico qui vicino, hanno rinvenuto i resti di una capanna neolitica e anche un ceramica. Poco più là, nella vicina Navetta, un appassionato di nome Marco Cima una decina d'anni prima si era accorto di un petroglifo di un antropomorfo sessuato con le braccia alzate, su un masso. All'epoca era adoperato come banco da lavoro dagli ultimi contadini e rischiò pure di essere distrutto per progettati lavori, ma fu salvato e portato a Cuorgnè, dove ora è custodito nel cortile del palazzo comunale. Non esiste un metodo immediato come il carbonio 14 per datare un'incisione, ma bisogna ricorrere a studi più complessi e ipotetici: inizialmente questa incisione fu assegnata al Neolitico, per la somiglianza con le raffigurazioni su vasi di ceramica ritrovati in contesti dell'epoca., ma studi posteriori sulle sovrapposizioni di serie successive di petroglifi su una medesima roccia, hanno postdatato questa tipo di raffigurazione, detta convenzionalmente orante, all'Età del Bronzo. Anche le ipotesi sul significato sono mutate, da figure connesse con riti di passaggio a danze e giochi rituali. Ovviamente tali ipotesi sono rese aleatorie dal fatto che sul Neolitico non abbiamo testimonianze della cultura, per l'assenza di fonti scritte, mentre sul secondo la più prossima è l'Odissea, un documento molto lontano nello spazio, per quanto già dal Neoltico vi fosse un intenso scambio a livello europeo.

Sulle coppelle, datate a un periodo molto esteso tra Tardo Bronzo ed età romana imperiale e di tipologia assai variegata, un'indagine geografica ha permesso di scoprire che spesso si trovavano in luoghi di confine geografico, lontano dagli insediamenti. Ciò ha portato all'ipotesi che vi fossero effettuati patti territoriali, magari con versamento di liquidi alimentari. Ancora San Massimo, vescovo di Torino a cavallo tra IV e V secolo, fa riferimento nelle sue omelie alla diffusa presenza nelle campagne di «putridi altari [su cui] si fanno offerte a divinità insensibili», dove «dappertutto è offeso un occhio cristiano» e «si commettono sacrilegi».

Per quanto riguarda il culto attuale, di Maria dea madre di dio, così centrale nel cattolicesimo, non deriva certo dai vangeli canonici: solo i due (Matteo e Luca), che collocano l'ingresso della divinità in Gesù al momento della nascita, attingono all'immaginario ellenistico per farlo nascere miracolosamente, ma accennando appena alla madre. Per contro chi pone la divinizzazione successivamente (Marco) e chi lo ritiene dio da sempre (Giovanni) nemmeno la cita. Pertanto le confessioni cristiane che fanno riferimento all’autorità biblica non hanno un suo culto, pur accettando alcuni dogmi che la riguardano. La devozione cattolica è frutto dell'elaborazione teologica dei vangeli posteriori, ma soprattutto dell'assimilazione di culti troppo radicati affinché i cristiani li potessero estirpare, come quelli di sorgenti, pietre e alberi, frequentemente esecrati dai concilii dell'Alto Medioevo. Il processo continua ai nostri tempi, quando le apparizioni che dall'Ottocento fornirono la variante cristiana allo spiritismo allora in voga, oppure con i culti millenaristi e miracolisti odierni, che in altre confessioni cristiane si esprimono tramite esegesi biblica.

Il bisogno di credere a entità soprannaturali provvidenti è irrinunciabile per moltissime persone, per cui la condizione umana di incomprensibilità e mancanza di scopi dati dall’esterno è inaccettabile. La scienza moderna e in particolare la teoria dell’evoluzione ha dato qualche risposta sulle ragioni della sgradevolezza della nostra condizione, ma per nulla rassicuranti rassicuranti e consolatorie.

Pertanto anche nell’era scientifica fu effettuato un famoso tentativo di dare una veste rigorosa a questi bisogni, noto come ipotesi di Gaia (dal nome greco della dea della Terra), da parte dello scienziato Jim Lovelock, in collaborazione con Lynn Margulis. Stimolato dalle esplorazioni spaziali, che permisero di confrontare la Terra con i pianeti vicini, ipotizzò che «la sostanza vivente sulla Terra fosse un singolo organismo avente la capacità di mantenere nel nostro pianeta le condizioni adatte alla vita», influendo sulla chimica e la fisica e mantenendo il sistema lontano dall’equilibrio chimico, anziché adattarsi all’ambiente come sostiene la biologia neodarwiniana. Successivamente Lovelock cercò di trasformare l’ipotesi in una teoria, liberandola da un sentore di finalismo e misticismo in cui la Terra sembra essere cosciente dei mutamenti che adotta. Alla fine la Margulis e altri scienziati ne trassero stimolo per studiare le interazioni tra esseri viventi e mondo abiotico, in particolare sul clima, su cui si erano concentrate le intuizioni di Lovelock, giungendo a conclusioni molto più deboli, secondo cui la vita influenza la Terra e genera le proprietà emergenti tipiche di un sistema complesso con retroazioni multiple e spesso contrastanti, non prevedibili a partire dalle proprietà dei singoli componenti.

Lovelock invece non separò mai la sua ipotesi dal sentimento religioso verso la Terra, che continuò a considerare un essere vivente dotato di volontà e scopo, in termini animistici. Questa concezione è stata accolta dai movimenti che rifiutano la modernità. Essi paiono credere che i problemi di oppressione delle persone e di sfruttamento delle risorse siano cominciati con essa e il suo modo di pensare e propongono pertanto di tornare alle precedenti concezioni magiche, che la scienza stessa riscoprirebbe con l’ipotesi di Gaia forte. Essi ignorano che fin dall’epoca dei cacciatori raccoglitori, e ancor più da quella dell’agricoltura, l’uomo ha sempre causato estinzioni di massa (di specie sia umane che animali), disastri ecologici e guerre.


Raccatto due euro dal portafogli e vado ad accendere una candela a tutti questi dèi montani, per ringraziarli dell'escursione soddisfacente. La signora mi nota e mi regala una preghiera in cui la Madonna è lodata e invocata giustappunto in quanto dea madre, anche se rispetto a un celebre inno, detto omerico pur essendo abbastanza posteriore a Iliade e Odissea, descrive una vita più dolorosa, in cui è più conforto dalle disgrazie che dispensatrice di doni e prosperità. Questa preghiera contiene pure una cristianizzazione dell’idea del ritorno alla Madre Terra con la morte, trasfigurato in un abbraccio di Maria. Mentre suonano le 7, vado quindi a scattare una foto a Pont dal piazzale di fronte al santuario. Scendo infine, senza particolare storia, salvo le feste di un cane in un cortile, fino al punto di partenza. Rinuncio a scattare una foto alla chiesa, perché il sole è già scomparso dietro ai monti e questa luce non merita. Rientro a casa quando l'ingorgo serale in tangenziale si è già dissolto.
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Pont Canavese
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Colletto
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Berchiotto
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nella nebbia
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Raie superiore
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I narcisi all'acme della fioritura
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Superphénix
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Verso Frassinetto
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«Vai finché sei giovane, perché da vecchio puoi solo andare al ricovero» (Saggezza occitana)
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awretus
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Re: Alpe Quinseina 1925 m

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Ecco il resto delle foto, da Chiapinetto in giù
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Santa Croce
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Chiapinetto
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Chiapinetto
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Chiapinetto
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Frassinetto
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Santa Maria in Doblazio
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