Data: 13 luglio 2024
Partenza: Champdepraz fraz. Villa 1278 m
Punto più elevato: Punta di Medzove 2845 m
Lunghezza: 21,1 km
Dislivello: 1715 m
Durata: 8.45 h
Difficoltà: E/EE
Avevo ideato questa escursione essenzialmente per ammirare i celebri laghi dell’Avic, in passato visitati solo parzialmente. Tuttavia cammin facendo ho scoperto che sono solamente una piccola parte della meraviglia che questa valle, marginale rispetto all'economia rurale e turistica valdostana, offre: per il suo substrato geologico di rocce ofiolitiche molto resistenti agli agenti atmosferici, presenta infatti ridotte superfici prative destinabili al pascolo e nessuna area sfruttabile per gli impianti da sci di discesa. Tuttavia non è certo selvaggia e incontaminata, in quanto le medesime rocce offrono molti filoni minerari, noti già nell'Età del Ferro e dal XVII secolo sfruttati in maniera sistematica fin nei recessi più remoti, che hanno lasciato in eredità una pervasiva rete di mulattiere e piste per le slitte, ancora fruibili e pure spettacolari, nonostante i due secoli di abbandono.
La miniera maggiore, Herin, si trova sul versante sinistro, sulle pendici del monte Barbeston, e forniva principalmente rame, ma nel XX secolo la pirite fu adoperata pure per produrre acido solforico, che dal tardo XIX secolo aveva trovato diversi impieghi. Fu attiva dagli anni a cavallo tra XVII e XVIII secolo fino al 1957. Un’altra antica, documentata dalla fine del XVII secolo, si trova in una zona molto remota e decisamente più disagiata, presso il lago Gelato a 2500 m; da essa si estraeva magnetite, un minerale di ferro, strategico per i Savoia per le applicazioni militari. Sul versante di Champorcher ha una lunga storia la magnetite del Mont Ros, coltivata almeno da metà XVII secolo, a quando risale la prima citazione, a metà XIX, con alcuni tentativi infruttuosi ancora nel primo XX.
Dopo una sveglia alle 4.30 e un’abbondante colazione, sono mattiniero quanto basta per vedere la Dufour tingersi di pennellate rosate e la guglia dell’Avic d’oro. Quest’ultima cima dà giustamente il nome al parco, perché pur non essendo la più elevata, la sua ardita forma a guglia richiama senz’altro i topos delle prime esplorazioni alpine (un alpinista torinese di fine Ottocento le attribuisce un «ardito e provocante profilo», per cui le fonti dell’epoca adoperano il nome Aü o Acuto); per contro la primatista, il monte Glacier, da questo versante si presenta tozza e arrotondata. Arrivo ancora prima delle 7 al cartello di divieto a Covarey. La sistemazione della strada è un evento posteriore alla creazione del parco, perché allora era soggetta a frane e disagevole.
Tuttavia ciò non ha comportato uno sviluppo edilizio sproporzionato, in quanto la maggior parte dei turisti preferisce accedere alla principale attrazione turistica, ovvero il rifugio Barbustel e la circostante zona dei laghi, dalla strada per Dondena, nella contigua valle di Champorcher, scavalcando un colle poco a monte dei laghi. Di là la salita avviene su macereti riarsi dal sole, mentre da qui il percorso è molto più variegato e naturalisticamente interessante e permette di scendere da una via diversa da quella di salita. Tuttavia l’escursionista tipico nota che da là sono necessarie due ore scarse di salita per 500 m di dislivello, mentre da qui il dislivello è 900 m accoppiato a un certo spostamento, per un totale di 3 ore e mezza di cammino, per cui opta deciso per la via più breve, in ossequio a una delle leggi informali ma tassative di questa disciplina. A conferma di ciò, i pochi posti auto saranno quasi tutti liberi la sera, nonostante la permanenza al rifugio di diversi gruppetti per il pernottamento.
La mia escursione è però decisamente più lunga, dal momento che voglio salire fino al lago più elevato della valle, il lago Gelato : la mappa interattiva della regione la indica di un po’ meno di 9 ore di cammino effettivo, ma io ne impiegherò grossomodo 11, sia per il caldo sfiancante di una consistente porzione di salita, sia per la molta neve incontrata nella conca di questo lago, che rallenteranno il mio passo. Inoltre i tempi ufficiali di discesa mi paiono decisamente sottostimati, per chi non balza come un camoscio in fuga. Se vi pare tanto, sappiate che i secondi salitori dell’Avic fecero l’escursione in giornata da Verrès, partendo all’1.30 dopo aver cenato senza essersi riposati, per rientrare in albergo alle 22.30 e prendere il treno per Torino alle 5.
Proseguo a piedi lungo la strada fino al parcheggio per residenti al suo termine, passando tra casette di vacanza e strutture turistiche tirate a lucido ma ancora chiuse, vista l’ora, come lo erano i due bar lungo la salita, a Fabbrica e Champdepraz. La Ville si trova sul margine di una radura ed è formata da case in pietra e una chiesa bianca. Tra bosco misto e radure proseguo per una stradina con lastricatura recente, dove transita una grossa moto. La lascio diretto a Praz Oursie, prato dell’orso, che ho deciso di vedere attratto dal nome. Prima che nel periodo carolingio il lupo divenisse l’ossessione dei regnanti, nell’Alto Medioevo era soprattutto l’orso l’emblema della natura selvaggia, come testimonia la sua ripetuta comparsa nelle agiografie dei santi dell’epoca. Naturalmente era soggiogato e servo della potenza divina manifestata tramite il santo, esattamente come capita qui, dove l’erto monte è stato ammansito e devoluto all’economia pastorale umana. Ancora oggi i due mammiferi si contendono le attenzioni indesiderate di chi è negligente nell’attuazione di misure strutturali di coesistenza tra natura e attività antropiche e rimedia urlando all’emergenza continua.
Salgo nel bosco di pini silvestri, tipici delle zone aride, come questi versanti a solatio. Sono illuminati da una bella luce radente, che però non riesco a catturare in foto, come del resto le loro forme contorte, a causa dell’eccessiva caoticità delle scene, molto gradevoli all’occhio, ma illeggibili in un riquadro bidimensionale. Al CAI e persino gli amici più cari mi prendono tanto per i fondelli per il mio amore per la nebbia nei boschi, ma se provassero a fotografare, sarebbero d’accordo con me. Invece la maggior parte degli escursionisti odia il bosco tout-court, perché nasconde il paesaggio delle cime («non si vede niente c’è il bosco», dicono), per cui neppure pensa di fotografare questi soggetti. Il sentiero alterna tratti in cui è più ampio ad altri in mezzo alla folta erba fiorita. Oltrepasso il maggiore ru della valle, di cui nel pomeriggio vedrò la presa. Scorgo ben due scoiattoli rossi; sorprendo il primo mentre sbuco da un dosso e riesco così ad ammirarlo da vicino mentre si avvita attorno a tronchi e rami per dileguarsi. Campanacci annunciano la radura di Trebby, che lambisco su sentiero scalpicciato dagli zoccoli delle vacche e bordato da un muro di grosse pietre. Con tutta probabilità, indicano un passato prato ora ricolonizzato.
Finalmente appare Praz Oursie, raggiunta con un traverso panoramico in un impluvio. Il prato è ripido oltre ogni immaginazione e ha dei moderni edifici in stile al suo centro. Nel XIX secolo vi fu la dimora di una facoltoso britannico, nel secolo successivo trasformata nel centro direzionale delle miniere della valle. Doveva essere davvero sontuosa, perché i già citati alpinisti dell’Avic nel 1895 riferiscono che è detta «castello». Non vedendo il segnavia nell’erba folta, mi dirigo verso gli edifici, dove due ragazze intente a pulire le stalle non sanno darmi indicazioni e mi costringono a estrarre la cartina digitale, grazie a cui capisco che il sentiero passa a monte degli edifici, come indicavano dei cartelli sul margine a cui non avevo fatto caso. La cartina cartacea non riporta per contro questo sentiero di collegamento verso la mulattiera per il lago Gelato, cosa che, aggiunta alla difficoltà EE indicata sul cartello, mi fa temere sia una traccia di infimo grado ricavata di recente: quanto di più lontano dalla realtà.
Dopo una pausa per bere, per traccia nell’erba alta transito a monte della rete al cui interno pascolano delle capre guardate da un maremmano, fino a entrare nel bosco, che ora diventa di pini uncinati, non di rado di forme contorte. La diffusione di questa specie è dovuta ai frequenti tagli a raso per produrre carbone, in quanto si rigenera molto velocemente, ragion per cui ha soppiantato altre conifere come l’abete rosso, di cui vedo un sopravvissuto. Il sentiero è stretto ma molto ben costruito e agevole, tranne che in un paio di passaggi, il primo con un passo su una piccola placca bagnata e il secondo in una strettoia tra l’erba alta. Traversa più o meno in quota, in lieve salita, passando ai piedi di qualche parete rossastra e bitorzoluta, diretto verso un vallone dominato da un picco di roccia e che si stringe verso monte. Poco prima di terminare sulla mulattiera per il lago Gelato , un cartello e una rampa di lose invitano a salire alla cava di macine da mulino di Barma de Rova. Macine sbozzate e segni di scavo sono chiaramente riconoscibili, per quanto non abbia la magnificenza di Roca Furà. Inoltre nel sito furono anche scavati due saggi di miniera, alla ricerca di pirite e calcopirite, due solfuri di ferro e rame, perché ne erano osservabili delle lame sulle pareti rocciose. La galleria superiore è accessibile con un breve passaggio stretto ed esposto assicurato da una fune di corda; parte da una caverna, dove si vedono i resti di un rustico riparo in pietra.
Raggiunta poco più avanti una mulattiera più strutturata, mi fermo alla base di una paretina rossastra dove sono ben visibili delle strie glaciali, delle strisciate lasciate dai detriti fini trasportati dal ghiacciaio. Mi spalmo di crema solare, molestato da un moscone che mi ronza attorno e formiconi neri che si arrampicano sulle gambe e lo zaino. Sono infatti quasi le 10 e da qui in poi non vedo altri alberi (e neppure tanta erba, tra l’altro), se non sparpagliati in un vallone molto brullo e riarso dal sole, che va rastremandosi verso la testata. La mulattiera è davvero molto ben costruita, seppure nei secoli trascorsi dall’abbandono i movimenti gravitativi abbiano fatto il loro corso. L’ambiente è per contro assai inospitale, un fondo detritico sbarrato ai lati da pareti rocciose e placche montonate, in cui pochi rododendri fioriti e radi larici non possono certo mutare l’indole. Non riesco a scattare una foto dal titolo “La sentinella” all’ultimo larice, per il punto di vista troppo eccentrico offerto dal sentiero, né ho voglia di balzare nella pietraia per cercarne uno migliore. Infatti l’elemento più respingente di tutto ciò, il sole molto forte e caldo, mi spossa non poco. L’unico suo lato positivo è che probabilmente ha ammollato i nevai segnalati in quota, agevolando il loro attraversamento senza ramponi. Oltrepassando un rio sento un forte odore di escrementi di selvatici, ma non vedo ungulati. In compenso abbondantissimi sono i ragni che metto in fuga al mio sopraggiungere.
Intorno a quota 2350, apparentemente la stessa del picco che prima vedevo dal basso, il sentiero guadagna il centro del vallone, accanto a delle rocce montonate in corrispondenza di un gradino vallivo. Da qui pare spianare un poco e la temperatura si fa più fresca. Ne approfitto per una pausa ristoratrice. Intanto alle mie spalle compare la Piramide Vincent.
Ora la mulattiera prosegue liscia su una pietraia di grandi massi, in modo da poter essere percorsa dalle lese che servivano le miniere di magnetite del lago Gelato. Era una modalità di trasporto relativamente diffusa, praticata ad esempio anche nella maggiore miniera di ferro della Vallée, quella di Cogne, dove a metà Ottocento impiegava la stessa quantità di personale delle operazioni di estrazione. Il manufatto è incredibilmente scenografico, per il contrasto tra la sua geometria lineare e quella caotica dell’ambiente circostante. Immagino che all’epoca dell’utilizzo facesse l’impressione che oggi ricaverebbe Gogol, già affascinato e straniato dalla San Pietroburgo del XIX secolo, ammirando Brasilia o Dubai in mezzo al nulla, come i cittadini chiamano la natura estranea al vivere civile: una manifestazione della capacità dell’homo faber di modellare il nulla inospitale della natura, ma anche di creare realtà alienanti, come doveva apparire l’attività umana in questo avamposto solitario e aspro, ancor di più con il clima freddo dell’epoca. I già citati alpinisti del 1895 prestarono attenzione alla mulattiera, una delle poche notazioni di elementi antropici senza connotazione negativa nella loro relazione, sebbene con lo stile asciutto di chi è abituato a ben altre meraviglie del secolo del progresso.
I documenti storici narrano che lo sfruttamento più recente è merito dei fratelli Mutta, due imprenditori metallurgici bergamaschi, a partire dal 1693, dopo un accordo con il barone di Fénis, in quanto la zona dipendeva dall’alpeggio di Grand-Bella-Lana, nell'adiacente val Clavalité, che portava qui le sue pecore e le sue capre. Tuttavia documenti del XIV secolo fanno riferimento a forni in val Clavalité, che potrebbero essere stati alimentati anche da questi filoni, ma soprattutto nella zona sono state rinvenute scorie di fusione risalenti al IX-X secolo a.C., ovvero all’Età del Ferro, quindi il giacimento era noto da tempo immemorabile. La miniera passò quindi a un discendente dei due fino alla sua morte, nel 1732. Successivamente fu sfruttata in maniera più discontinua: il Casalis nel 1837 cita la lavorazione del ferro a Champdepraz, mentre altri documenti di metà XIX secolo non la nominano. La concessione fu avviata nuovamente nel 1872 e rimase attiva fino al 1893. Vi furono infine alcune ricerche infruttuose nel XX secolo, in particolare in corrispondenza delle due guerre mondiali.
Durante la gestione Mutta, il minerale era diretto al forno di La Servaz, che i due avevano fatto edificare (lo vedrò in discesa), quindi i documenti successivi fanno riferimento agli altiforni della Bassa Valle. In mezzo furono utilizzate due fonderie più a valle dell'originaria, una a Perrot in comune con la miniera di rame di Herin, un’altra nel capoluogo. L’ultimo concessionario, Baldassarre Mongenet, nel 1881 fece edificare una teleferica fino alla Dora, da cui il minerale finiva negli altiforni di Pont-Saint-Martin, che nel 1847 Ascanio Sobrero, il celebre chimico inventore della nitroglicerina, descrisse come decisamente moderni, perché dotati di rulli per modellare il metallo in automatica all’uscita, senza bisogno di una lavorazione separata al maglio, e dotati di sistemi di ricircolo e riutilizzo dei gas di scarto.
Un fattore molto limitante allo sfruttamento di queste miniere disagiate furono gli onerosi costi di trasporto del minerale per i monti, che le resero poco competitive non appena l’espansione coloniale e lo sviluppo ottocentesco dei trasporti di mare e pianura rese più economico far giungere le risorse da zone lontane, ma di accesso agevole. Lo sviluppo tecnologico ottocentesco arrivò anche in montagna a ovviare questi svantaggi, sotto forma di avveniristici impianti a fune e di ferrovie, come quelle celebri del Beth, ma non riuscì a ridurre i costi rispetto al trasporto via terra in maniera decisiva. Pertanto la chiusura fu il destino comune di molte miniere analoghe, comprese ad esempio quelle più grandi di Cogne.
Ai costi di trasporto si ovviava, già dal XVIII secolo, tramite salari consistentemente inferiori rispetto a miniere concorrenti nel resto d’Europa, come anche a quelli degli operai degli stabilimenti industriali. Questi bassi costi erano permessi dalla sovrappopolazione che interessava le Alpi nel XVIII e XIX secolo, perché la miniera forniva un’alternativa o un’integrazione al reddito all’abbondante manodopera che voleva risparmiarsi la lacerazione esistenziale dell’emigrazione stagionale o permanente. Ciò esentò i datori di lavoro dall’investire nella modernizzazione delle tecniche produttive e nel miglioramento delle condizioni lavorative, che nel resto d’Europa aveva anche determinato la nascita di figure specializzate con retribuzioni ancora maggiori, ma minori costi complessivi di scavo e maggior produttività del singolo addetto. Anche i sistemi di scavo erano spesso irrazionali e disorganizzati, tanto che non di rado si dovette interrompere la coltivazione, per smottamenti dovuti alla mancata pianificazione e organizzazione delle gallerie. Inoltre mancavano del tutto sistemi di assicurazione contro le assenze per malattia o per gli infortuni temporanei o permanenti, fino a quando non furono introdotti per legge nel 1883 (su base volontaria) e nel 1898 (obbligatoria), mentre altrove, compresi i territori alpini italiofoni dell’Impero Asburgico, erano presenti già nella prima metà del XIX secolo.
Le fonti tacciono completamente sulle condizioni di vita di questi minatori, che dovevano essere asperrime: alla fine del XIX secolo le gallerie si presentavano in larga parte ghiacciate, i ricoveri erano semplici edifici in pietra a secco. I borghesi che giravano per le valli non paiono particolarmente interessati a descriverle. Ad esempio de Saussure, nel visitare le miniere d’oro di Macugnaga, descrive molto accuratamente le mineralizzazioni e il processo di produzione, ma non spende nemmeno una parola per i minatori o gli addetti ai mulini, che maneggiavano il tossico mercurio. Solo la contessa Carolina Palazzi Lavaggi, una pioniera dell’alpinismo femminile, nel 1880 visitando le miniere di Brosso, in condizioni incomparabilmente meno disagiate di queste, è colpita dalle condizioni ambientali sfavorevoli: «l'afa soffocante, i malagevoli passaggi, l'acqua che gocciola dall'alto formando rigagnoli fangosi lungo le gallerie stesse, mi danno un'idea della vita faticosa che sono costretti a condurre quei poveri lavoranti».
Il simpatetico Zola in Germinal raffigura la miniera di carbone come un grande mostro che si nutre di carne umana, in cui atmosfera opprimente e mansioni estenuanti in condizioni disagevoli concorrono all'affresco di un girone infernale. Quando sul finire del XX secolo la delocalizzazione manifatturiera divenne sistematica, si diffuse il termine sweatshop per definire gli impianti di produzione: il sudore nero che impregna e sfigura le fattezze, come farebbero una marcia forzata in una foresta tropicale o un incubo di morte, è senz'altro il trait d'union tra i supplizi a cui sono sottoposti i minatori, tanto dall'ambiente quanto dai superiori. Essi lo subiscono con rassegnazione, incapaci di concepire una ribellione.
La pista lambisce delle rocce montonate, dove vedo altre strie, quindi, parallela al vallone attraversa sopraelevata delle pietraie, il tratto più impressionante. Piega quindi a sud e taglia un pendio franoso, dove è sensibilmente più deteriorata, fino a un ingresso. Nonostante abbia con me casco e pila, non ho voglia di affacciarmi, perché dovrei scavalcare dei massi per aggirare un nevaio e mi gioco così l’occasione migliore. La mulattiera risale quindi a tornanti, anche qui in parte franata, anche se il lavoro possente è sempre chiaro. Raggiungo delle piazzole, dove stavolta l’ingresso è un cunicolo assai respingente per la mia scarsa attitudine all’avventura.
Attraversando dei nevai, che paiono abbastanza molli senza essere cedevoli, raggiungo il lago Gelato, il quale tiene filologicamente fede al suo nome, essendo in gran parte ricoperto della neve rosa per le perturbazioni sahariane della primavera, a parte qualche pozza verde. Sono in una conca profonda alcune centinaia di metri, chiusa e est ed ovest tra il monte Ivertà e l’Inverso del Lago Gelato, due cime di rocce e sfasciumi, che lasciano arrivare poco sole e hanno pertanto permesso la conservazione della neve. Mi fermo su un’isoletta rocciosa tra una chiazza di neve, sotto cui corre il sentiero, come mostrano le tacche gialle affioranti e degli ometti, e il lago a consumare la prima parte dell’insalata di fagioli avanzata l’altro giorno, accompagnata da pane di segale. Frattanto il cielo si è coperto di nuvoloni e la temperatura fresca mi consiglia una maglietta supplementare.
Parto con dell’apprensione, perché non sono sicuro di riuscire a cavarmela sui nevai senza attrezzatura invernale: una decina di anni fa assistetti a una rovinosa scivolata di un’alpinista esperta, senza danni irrimediabili ma che richiese l’intervento dell'elicottero. Sulla neve non ci sono tracce di passaggio, ma i segnavia gialli e gli ometti di pietra sono abbastanza frequenti e i nevai mai troppo estesi, per cui riesco sempre a capire dove devo dirigermi. Da principio resto poco a monte del lago, sul lato orientale, tagliando in traverso una successione di nevai, mai troppo ripidi e molli quanto basta a scavare un appoggio per il piede con un calcio deciso. Al termine del lago il sentiero passa sul versante opposto della conca, per aggirare un barra rocciosa, e rimane un tantino più alto del fondo. In salita, taglio una sequenza di nevai, prima di finire alla base di uno, da salire in traverso, che dapprima mi pare pericolosamente ripido, incutendo del timore in me, ma una volta in mezzo vedo che è affrontabile con la dovuta calma e cautela.
Raggiungo un ciglio, da cui mi affaccio su un pianoro brullo di rocce grigie, dove la neve sparisce. Da qui il sentiero è segnato da file di pietre e punta alla cresta della punta di Medzove, un centinaio di metri più elevata della mia posizione. Attraverso degli acquitrini e rimonto, prima con tornanti, poi più direttamente, il pendio verso la cresta, tra crampi che mi suggeriscono caldamente una pausa per bere i sali.
Dalla cresta mi affaccio sulla val Clavalité, dove le nuvole in risalita da est si arrestano e mi consentono di vedere in lontananza persino il Bianco con la Grand Jorasses, più vicino l’Emilius e la Tersiva. Più avanti apparirà anche il lago di Medzove, con il suo colore verde brillante, nello spazio tra due dossi. Alle spalle delle via di salita, vedo che la traccia riportata sulla carta che scende dalla punta Ivertaz invece non esiste sul terreno, ma c’è solo un pendio di minuti sfasciumi, di cui di fronte è difficile valutare la precisa pendenza. Se fossi passato di lì, come avevo pure pensato, avrei trovato senz’altro meno neve, o forse proprio per nulla, ma in compenso sarei dovuto scendere alla bell’e meglio. Alla sua base è adagiato il piccolo lago des Heures, che in uno squarcio di sole mi apparirà verde, mentre è più bigio sotto le nubi. Anche il terreno è in gran parte grigio, non fosse per sparse piante a cuscinetto e qualche genziana nivale (quella con i cinque petali blu/viola). Alle spalle le bianche cime del Rosa ogni tanto sbucano tra le rapide nuvole.
Doppiando la modesta cima, a malapena segnata da marchi umani, sulla sinistra ammiro una conca di pietre e neve rosa, dall’aspetto austero e malinconico sotto le spesse nubi di calore, alla quale un piccolo lago di scioglimento non basta a conferire gioia o gentilezza. In vetta stringo gli scarponi quanto posso, perché ricordo da non so più dove che la discesa è assai ripida. È un ricordo accurato, perché, dapprima fedele alla dorsale con la Clavalité e poi bordeggiando la valletta mesta, perdo rapidamente quota. A un colletto con quest’ultima vedo peste di due persone su una chiazza di neve, dirette a valle. Ora tra un po’ di verde e fioriture, il sentiero scende così ripido che pare un taglio degli escursionisti, se tacche gialle non confermassero che è invece il percorso ufficiale, fino a un accumulo di neve, che perdendo pendenza muore dolcemente in un pianoro, dove tra un po’ spunterà la vegetazione. Sapessi sciare, potrei cimentarmi con qualche curva, o in alternativa potrei lanciarmi di sedere, ma finisco casualmente a slittare sulla neve marcia, restando comunque in piedi.
Nel frattempo ho meditato, ma senza passare all’azione, di fotografare i dossi ondulati che ora mi accingo a solcare, l’altopiano della Bettassa, perché sono costellati di laghetti e prati fioriti, anche se è troppo presto per gli eriofori. Alla base il Grand Lac ha un aspetto un po’ scozzese per le gonfie nubi che lo sovrastano, seppure con una nota alpina per i nevai e le pietraie dell’opposto versante precipite dal mont Glacier e dalla Gran Rossa, che lo sbarra in una conca profonda. Tra acquitrini, anemoni narcissini, specchi d’acqua, raggiungo una foresteria, dove dei ragazzi stanno asciugando delle tenute da pescatore e stanno armeggiando così assorti che neppure mi notano. Consumo il resto del pranzo su un grande sasso rosso piatto, di natura scistosa, di cui vado poi a fotografare le fessurazioni per estrarne una composizione astratta, dopo aver concluso il pranzo merendoiro con una tisana di zenzero e curcuma accompagnata da biscotti alle nocciole. Provo qualche composizione astratta anche con i nevai sulla sponda opposta. Mentre sono seduto, vedo salire i primi altri due escursionisti di oggi. Ne vedrò molti di qui al rifugio e poi di nuovo nessuno.
Proseguo sul prato a bordo lago, dove dei ragazzi stanno pescando e un signore sulla quarantina si fa delle abluzioni a torso nudo. Io invece tento degli altri scatti al lago, includendo stavolta l’incombente Glacier avvolto da spesse e cupe nubi, in cima a un pendio di sfasciumi grigi, ma con scarso successo, non essendo un Tolkien della fotografia. Questo lago ha due lati nettamente distinti, perché invece io cammino ai piedi di una dolce gibbosità erbosa, continuazione di quelle analoghe attraverso cui ero giunto sulle sponde.
Risalgo il dosso al capo orientale del lago e il grazioso incanto svanisce brutalmente, perché sono proiettato d’improvviso in un ambiente roccioso, in cui stavolta le nuvole sono troppo alte per essere epiche, in consonanza con il suo carattere primordiale. È sbarrato infatti a meridione e settentrione da glabre pareti rossastre, aperto a oriente in una breve valle con magre chiazze vegetate e i due successivi laghi sul fondo, che però si arresta ben presto contro un altro monte di sfasciumi: un paesaggio quantitativamente limitato, ma qualitativamente davvero smisurato. La ragione del contrasto tra la morbida Bettassa e questo fianco dirupato è geologica, ovvero nella prima il versante è parallelo ia piani di frattura delle rocce metamorfiche scistose, che costituiscono gran parte delle montagne della valle, mentre il versante di fronte a me è ortogonale (la comune configurazione a reggipoggio e franapoggio). La mulattiera mima l’imponenza del paesaggio, un lavoro ciclopico di trasporto di massi da parte dei pastori, per raggiungere la conca del Grand Lac, credo l’unico terreno pascolabile alla quota agostana in questa valle ofiolitica, un’oasi fra i deserti di pietra. Taglio un nevaio un po’ ripido ed esposto, dove stavolta invece la traccia di passaggio è molto marcata. Deve essere qui dove dieci giorni addietro si arrestarono due escursionisti friulani incontrati al Barbustel.
Scendo a un pianoro prativo fiorito, con baite diroccate e cascata fra rocce montonate, dove tento invano qualche scatto che renda il contrasto con le brulle pendici della conca. Proseguo in un avvallamento allungato, occupato da un rado bosco di larici con rododendri fioriti, delimitato a settentrione da una parete di rocce montonate dalla forma rigonfia simile ai frutti del rododendro, modellate in chiaroscuri dalla luce del sole, che filtra tra le nubi per brevi istanti durante il mio passaggio.
Raggiungo i due laghi Cornuto e Nero, dove dovrebbe esserci un cembro dalle radici notevoli, che però non vedo, anche perché lo cerco nella zona sbagliata per i ricordi imprecisi. I laghi sono graziosi, ma salire solo sin qui fa perdere il meglio del panorama, che è a monte. In un tratto di mulattiera particolarmente lisciata, faccio una pausa per terminare l’acqua. Tra i numerosi escursionisti che salgono, mi colpisce in particolare il contrasto tra una giovane donna molto slanciata e il suo botolino tozzo, a cui va il mio encomio se è arrivato sin qui sulle sue zampette lunghe quanto quelle di un riccio. Mi affaccio sul lago Bianco, celebre per il suo panorama con Rosa e Cervino, ora nascosti dalle nubi.
Risalgo fino al rifugio, i cui tavoli esterni sono in buona parte occupati da pensionanti di stasera intenti a fare merenda con taglieri e birre. Vado dentro a prendere una torta con mele e cannella e una Menabrea, perché il tè arriva da un thermos e non so come sia fatto. Il gestore ha modi un po’ secchi, da montanaro scarsamente comunicativo. Il rifugio è privo di docce, a quanto sentirò dai discorsi del tavolo accanto, ma bisogna arrangiarsi a pezzi ai lavandini, dove io invece lavo le mani e rabbocco la borraccia. L’aria esterna, all’ombra delle nuvole, è molto frizzante.
Un cartello indica in due ore il tempo di cammino per La Ville, che sarebbe realistico se si scendessero i 900 m di dislivello rotolando come massi smossi dal disgelo, mentre in mezzo c’è pure un bel po’ di spostamento in quota. Lascio sulla destra la tavola di orientamento, che ora non ha molto senso visitare per le nuvole addossate alla maggior parte delle cime, e scendo per pianori acquitrinosi, in un bosco parco di uncinati tra dossi montonati. Le aree umide, numerose per l’abbondanza di conche glaciali interrate, dove l’acqua ristagna per la roccia compatta che non le permette di filtrare verso il basso, ospitano diverse specie protette: tra queste speravo di fotografare la Drosera rotundifolia, una pianta insettivora che cattura le prede con le propaggini appiccicose delle sue foglie. Sebbene non possa competere con le piante carnivore dei cartoni animati, speravo lo stesso potesse impressionare gli amici, perché i peli delle sue foglie rosse con la goccia di liquido vischioso che le dà il nome (δροσιά significa rugiada in greco) e contiene gli enzimi per sciogliere gli insetti, sono molto fotogenici, ma la sorte non mi arride. La stagione è poi troppo arretrata per gli eriofori, che fioriscono ad agosto. In compenso trovo copiosa un’altra creatura delle zone umide, ovvero la zanzara assetata di sangue, del mio nello specifico, essendo l’unica creatura che può fornirlo loro in questo frangente, a quanto vedo.
Raggiungo un pianoro erboso più esteso della media, dove sono presenti edifici pastorali. Ora posso ammirare le nuvole in dissolvimento sulle cupe moli di Avic e Ruvic, approfittando dei momenti in cui il sole filtra per qualche scatto. Per la verità è proprio questo il mio interesse principale or ora, mentre non mi concentro molto e a registrare con la mente i paesaggi attraversati.
Dopo un’area umida più estesa, segnalata da cartelli e cinta da fili, mi affaccio su un salto vallivo, dove la mulattiera scende più decisa in un paesaggio caotico di rocce, invano ingentilito dalla fioritura dei rododendri, sempre in un bosco arioso di uncinati. In basso compare già il Lac Servaz, ma l’altimetro impietoso mostra che la quasi totalità del dislivello è ancora da affrontare. Transito ai piedi di due pareti di roccia levigate, dove il velo d’acqua che scorre sopra riflette il blu del cielo. Nel frattempo la densità di zanzare è calata tanto drasticamente quanto piacevolmente.
Al lago mi dedico alla foto del Barbeston illuminato dalla luce del tramonto e del grande masso erratico piramidale sul ciglio della valle. Segue una discesa dapprima graduale tra massi erratici, quindi più sostenuta, con vista su una cascata del versante opposto. Ad un certo punto sul margine del sentiero è presente un uncinato dal tronco ripiegato come un serpente in movimento, segnalato da un cartello. Una deviazione porta all’altoforno che per la magnetite del lago Gelato. Non sono rimasti che due muri sbrecciati, ma appare chiaro come era davvero alto, decisamente molto più moderno dei forni interrati dei bassi fuochi, precedenti la Rivoluzione Industriale: alcuni documenti suggeriscono infatti che fu attivo e probabilmente modificato fino ai primi decenni del XIX secolo. Vi è infatti uno di questi forni a breve distanza, un poco più in alto. Era dotato di un sistema di drenaggio contro le infiltrazioni di acqua e di ventilazione forzata, tramite un bacino idrico alimentato da una canaletta in legno.
Nei pressi c’è la presa di una canalizzazione sotterranea, il principale ru (canale irriguo bassomedievale) della valle, chiamato “Ru de Chevrère et Montjovet”: il primo termine indica le zone solatie attorno a Covarey, il secondo è il nome collettivo medievale dei villaggi. Da qui corre in quota per tutto il versante solatio della valle, per irrigare i suoi prati e campi aridi, dove la piovosità è di soli 800 mm/anno, come registrato dalla stazione di Praz Oursie. In passato vi erano anche delle canalette di legno dirette sul versante opposto, a Gettaz. Non ritorno sui miei passi, ma con l’aiuto del GPS seguo una vaga pista erbosa fino a riallacciarmi al sentiero in località Servaz, dove si stacca la mulattiera del lago Gelato. Mi fermo su un muretto a bere (da dopo i pianori acquitrinosi il caldo è montato) e a finire gli ultimi medjoul.
Ora seguo una pista sterrata, da principio lungo un torrente, tra diversi altri che sbucano da ogni dove, anche con cascate. Non appena mi avvicino alla civiltà quanto basta a intercettare la rete mobile, avviso casa della mia permanenza in vita e della presumibile ora di arrivo, che non sarà prestissimo, dal momento che sono già passate le 20. Passo un tantino in cavalleria il bosco di conifere, dove riesco a malapena a notare un giglio martagone sul punto di aprire i fiori, perché punto a intercettare ancora l’ultima luce rosata a La Ville. L’operazione mi riesce, ma per non ricalcare lo scatto fatto al mattino in controluce alle Dame di Challand, adotto una visuale troppo ampia e meno efficace.
Rabboccata la borraccia alla fonte del mattino (per il caldo avevo già terminato la scorta del Barbustel), monto in auto con il bisogno anche fisico, per il calo di pressione dovuto allo sforzo prolungato, di un secondo caffè, dopo quello delle 5. A Champdepraz trovo aperta la trattoria e mi fiondo dentro, tra tavolate di ggiovani alpestri all’esterno e una di vecchi urbani all’interno. Ottengo così un caffè da osteria, con la macchina ma in un bicchiere di vetro, ad un prezzo anni 2000 senza ricordi cartacei. Il luogo ha un’aria rustica e familiare, per cui meriterebbe una visita più approfondita, se non avessi già la cena in frigo e non fosse troppo tardi per le abitudini montanare.
Miniere e laghi dell'Avic
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ma che colpa io posso avere se la montagna presenta tanto di bello, che lo scritto ed il discorso diventano prolissi per accennare solo di volo ciò ch'essa porge d'interessante all'osservazione
M. Baretti, “Per rupi e ghiacci: frammenti alpini”, 1875
M. Baretti, “Per rupi e ghiacci: frammenti alpini”, 1875