La via delle acciughe

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awretus
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La via delle acciughe

Post by awretus »

Riporto il resoconoto di un breve trek fatto lo scorso anno, da Acqui Terme a Voltri, in questa stagione, sperando che possa essere di spunto per qualcuno.

L’idea di questo breve viaggio a piedi di quattro giorni è nata per serendipità, un poco alla volta. Una sera mi fermai a cena con gli amici a Campo Ligure, un paese ai piedi del Passo del Turchino, dopo un‘epica escursione nel gruppo del Beigua. Vidi che era segnalato un sentiero per il Bric del Dente. Da lì a Voltri il passo non era breve, ma si poteva fare: una classica “Via del sale”, dall‘entroterra al mare. Consultai gli orari del treno e vidi che si poteva percorrere in giornata. Quando comprai la cartina della zona, scoprii che ce n‘era un altro analogo segnato da Tiglieto, di maggiore spessore storico, per via dell‘abbazia cistercense. Qui però, non sarei mai riuscito ad arrivare con i mezzi pubblici da Torino. Mi ricordai allora del sentiero segnalato da Acqui Terme a Tiglieto, che a suo tempo mi aveva intrigato ma era impraticabile in una gita di un giorno. Presi allora a googlare tutti i nomi dei paesi attraversati associati con “albergo”, “pensione“, o “locanda”, per capire se ci fosse da dormire. Alla fine trovai le ospitalità ad una distanza l‘una dall‘altra adatta a una camminata giornaliera. Verificato che erano aperte nella stagione desiderata, decisi di partire.

I sentieri e le mulattiere di questo trek sono state in passato via di transito per un‘infinità di merci e di persone, mercanti o pellegrini, che attraverso di esse si spostarono per fede o commerci. Dopo il collasso delle vie di comunicazione romane, nel Medioevo il transito si spostò per molti secoli lungo sentieri e mulattiere. La Repubblica di Genova, infatti, non costruì mai strade carrozzabili per fini commerciali verso l‘entroterra, che pure le era fondamentale per l‘approvvigionamento dei generi alimentari e non solo: si limitò a curarsi solo delle vie di interesse militare. Lo spostamento di merci e persone sfruttò pertanto una rete di percorsi gestiti localmente, che oggi sono comunemente conosciute come “Vie del sale” da una delle principali merci che vi passavano. Il trasporto veniva così effettuato con carovane di muli, sulle lese, le slitte di legno di cui ancora oggi si vedono le tracce, o anche dalle singole persone a piedi, soprattutto donne. Questi percorsi persero centralità commerciale nel tardo Ottocento, quando furono aperte la carrozzabile e la ferrovia del Turchino, che spostarono l‘asse delle comunicazioni sui percorsi di valle. Le vie da percorrere a piedi, invece, prediligevano i percorsi di crinale, dove le pendenze sono più dolci e si è più al riparo dai rischi delle alluvioni. La civiltà dei trasporti su ruota, per contro, è essenzialmente una civiltà di pianura, che vede i monti come ostacolo e li affronta forandoli con gallerie. Non è un caso che la civiltà montana per eccellenza, gli Inca, non ne conoscesse l‘uso, perché sulle Ande sarebbe stata inutile.
Ho voluto chiamare “Via delle acciughe” il percorso che ho ideato, unendo alcuni sentieri segnalati da CAI e FIE, in onore di una delle merci più umili che le hanno percorse, perché essa ha comunque assunto una notevole importanza nella cultura popolare: è divenuta infatti un cibo tipico dell‘entroterra piemontese, nonostante la regione non si affacci sul mare. Compare in alcuni piatti tradizionali della cucina povera: le acciughe al verde, ad esempio, in cui vengono servite in una salsa a base di prezzemolo e aglio. O anche nella bagna caoda, la celebre salsa a base di aglio, acciughe e panna, in cui si inzuppano le verdure: un piatto pesantissimo da digerire di cui i piemontesi sono molto orgogliosi. Non sto a farla lunga, ma consiglio a chi fosse interessato di visitare il museo degli acciugai, in val Maira, da dove molti di coloro che vissero l‘ultima fase di questi commerci venivano.

Nonostante queste terre fossero abitate fin dal Neolitico, come documentato dai ritrovamenti sul Beigua, a dare un grande impulso ai percorsi commerciali fu senz‘altro la presenza della prima abbazia cistercense italiana, Santa Maria della Croce, anche conosciuta come Badia di Tiglieto. I monaci spinsero sull‘acceleratore di un processo che aveva preso il via nell‘ultima fase dell‘epoca longobarda con l‘opera delle curtis e nel giro di pochi secoli avrebbe radicalmente modificato il paesaggio dell‘Italia centro-settentrionale. In epoca longobarda a dominare gran parte del territorio era l‘incolto, il bosco. Incolto non significa però improduttivo: oltre che per la legna o le castagne (in quel periodo fu promossa su vasta scala la coltivazione del castagno da frutto), i boschi erano sfruttati allevando maiali allo stato brado e cacciando i selvatici. L‘aristocrazia e i re longobardi amavano molto andare a caccia nelle selve e le ritenevano strategiche, tanto che il re ne riservava alcune per sé. Di grande importanza erano anche per gli abitanti della campagna, in quanto i boschi allora erano proprietà comune, in cui chiunque poteva raccogliere legna oppure portare al pascolo le proprie bestie. Dal punto di vista delle élite cittadine, invece, erano più desiderabili le coltivazioni di cereali, che meglio si adattavano allo stoccaggio e alla distribuzione (un ottimo riassunto di questa ideologia si trova nel celebre dipinto del buon governo di Siena, vero manifesto di come la città medievale modella il territorio circostante secondo le proprie necessità).
Per questo la nobiltà concesse in uso ai monaci grandi porzioni di terreno, con il preciso scopo di trasformarle in terreni agricoli. Ciò fin dai tempi dai longobardi, ad esempio con le grandi abbazie di Bobbio (valle Trebbia) e Farfa (Sabina). In questo modo, riuscirono a sottrarre territorio alle popolazioni rurali (spesso con non poche tensioni con esse) e a condurlo a sé, sia perché le abbazie erano fedeli alle élite che concedevano loro privilegi e terreni, sia perché erano gli stessi rampolli delle famiglie nobili a entrare nelle abbazie come monaci. In pieno secolo XII, Tiglieto si inserì in una fase matura del processo, in cui la forte urbanizzazione e la crescita demografica permessa da un clima che concedeva molte annate favorevoli avevano fatto aumentare la pressione antropica.
Lo stesso bosco non fu solo ridotto di superficie, ma fu profondamente trasformato, anche nelle essenze che lo compongono, venendo addomesticato, anche culturalmente: nei documenti dell‘epoca si usavano nomi diversi per il bosco coltivato e selvaggio. I grandi alberi scomparvero in favore del ceduo. Si estese la superficie a faggeto, che dava delle ghiande gradite ai maiali e successivamente divenne la materia prima per produrre il carbone che serviva alle ferriere. Tra le querce, che pure erano gradite ai maiali, si ritirarono quelle come il rovere e la farnia che non sono in grado di rigenerarsi con i polloni dopo il taglio, mentre si diffusero quelle in grado di farlo, come i cerri. Si diffusero i castagneti da frutto, quelli innestati, che producono alberi con un tronco grosso e tozzo, vero albero del pane delle zone in cui non era possibile coltivare cereali; pure valida alternativa in caso di carestia, perché le castagne maturano in una stagione diversa dai cereali e quindi le annate magre sono diverse. Lungo il percorso i castagni da frutto sono scomparsi, sostituiti da quelli cedui; gli essiccatoi dove le castagne erano rese adatte alla conservazione, localmente detti aberghi, sono crollati e ne restano solo mucchi di pietre: l‘abbandono di questa coltura dev‘essere avvenuto moltissimo tempo addietro.
Una volta venute meno le esigenze sociali che ne motivarono la fondazione, il monastero andò in crisi, ma l‘area rimase agricola, perché il complesso fu passato a una famiglia nobile della zona che la rilanciò con ambiziosi progetti, tra cui la deviazione del corso del torrente Orba. Oggi le colture sono scomparse in favore dei prati e il bosco ha ripreso parte del suo territorio. La conca è un luogo incantevole e il sentiero che dal corso dell‘Orba sale fino a dominarla è il clou del viaggio.

Oltre ai prodotti agricoli, fondamentale fonte di approvvigionamento per Genova, altre merci transitarono su queste mulattiere. Naturalmente c‘era il sale, proveniente dalle isole e diretto verso l‘Europa continentale. Ha lasciato un toponimo nel Bric Salera, un picco roccioso su una dorsale piatta, dove c‘erano dei depositi lungo la via commerciale.
Fin dal Medioevo il vetro veniva prodotto in val Gargassa e successivamente a Monte Lecco, dove ancora oggi rimane qualche resto di vetreria. Studi sui reperti scavati nei decenni scorsi hanno permesso di stabilire che tutto il ciclo di lavorazione erano fatto in loco, dalla fusione dei minerali alla produzione di manufatti. La materia prima principale, il quarzo, era estratta in loco, ma alcune componenti della miscela da vetrificare potevano essere d‘importazione. Sono documentati anche casi di riciclo di materia prima.
Il minerale di ferro proveniva dall‘isola d‘Elba ed era sbarcato nei porti. Era trasportato nell‘entroterra dove c‘era abbondanza delle materie prime per l‘estrazione del metallo dal minerale: carbone e energia dell‘acqua. Il carbone era prodotto a partire dalla legna di faggio, la migliore per questo scopo (lungo il Mediterraneo si usavano in alternativa il leccio o gli arbusti della macchia). L‘albero privato delle fronde era tagliato in pezzi di media dimensione e disposto in cataste molto compatte, ricoperte con un cono di terra, in cui erano praticati un foto in cima più altri in quantità calibrate dall‘abilità del carbonaio. Dopodiché si accendeva la catasta che, in carenza di ossigeno, bruciava lentamente (ci volevano alcuni giorni per completare il processo) e solo parzialmente, lasciando il carbone come residuo. Il carbone veniva poi mischiato al minerale di ferro nella fornace per ridurlo. Non era possibile usare direttamente la legna, perché l‘idrogeno in essa contenuto avrebbe reso molto fragile il metallo così ottenuto (il fenomeno è detto fragilità caustica). L‘energia dell‘acqua serviva a muovere gli utensili che modellavano i pezzi prodotti; per questo motivo le ferriere erano sempre in riva ai torrenti.
Anche la carta viaggiò su questi percorsi, perché Voltri a inizio Ottocento era un grande centro cartiero. Il quartiere in cui avveniva la produzione si chiama ancora Fabbriche. Qualche cartiera esiste ancora e oggi si può provare l‘emozione di trovarsi di fronte un TIR che la trasporta, sull‘angusta stradina tanto ligure che conduce ad Acquasanta. Allora la materia prima non era il legno, che lo sarebbe diventato solo dopo metà Ottocento, ma gli stracci, che arrivavano dalla Pianura Padana. La creuza diretta alla mulattiera che sale verso l‘interno ancora oggi si chiama Via Superiore dell‘Olba, dal nome della zona dell‘entroterra.
Anche se non per le cartiere, ma per i cantieri navali della Repubblica, anche i tronchi degli alberi viaggiavano su queste mulattiere, dalle foreste dell‘Olba alla costa. Il trasporto avveniva su slitte, dette lese, i cui segni sono molto ben visibili sulle pietre della mulattiera che dal passo del Faiallo scende al passo della Gava.

Ma da dove arriva tutta l‘acqua che alimenta i torrenti e fa crescere rigogliose le foreste? Il crinale di questa porzione di Appennino, che culmina con la cima dei Beigua, segna il confine tra due climi completamente diversi: quello padano continentale a nord e quello mediterraneo a sud. Lo scontro tra due masse d‘aria tanto eterogenee genera frequente instabilità, con seguito di rovesci. Non è un caso che l‘albergo sul crinale dove dormo si chiami “La nuvola sul mare”. La sera sento cose turche da un locale che qui le ha viste tutte. Questo clima tanto ostile per gli escursionisti è invece una benedizione per l‘agricoltura e le foreste. Persino sul dirupato versante meridionale, che in una manciata di chilometri precipita da 1000 metri al mare e che oggi ci appare selvaggio, in passato esisteva una fiorente comunità agricola. Ha lasciato abbondanti tracce in una fitta rete di sentieri e mulattiere che percorrono in lungo e in largo la montagna e a inizio Novecento era così forte da bloccare un progetto già avviato di captazione del torrente Lerone, che l'avrebbe privata della preziosa acqua.
Nelle immediate vicinanze del crinale, invece, la faccenda è un po‘ diversa. Tanto per cominciare, il terreno non è dei migliori. Le rocce di queste montagne si sono originate dai vulcani dei fondali di un oceano oggi scomparso, perché nel frattempo si è scontrato con la placca africana e generato le Alpi (queste montagne fanno geograficamente parte dell‘Appennino ma geologicamente delle Alpi). Pertanto sono ricche di minerali, alcuni tossici per molte piante, per cui sono poche le specie che sopravvivono qui e spesso solo qui. Tra queste la dafne odorosa dal profumo delicato e la viola di Bertoloni, che vedrò fiorita gli ultimi due giorni. Inoltre in cima soffia spesso un forte vento rafficato e d‘inverno si forma sugli alberi, sulle rocce e sulle croci di vetta uno spesso strato di galaverna, tanto fotogenico quanto letale per le forme di vita. Per cui gli alberi in cima o mancano o sono contorti e stentati. È impressionante salire dalle foreste del versante padano e vedere quanto cambiano in poco spazio la temperatura e l‘intensità del vento.

Infine, come detto, queste mulattiere sono state e sono tuttora vie di fede. Il sentiero percorso nel primo giorno e mezzo è stato concepito come via di pellegrinaggio verso il santuario di Madonna della Guardia, a Genova. Lungo una sezione del percorso ho visto dei bolli con una τ; la sera l‘albergatore di Tiglieto mi ha spiegato che qui passa un cammino francescano percorso da una trentina di francesi l‘anno. Certo oggi i pellegrini hanno scarponi in Gore-Tex e magliette tecniche e non rischiano più gli attacchi dei briganti, ma non per questo il loro percorso vale meno.
Quanto al mio, era motivato dall‘esigenza di scoprire questi luoghi con i tempi del viaggio a piedi, il modo che meglio fa conoscere il territorio. Luoghi poco lontani da casa, ma che non avevo mai visto (tranne che quelli dell‘ultima tappa). Mission accomplished.

Acqui Terme – Moretti

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a. Acqui Terme. Piazza della Bollente

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b. Acqui Terme. La Bollente

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c. Monferrato. Vigneto

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d. Monferrato. Vigneto

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e. Ciglione

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f. Toleto

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g. Piancastagna


Il viaggio non può che partire dalla Bollente, la sorgente termale a 75°C che sgorga nel centro di Acqui Terme. Nella fresca mattina, l'acqua calda fuma senza però emettere odori; riesco a toccarla solo per qualche secondo prima di cominciare a sentire dolore. Un vecchio ne sta lentamente sorseggiando un bicchiere. Non ho il coraggio di chiedergli che proprietà avrebbe, secondo lui. Nella cultura tradizionale, i prodotti tipici o insoliti di una terra erano spesso rivestiti di qualità taumaturgiche: ad esempio, i miei nonni veneti davano il vino ai miei zii quando erano malati e la stessa sorte è capitata ad alcuni miei cugini.
Nella piazza stanno convogliando i primi motociclisti di un raduno; non resisto a fotografare una grossa Harley a tre ruote, guidata da un centauro di stazza appropriata, che si ferma giusto tra me e la cupola della Bollente. Nella prima ora di cammino il loro rombo allieterà le mie orecchie, ma per fortuna non le mie narici, perché prenderanno altre strade. Dalle notizie che ho raccolto, se fossi partito il giorno prima, come avevo inizialmente programmato, li avrei trovati in massa a Tiglieto.

Vado verso corso Bagni, pedonalizzato per un mercatino delle pulci. Vista l'ora da caffè al bar, quelli interessati agli acquisti sono scomparsi da tempo, sostituiti da pensionati che curiosano tra le bancarelle. Varcata la Bormida insieme alle auto, trovo l'attacco del percorso segnalato, che mi porta tra gli alberghi per i turisti termali. Lasciata la strada, imbocco un sentiero che sale subito ripido in un bosco umido e fitto. Mi scaldo molto in fretta, tanto che al primo pianoro dove posso posare lo zaino sono già in maglietta. Passando tra gli alberi, sulla mia faccia si appiccicano alcune ragnatele tessute di traverso sul sentiero, una sensazione che non provavo dall'autunno scorso. Oltre che dalle sopracitate moto, il paesaggio sonoro è popolato dal canto del primo dei tanti cuculi che sentirò oggi e nei prossimi giorni. Quello visivo è invece colorato dalle prime orchidee.
Sento dei passi alle mie spalle; voltandomi noto due persone di corsa raggiungermi. Uno di loro, incuriosito dal mio grosso zaino, mi chiede delucidazioni. Saputi i miei progetti, mi dice che il CAI organizza un trek simile al mio, ma in metà tempo. Lui vorrebbe addirittura percorrerlo in giornata, quasi tutto di corsa. Tra i luoghi che vedrò oggi, mi raccomanda il mulino che fu di Gino Paoli, prima di Toleto. Nei pressi dei ripetitori del Monte Stregone, il sentiero sbocca su una stradina di crinale assai panoramica: lungo la cerchia lontana delle Alpi innevate riconosco il familiare profilo del Rocciamelone. Non riesco invece a individuare i più vicini Bric Puschera e la torre di Vengore. Intorno a me ci sono casette, prati e vigneti.
Su sentiero tra ornielli fioriti salgo al Monte Marino. Sono partito da poco, ma la tentazione di fare già una pausa in questo punto panoramico è forte: c'è pure una comoda pietra piatta su cui accomodarsi. Tuttavia il mio spirito CAI, mai sufficientemente represso, mi fa sentire colpevole per una simile fiacca: me ne rammaricherò. Oltrepasso un castello trasformato in azienda vitivinicola, dove un signore, prima presenza umana di tutte le case superate finora, sta lavorando nel garage e non mi nota. Non che faccia un gran rumore, a parte il ritmico ticchettio dei bastoncini sul terreno. Un tratto di sentiero è bordeggiato da biancospini fioriti dall'odore molto delicato. C'è anche un primo timido fiore di caprifoglio, ancora in formazione.

La pausa la faccio poi presso un noce, poco sopra una casa più animata: si sentono le voci dei bambini che giocano nel cortile e si vede un trattore lavorare nella vigna. Il tragitto di oggi non segue quasi per nulla vie storiche di commercio, probabilmente perché qui le carrozzabili hanno ricalcato i loro percorsi di crinale, anziché andare nel fondovalle. Tuttavia una sorta di via c'è lo stesso: infatti su questo crinale passa nascosto sottoterra un oleodotto, che porta il crudo da Quiliano, vicino a Savona, fino alle raffinerie di Trecate, nel novarese.
Costeggiati dei vigneti, entro nel bosco su sentiero e sbuco su una stradina asfaltata, sempre nel bosco. Ai suoi margini vedo un giovane capriolo maschio che non fugge alla mia presenza; speriamo che impari a farlo prima che si apra la stagione di caccia. Supero un auto lasciata in mezzo alla strada, presso cui i suoi passeggeri, che hanno l'aria di non aver mai camminato un granché, stanno elaborando un piano per abbuffarsi. Un nuovo taglio su sentiero mi regala un piacevole tratto tra i canti degli uccelli, che termina sopra un piccolo calanco. Arrivo così a Valle Croce, dove due cagnetti mi vengono incontro abbaiando furiosamente, incuranti dei richiami del padrone.
Qui il percorso devia e scende nella valle boscosa, dopo aver attraversato alcuni prati. Arrivato sul fondo, dopo un guado su un rio che scorre accanto a una parete di terra, mi faccio ingannare da un segnale su un albero e risalgo verso un vecchio sentiero abbastanza tracciato. Dopo averlo brevemente seguito, mi accorgo che non ci sono più segni ed è invaso dalla vegetazione. Ritorno allora indietro e individuo una tacca che mi porta nella direzione corretta, su una dorsale diversa. Questa traccia non è però un percorso storico, ma probabilmente solo un raccordo che porta fino ad un muro a secco che scende dritto per il pendio; da qui parte un sentiero più tracciato. La guida se la cava con un accenno alla risalita, ma devo penare non poco tra il verde sfavillante delle querce illuminate dal sole. Va giusto bene che la temperatura è abbastanza fresca. La musicaccia di un'autoradio mi annuncia che la civiltà è vicina. Faccio ancora in tempo a disturbare un gatto dal pelo lungo e curato, sceso nel bosco a caccia di topi o talpe, e sbuco sulla strada ai margini di Ciglione. Lo attraverso e vado a fare uno spuntino accanto a una cappella, nei pressi della proloco, che è chiusa. Peccato: speravo di rabboccare la borraccia, che è quasi vuota, e magari di rimediare un caffè.

Da Ciglione scendo nuovamente nella valle. Ad un certo punto trovo un bivio non presente sulla descrizione: da una parte si segue il sentiero descritto, dall'altra si fa un percorso facile. Dopo aver seguito il primo non posso che consigliare il secondo: non per qualche difficoltà particolare, ma perché si risale il ripido versante boscato come capre, senza sentiero. Invece mi pare che dall'altra parte si segua una pista erbosa, che forse era interrotta al momento della prima tracciatura. Una volta ricongiuntomi con essa, incrocio tre ciclisti che scendono. In cima attraverso su asfalto un gruppo di case, dove saluto una signora e la figlia adolescente. Per un sentiero scendo di nuovo verso il fondovalle. Sento degli strani versi strazianti, che interpreto come ragli quando sento il caratteristico odore degli escrementi di equino. Superato un ruscello dal letto molto incavato ma adesso in secca, arrivo a Case Valle, molto rurali.
Qui mi aspetta il guado del rio Tre Aberghi, che naturalmente è quasi in secca per la lunga siccità autunnale e invernale. In caso di piena, può presentare qualche difficoltà, perché non ci sono pietre su cui stare sollevati rispetto al letto, ma bisogna probabilmente mettere i piedi in acqua (le ghette possono tornare utili), cercando i punti sopraelevati del fondo roccioso. Segue una sterrata in una zona con lavori di disboscamento, a cui succede una zona più aperta da cui si vedono le verdi colline circostanti. La strada diventa mulattiera dopo alcune case nei prati. Risalgo dolcemente la valle, attraversando un castagneto dove si vedono i miseri resti di alcuni aberghi, gli essiccatoi per castagne. La produzione deve essere cessata molto tempo addietro, perché i castagni sono ormai tutti cedui, mentre non ve ne è nessuno da frutto. In genere si sta a una certa distanza dal torrente, senza vederlo, ma c'è un punto molto bello in cui lo si domina dall'alto di una parete contro cui scorre.
Guadato nuovamente il rio, la mulattiera sale (non so perché ma brevemente la sia abbandona per un taglio insensato) e diventa nuovamente stradina, passando accanto al famoso mulino citato in precedenza. La ruota è stata conservata e sono stati rifatti in metallo i canali che vi portavano l'acqua. In breve si è al cimitero di Toleto, dove la stradina asfaltata porta alla proloco. Mi accomodo a fare merenda con le gambe sotto a un tavolo accanto alla fontanella, dove posso riempire la borraccia ormai secca. All'ombra un pile è necessario.

Sulla piazza della chiesa, dei bimbi sorvegliati dalle mamme giocano a palla, mentre degli adulti stanno scaricando materiale edile da un furgone. C'è ancora un tratto su sentiero, ma da qui a Moretti mi aspetta soprattutto asfalto. Per fortuna la maggior parte è su una stradina di crinale nel bosco, dove non passa nessuno. Ad Abbassi seguo brevemente la SP210, poi imbocco una pista sterrata che sale sulla collina verso il Bric dei Gorrei e domina Piancastagna. Incontro un papà con la figlia in bici e un motociclista. Lascio poi il sentiero segnalato per una mulattiera individuata sulla carta che mi porta al sacrario. Di qui, accorciati i bastoncini, seguo la SP210 fino a Moretti.
Prendo un caffè al bar e vado in albergo, di cui stasera sono l'unico cliente. Bar, albergo, frazione e proprietario hanno tutti lo stesso nome. Il riscaldamento è acceso: gran notizia, così posso lavare e asciugare tutto, anche se nel frattempo il cielo si è rannuvolato. Dopo cena faccio due passi lungo la provinciale, nel fresco della sera. I residenti si radunano nel bar. Vado a letto presto anche se la colazione è alle 8.

Moretti – Tiglieto

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i. Case Bricco

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j. Torrente Orba

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k. Affioramenti rocciosi

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l. Torrente Orba

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m. Badia di Tiglieto

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n. Chiesa di Tiglieto

Questa è probabilmente la tappa paesaggisticamente più bella del trek, anche più dell'ultima in cui si scende vista mare. Infatti il tratto da cui si dominano le anse dell'Orba e la piana della Badia meritano da soli il viaggio e senz'altro si prestano anche a una gita in giornata.

Ripercorro a ritroso la provinciale nell'aria tersa e frizzante del mattino. Attorno al sacrario hanno falciato l'erba per permettere il parcheggio delle auto. Alle 11.30 è prevista la commemorazione dei ragazzi del luogo fucilati da nazifascisti. Seguo il 535 verso cascina Tiole per andare a riallacciarmi al mio percorso. Purtroppo il sentiero è segnalato solo per chi lo percorre nel verso opposto al mio e devo andare un po' ad intuito. Oltre cascina Tiole mi immetto su una sterrata molto panoramica sulle colline circostanti (riconosco la forma del Bric del Dente) e anche sulle Alpi: si vede il Monviso, mentre il Rosa è nascosto da una nube orografica. Due vecchietti a spasso mi scambiano per un giovane.
La strada scende poi dolcemente verso case Bricco. La vegetazione passa da tipicamente appenninica, con pini radi, a una fitta foresta di querce. Le prime avvisaglie della Badia compaiono allorché passo nei pressi della frazione Ronco: questo è infatti un tipico nome medievale legato ai disboscamenti promossi dai monaci, per ottenere nuovi terreni per l'agricoltura o il pascolo, in questo caso. La sterrata confluisce nella strada di fondovalle nella piccola frazione di Olbicella, apparentemente deserta. Seguo la strada asfaltata che corre lungo un bellissimo torrente, l'Orba, purtroppo con poca acqua. Si raggiunge la confluenza con l'Olbicella (Orba, Orbarina, Olba, Olbicella: non ci raccapezzerò mai con i nomi di questa zona) e si va a varcare l'Orba su un ponte pedonale. Alcuni camperisti con cane sovraeccitato si sono piazzati nel prato accanto al ponte. Io mi fermo dall'altra parte su una panchina all'ombra, in mezzo al verde. Se ricordo bene, è da questo punto che si vedono dei bolli con una τ: di qui passa infatti un cammino francescano seguito dai francesi (una trentina l'anno, mi dirà l'albergatore di Tiglieto).

Fin qui è stata una piacevole camminata in boschi solitari, mentre ora inizia un tratto esaltante. Il sentiero va a costeggiare il torrente accanto a rocce arancioni, che contrastano con il verde della vegetazione e l'acquamarina dell'acqua. Con un secco tornante, imbocco una mulattiera lastricata (finalmente un sentiero storico), che sale dolcemente offrendo una vista dall'alto del torrente. Svolto poi nuovamente e prendo quota su un terreno rossiccio molto povero, con rada vegetazione di pini. Passo a monte di Cascina Cannobbi, dove ci sono invece prati verdi. Quando il sentiero ha superato abbastanza dislivello, si aprono spettacolari viste aeree sul corso del torrente, che scorre tra dolci colline boscose, a cui fanno da contraltare i panorami sulla verde pianura lontana. Dopo un tratto esposto a nord compare finalmente la Badia, ma solo per un breve tratto.
Arrivato quasi in cima alla dorsale, ad un bivio dove il segnavia mi manda a sinistra prendo invece a destra, perché questo sentiero conduce a un magnifico punto vista sulla conca della Badia, da cui si rientra seguendo degli ometti. Ripreso il 531, ho il problema che dalla sella della Crocetta dovrei seguire un lungo tratto di strada per arrivare alla Badia. Una mi amica conosce un traccia ormai molto rovinata che porta al ponte romanico, ma mi sconsiglia di farla da solo per la prima volta. Tuttavia a una sella vedo una mulattiera che scende a delle case. Un rapido sguardo alla carta mi indica che così risparmio un paio di tornanti di asfalto. Giunto alla strada, la seguo brevemente per poi piegare a destra in via Belvedere, che scende più diretta tagliando un lungo tratto. Mi tocca poi restare sulla strada principale fino al ponte romanico (ricostruito nel Seicento), con annessa quercia monumentale. Varcatolo come un pellegrino medievale, imbocco la pista che conduce alla Badia. Nei prati attorno riconosco la caratteristica forma delle marcite, di cui avevo sentito parlare a Lucedio (abbazia figlia di questa), ma che lì sono scomparse per gli interventi successivi, mentre qui si sono conservate. I campi (oggi prati) non sono piani, ma bombati, perché i monaci facevano scorrere l'acqua in canali posti alla sommità, con cui irrigavano in maniera continua e riuscivano così a ottenere un aumento delle rese e anche più raccolti all'anno, secondo la guida di Lucedio. Purtroppo ai prati non posso accedere perché sono proprietà privata della famiglia Raggi, che nel Seicento rilevò la Badia caduta in decadenza e ne rilanciò l'attività agricola, anche deviando il corso del torrente per impedire le periodiche alluvioni.
La Badia è chiusa, come mi aspettavo (è l'ora di pranzo). Scatto qualche foto, ma conserverò solo quelle in cui riesco a inserirla nella natura. Purtroppo non ne riesco a fare molte così, perché solo una piccola fascia attorno alle costruzioni è accessibile al pubblico. Mi fermo un'oretta su un sasso al sole. Un po' di turisti arrivano alla spicciolata, fanno un giro e se ne vanno.

Riparto per percorrere l'anello della Badia, segnato con un cerchio sbarrato. Costeggio l'area interna al monastero, dove vi sono molti alberi monumentali. Proseguo in un bosco gradevole, dove supero un bel po' di gente a spasso (almeno per le mie abitudini). Seguo per un tratto la strada, dove una famiglia ha posteggiato e si è messa a fare il picnic accanto all'auto, il tipico modo italiano di stare in mezzo alla natura (c'è un'agghiacciante foto di Berengo Gardin degli anni ’60 molto indicativa al proposito). Un bosco di alberelli porta a una passerella pedonale sull'Orba; ai suoi piedi alcune persone si sono sedute sul greto del torrente. La passerella conduce a un gruppo di case dove anticamente c'erano delle ferriere, che hanno lasciato una traccia nel toponimo. Accompagnato dal piacevole fruscio dell'acqua, percorro una mulattiera che si mantiene poco sopra il torrente. Diventa poi stradina fino a congiungersi al sentiero che arriva dal Bric del Dente. Quasi in mezzo alla folla (sempre per il mio metro), arrivo fino a dove dovrebbe esserci il sentiero che conduce al canyon delle Sterzurie (streghe in dialetto). La zona dove dovrebbe esserci l'imbocco è cintata; trovo un sentiero poco più avanti, ma si perde nel nulla. Rinuncio.
Seguendo una strada asfaltata che sale, riesco a raggiungere la chiesa di Tiglieto senza percorrere troppo asfalto. Dopo un giro in chiesa, mi fermo a “Il ritrovo” (probabilmente l'unico locale pubblico nel raggio di decine di chilometri, visto l'isolamento di Tiglieto), pieno di gente seduta la sole, dove una ragazza mi serve un caffè molto denso dal sapore insolito. Grazie alla mappa di 4umaps (mappa gratuita per il GPS del cellulare) riesco a trovare una sterrata che punta dritta verso la parte superiore del paese, tagliando gli interminabili tornanti della strada principale. Passo accanto a un deposito di rumenta edilizia e raggiungo l'imbocco della strada che sale all'albergo.
Qui sono in preda al delirio di tre giorni di pienone (c'era un gruppone che faceva Qi Gong o qualcosa del genere). Ad accogliermi c'è solo il figlio adolescente in canotta e scarpe da calcio (è reduce da una partita con gli amici); ha istruzioni imprecise, ma con intraprendenza riesce ad attivarsi e a servirmi a dovere. La cena mi farà dimenticare queste sbavature.

Tiglieto – Passo del Faiallo

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o. Tiglieto

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p. Case Isola

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q. Case Isola

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r. Lago della Chiusa

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s. Cappella Gattazzè

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t. L’Appennino dal Bric del Dente

Prima delle due tappe lungo le vie storiche che univano il monastero con la costa e lungo cui si scambiavano cereali, legno, vetro e sale (fin dal medioevo), ma successivamente anche ferro, carbone e carta, per citare solo le merci principali.

Al mattino il cielo comincia presto a rannuvolarsi, a dispetto delle previsioni che promettevano cielo limpido. Gli addensamenti si estendono in fretta dal Beigua verso l'interno e ricoprono le cime più alte. Credo siano generate dal vento umido e fresco che soffia dal mare. Resterà così tutto il giorno. Alla partenza ripercorro l'ultimo tratto del tragitto di ieri, fino al sentiero. Mentre costeggio il deposito edile, un cane minuscolo mi viene incontro abbaiando, salvo tosto farmi le feste. Temendo che mi segua, non ricambio l'affetto e lo lascio deluso mentre mi guarda allontanarmi.
Il sentiero mostra subito la sua natura di percorso antico e importante. È infatti spesso lastricato e a volte anche bordato di pietre. Secondo le note della cartina, dovrei vedere sul selciato i segni delle lese, le slitte su cui si trasportavano le merci; oggi non le noterò, ma ne farò un scorpacciata domani scendendo verso il passo della Gava. Dopo un tratto nel bosco, sbuco nei prati di Case Isola, al cui centro troneggia un acero di monte. Il sentiero si perde un po' tra l'erba, ma le segnalazioni continue consentono di non smarrire la retta via. Queste come quasi tutte le abitazioni isolate che vedrò sembrano ancora tenute, almeno in parte, ma in tutto il giorno non vedrò che una persona. Un doppio guado mi porta alla salita verso colla Minetti, dove qualcuno ha costruito una sbarra di legno sul sentiero, che tocca aggirare. Scendo a una casa abbandonata con una quercia secolare, dietro a cui riparte il sentiero. Continuo fino a una strada, dove resto un po' incerto su dove svoltare, finché l'unica persona con cui parlerò oggi mi indica la direzione giusta. Girandomi vedo allora il segnavia che prima mi era sfuggito.
In questo tratto la mulattiera è scomparsa sotto la strada, che va seguita per almeno un chilometro, fino a Ferriera Alta, un toponimo che dice tutto. Questi antiche industrie siderurgiche erano spesso costruite vicino ai fiumi, per poterne sfruttare la forza per le lavorazioni. Oggi Ferriera deve essere popolata da mattacchioni, a giudicare dalla quantità di cartelli spiritosi sparsi tra le case. La pista erbosa prosegue per un lungo tratto parallela al Rio Rosto, fino al punto di guado. Oggi non è per nulla difficile, perché la lunga siccità ha abbassato di molto il livello medio dell'acqua, come ben si vede dalle concrezioni sulle sponde. Al Faiallo un cartello sconsiglia questo percorso in caso di forti piogge, che in ogni caso può essere facilmente evitato proseguendo lungo la strada fino ad Acquabianca e seguendo di lì i tre pallini gialli. Un percorso del tutto alternativo consiste invece nel salire dall'albergo alla dorsale, dove si trova il sentiero dei due quadrati gialli vuoti, che resta sul crinale a va ad allacciarsi a quello che sale da Campo Ligure. A monte del guado il rio forma un laghetto verde, detto lago della Chiusa, dove confluisce anche un altro torrente. Mi ha garantito un ragazzo di Tiglieto che anche a luglio qui dentro non si può resistere più di un minuto. Io non ho alcuna velleità balneare, d'altronde, ma una pausa in questo luogo incantato non me la leva nessuno. Dopo alcuni minuti odo dei richiami di caprioli, che forse hanno sentito il mio odore e si sono messi in allarme.

Un secondo guado, decisamente più semplice anche se ci fosse più acqua, mi riporta sulla mulattiera storica, che in questo segmento presenta un fondo a tratti rovinato. Una buca che non vedo mi fa anche ruzzolare a terra, per fortuna senza conseguenze. Il bosco è un misto di querce e faggi, consorzio insolito perché le due specie prediligono climi un po' diversi. Presso alcune case di pietra in rovina noto un capriolo, più per merito suo che si muove e fa rumore, che del mio occhio distratto. Segue una faggeta quasi pura, anche con alberi maestosi, in particolare un tiglio. Mi domando se ci siano delle piazzole dei carbonai, visto che per lavorare i minerali di ferro serve carbone, che in Italia può essere ottenuto solo dagli alberi, in quanto non se ne trova nel sottosuolo.
Dopo la confluenza del sentiero dei tre pallini che sale da Acquabianca, in breve sono a Gattazzè. Era una dimora di vacanza e di caccia della famiglia Raggi, che andò distrutta nel 1968 in un incendio e non fu più ricostruita. Oggi gli edifici sono invasi dalla vegetazione e solo le mura della cappella resistono in qualche modo; chissà per quanto, visto che il tetto non è più integro. La mulattiera diventa stradina e sale dolcemente nel bosco. Qui la primavera sta ancora arrivando: pochi alberi hanno già le foglie. In un tratto più aperto vedo la cima del Bric del Dente; da questa distanza si riesce già a vedere il pilone sommitale. Il tracciato arriva a un torrente nei pressi di uno sbarramento in cemento, dove una volta c'era un ponte in legno. Oltre che dai suoi resti, si deduce la sua presenza da alcuni scoloriti triangoli gialli che vi puntavano. Guado il torrente a valle dello sbarramento e si attraverso un pianoro dove la traccia si perde un po'.
Ad una secca svolta a sinistra si presentano due possibilità: posso seguire la mulattiera storica, che punta dritto verso il Faiallo, oppure restare sul sentiero segnalato, che va al Bric del Dente. Visto che è presto, opto per la via più lunga. Nel primo tratto il percorso segnalato rimane su un sentiero, lungo cui mi imbatto nell'agognata piazzola dei carbonai. Dopo l'incrocio con un sentiero segnato da tre pallini gialli (non è lo stesso di prima, è solo che questo è il segnavia di tutti i sentieri di collegamento), bisogna lasciare il sentiero e tagliare su per i prati seguendo i segnavia, fino all'Alta Via dei Monti Liguri. Il bivio non è tanto evidente per chi arriva da valle, per cui al primo tentativo lo manco, salvo poi accorgermi che non sto puntando verso la cima e tornare quindi indietro a cercare la via giusta. Sono finalmente arrivato a vedere il mare. Come un tamarro qualsiasi, estraggo il cellulare e gli scatto una foto orribile (c'è pure una luce pessima) da far girare seduta stante via Whatsapp.
Seguo l'Alta Via verso est arrampicandomi su per i prati e i cespuglieti. Trovo una coppia all'incrocio col sentiero di Fiorino, ma i due non salgono in cima e scompaiono nel nulla. Io sono in maglietta, perché nel bosco faceva caldo, mentre i due sono ben intabarrati, perché dal mare soffia un vento gelido. L'ultimo tratto è una ripida traccia tra le rocce. Indosso i guanti e un po' di strati (dopo pranzo ne aggiungerò un altro) e scatto qualche foto all'Appennino, stavolta decente: ai miei piedi c'è la dorsale con il Bric Dentino da cui arriva il sentiero da Campo Ligure, quello che ha fatto nascere il progetto. Me ne sto un po' seduto a mangiare e a guardare il panorama. Verso la pianura c'è foschia, ma in lontananza si riconosce lo stesso la sagoma inconfondibile del Bric Puschera. Il Reixa e il Faiallo sono immersi nelle nuvole orografiche che corrono poco sopra di me; per qualche istante si formeranno anche al di sotto e avvolgeranno brevemente la cima. Verso Masone è più limpido.

Nonostante il freddo resisto abbastanza. Quando è l'ora di ripartire, indosso quasi tutti gli strati che mi sono portato appresso e per il primo tratto non ho intenzione di liberarmene. Solo quando sarò più al riparo un po' per volta passerò alle due magliette. Fino al primo bivio mi rendo conto che non ho memoria del percorso fatto poco prima in verso opposto, forse perché ormai pensavo solo ad arrivare in cima o ero troppo esaltato per la vista del mare. Seguo quindi l'Alta Via in direzione ovest.
La vegetazione in questa zona è ben diversa da quella che avevo incontrato poco sotto, mentre salivo: gli alberi sono pochi e abbastanza stentati, per una serie di fattori. Per prima cosa il clima del crinale è assai più severo di quello delle zone sottostanti, per il forte vento quasi incessante e molto rafficato (siamo al confine tra il Mediterraneo e il continente, con due climi assai diversi che producono spesso instabilità). Inoltre d'inverno si forma sovente uno spesso strato di galaverna, che mette a dura prova gli alberi. All'albergo uno schermo proietta foto molto eloquenti, a questo proposito. A questo va aggiunto che le rocce di questa zona, originate dai vulcani della crosta oceanica, producono un terreno assai ostile per molte piante, tanto che qui ci sono molti endemismi, che solo su questo terreno riescono a vincere la concorrenza delle altre specie. Uno di questi lo vedo fiorito oggi: è la viola di Bertoloni.
Finisco sulla strada, la seguo e perdo il bivio per rientrare sul sentiero, cosicché mi sciroppo asfalto supplementare. Quasi per caso vedo l'innesto successivo e arrivo al passo per un esile sentierino nel bosco sotto la strada. Nel nebbioso giorno feriale, solo un tavolo dell'area attrezzata è occupato. Il ponte festivo di bel tempo non ha lasciato che una manciata di cartacce. Una volta dopo Pasquetta in un posto analogo trovai pure del vomito. All'albergo parlo del mio viaggio e dell'Alta Via con il gestore, che ha il fisico e il look di chi fa cose toste. La nebbia persistente mi fa desistere dalla passeggiata serale sul Reixa.

Passo del Faiallo – Voltri

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u. Passo del Faiallo

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v. Voltri

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w. Roccia ofiolitica erosa dalle lese e viola di Bertoloni

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x. Il Dazio

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y. Voltri

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z. Crevari

Oggi sarò parzialmente gabbato dal meteo. Solo parzialmente, però, perché le previsioni errate mi faranno percorrere un sentiero di grande interesse storico, che altrimenti avrei saltato per fare un giro più lungo. Quando mi sveglio, infatti, la nebbia è fitta. Ne approfitto subito per fare un giro fotografico nella faggeta, uno dei miei soggetti preferiti. Anche se il posto è piccolo, ho il terrore di perdere l'orientamento dopo i racconti sentiti ieri sera dai locali, per cui mi muovo tenendo sempre d'occhio i segni dell'Alta Via. Precauzione inutile, perché ben presto, anche troppo, la nebbia si diraderà in parte.
Per oggi avevo grandi programmi: pensavo di percorrere la dorsale fino all'Argentea, per poi puntare verso il passo della Gava lungo un sentiero in gran parte nuovo. Tuttavia, la prospettiva di farlo senza vista mare mi demotiva parecchio. Un maturo signore del posto, che su qui sopra le ha viste tutte, si dice certo che la nuvola sul mare persisterà tutto il giorno. D'altronde, perché altrimenti avrebbero dato questo nome all'albergo? Le previsioni dei siti internet non sono d'accordo, ma ieri erano dello stesso parere e hanno ciccato alla grande. Indugio con ogni scusa dopo colazione, ma alla fine mi rassegno a lasciar perdere e decido di scendere per la mulattiera diretta.

Parto distratto, perché di qui sono già passato, per cui manco il bivio per il sentiero che scende e continuo invece verso il Reixa. Quando me ne accorgo, ho la fortuna di imbattermi in un sentiero segnato da tre pallini (il codice convenzionale dei sentieri di collegamento), che sembra puntare nella direzione giusta. Lo imbocco titubante e scendo ripido controllando continuamente se vedo il sentiero trasversale che conto di imboccare. Dopo pochi minuti lo noto e mi rassereno.
Questo tracciato porta impresse le tracce della storia dei mercanti che hanno viaggiato su questa via: sulle pietre ofiolitiche che lo lastricano si vede spesso l'erosione delle lese, le slitte di legno su cui venivano trasportare le merci. L'ambiente è quanto mai aereo, perché il pendio precipita brullo e ripido verso la valle del Cerusa, dove corre l'autostrada che scende a Voltri. Le nuvole sono ormai più in alto di me e posso ammirare tutta la scena. Il sole filtra a chiazze tra i cumuli che corrono veloci, spinti da un vento teso che gela le ossa. Il mare grigio e il cielo cupo rendono molto severo questo paesaggio erto. La temperatura muta imprevedibilmente: un cumulo nero tra me il sole o un versante esposto e rabbrividisco, una chiazza d'azzurro o un riparo e sudo sotto il pile. La cascata del rio Malanotte è quasi asciutta: si sente un filo d'acqua cadere, ma si vedono solo rocce secche.
Salgo al bivacco Gilwell per una pausa. Il bivacco è molto spartano: solo una saletta con una stufa e un tavolato senza materassi. Davanti, uno strano monumento iperbolico di travi e corde per il monitoraggio dei pipistrelli. Dalla fonte sgorga solo un filo d'acqua, come se fossimo ad agosto. Sole e ombra si alternano rapidi. Odo dei richiami di caprioli sopravento, ma non li vedo.

Nel tratto che precede e segue il bivacco, si vedono alcune pietraie dovute allo sfaldamento delle rocce scistose. Poco lontano da qui, nella valle Scura, sono molto estese e donano al paesaggio la sfumatura austera dell'alta montagna, anche se sono a pochi chilometri dalla speculazione edilizia balneare di Lerca. La mulattiera scende con pendenza molto graduale fino al passo della Gava. Poco prima di arrivarci, c'è un tratto lastricato molto ben conservato. Al passo l'effetto Venturi rende il vento sferzante. Salendo verso il passo delle Tardie, noto con disappunto che le nubi se ne sono andate da quasi tutta la dorsale: solo il Reixa è a tratti immerso, mentre l'Argentea e il Rama sono sgombri. Dal passo punto deciso verso il Tardia di Ponente, che è il punto di oggi con la migliore vista mare. Mi impunto a mangiare qui il panino, ma resisterò poco. A dire il vero, all'arrivo c'è il sole, che però scompare presto. Il mare però è definitivamente diventato blu.
Scendo allora al Dazio, dove la temperatura è molto più mite nonostante il vento non cessi. Ormai quasi tutte le nuvole sono scomparse e mi godo a lungo il sole della primavera, con una luce sul mare meglio che estiva, perché luminosa e limpida. Non chiedevo di vedere la Corsica: ora mi sento soddisfatto della tappa. Alcune rondini volano intorno a me e resto fermo a contemplarne i volteggi. La discesa nota per Crevari scorre rapida, più per la mente che per il passo: scendo tranquillo, ma oramai ho perso la capacità di notare i dettagli fini. Mi restano quelli grossolani: il mare blu fino al promontorio di Portofino, ultimo lembo di terra prima della foschia, la costa artificiale del porto per container e dell'aeroporto e una carcassa di auto, ricoperta dalle scritte degli stessi che hanno imbrattato i travi del Dazio.
All'entrata nel bosco, una sorgente mi regala una scorta d'acqua da portare a Torino. In questo tratto, il sentiero è più compromesso, ma resiste tuttavia qualche tratto lastricato. Incontro un gruppetto di capre marroncine macchiate di nero, che si mettono al sicuro sopra di me. Devono essere di una cascina che incontro poco dopo, quando sbuco sulla strada asfaltata. Proseguo poi per creuze tra le case di Crevari, dove scopro che questa si chiama “Via superiore dell'Olba”: era chiaramente la strada d'elezione per l'entroterra. Dopo la chiesa di affacciata sul mare, visione mediterranea per eccellenza, mi aspetta un po' di traffico ligure, di sensi unici alternati autogestiti, per aggirare le auto parcheggiate in tutti i tratti in cui c'è spazio per due. Una scalinata mi conduce sull'Aurelia in riva al mare, nell'estremo lembo occidentale di Voltri, oltre il Cerusa. Il primo bar è mio. Un'esperienza avventurosa, che però mi ricorda che posso mangiare della focaccia: mentre programmavo il viaggio, non mi era mai venuto in mente che avrei potuto chiudere così gloriosamente.
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Re: La via delle acciughe

Post by delorenzi »

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