
E’ la seconda volta che entro in quel bivacco e mi piacerebbe sapere qualcosa di questi due ragazzi immortalati (forse in uno degli ultimi scatti?) nelle foto appese nella stanza di ingresso. C’è un tavolo e ci sono dei fornelli; il quaderno sul quale mi piace scrivere poemi al posto della solita firma corredata da un frettoloso saluto, delle bottiglie di buon vino, delle quali purtroppo resta solo l’etichetta e una candela in vece del tappo. C’è anche una cassettina per le offerte, per chi si occupa di fornire il bivacco di bombole di gas e coperte.

L’altra stanza è dotata di 6 letti a castello e un armadietto di metallo con tante antine. Brookite, Brookite Junior ed io tiriamo fuori dagli zaini i sacchi a pelo, il cibo e indumenti caldi. Il bivacco è una casermetta militare al quale sono state apposte una porta nuova e un paio di finestre. Al di là delle suppellettili non c’è momento in cui non pensi ai poveri soldati che dovevano passare giorni, settimane, forse mesi lì dentro, al freddo. C’è talmente umido che i materassi sono bagnati e mentre mangi seduto al tavolo piccole scaglie di intonaco cadono come leggeri fiocchi di neve. Non è proprio confortevole ma è un bene che ci sia. E’ un buon appoggio in caso di maltempo e nel nostro caso ci toglie un po’ di ore di cammino per essere più freschi (altrochè freschi!) il giorno dopo, alla “scoperta” della ferrata degli alpini. Siamo ai piedi dell’imponente Oronaye. Dopo una cena calda sapientemente preparata da Brookite con l’aiuto delle bustine di zuppa liofilizzata coop, dedichiamo qualche minuto all’osservazione della bella luce sulla valle, che la luna propaga pur nascosta dietro le alte cime. Profili neri in lontananza, la parete dell’Oronaye biancastra e alzando lo sguardo più sù, in alto dietro il bivacco, sembra di vedere alcune rocce illuminate più intensamente, tanto che immagino i soliti Sarvanot fare festa sulle nostre teste alla luce delle fiaccole… in effetti durante la notte nella stanza del tavolo (nonché delle nostre cibarie) abbiamo sentito dei rumori, come di qualcosa che cade… rumori sui quali non ho indagato, raggomitolandomi sempre più nel sacco a pelo. E poi nel dormiveglia non si capisce mai bene quanto ti accade intorno, oltre ai Sarvanot ho cominciato a immaginare qualcuno che entrava al bivacco (del resto io ero entrata al Bonfante alle 2:30…), così come nella mia fantasia poteva essere un camoscio, uno stambecco invadente…
Finalmente viene l’ora di alzarsi dal giaciglio umidiccio, guardo l’alba e, pur essendo sereno, le nuvolette che interrompono il rosso intenso del cielo non mi ispirano affatto…
Infatti, il tempo di fare colazione, consumata con calma e chiacchierando, e il cielo si copre quasi completamente. Peccato, sognavo una giornata settembrina di quelle limpide e blu mentre a valle avanza solo la foschia.
Si parte. Dal bivacco in poi ci sono più tracce di ungulati che di cristiani.

Io faccio da capo spedizione (che onore!) tanto sugli sfasciumi quanto sulle rocce dove si incontra il primo pezzo di cavo. Seguiamo le tacche gialle fino a raggiungere il primo riparo risalente anch’esso alla seconda guerra mondiale. Sapevamo di trovarlo, ma pensate che emozione per chi lo scopre la prima volta, si intravede il tetto mentre ci si arrampica, per poi vederlo interamente, piccolino, essenziale. Su di un balconcino naturale, punto di avvistamento in anni difficili e lontani… Più vai avanti più sei invitato a guardare indietro… pensi a quelle foto (viste su qualche libro se non nell’album di famiglia) in bianco e nero dagli sguardi severi e sofferti di chi ha vissuto la guerra in prima persona. Pensi alle loro divise sgualcite fatte di tessuto ruvido, spesso, alle loro scarpe dure e scomode, tutto contrasta con i nostri materiali moderni e tecnici coi quali siamo abituati a muoverci in montagna. E’ una parte di storia che tanti libri riportano con numeri, persone senza nome. Ragazzi spesso molto giovani che hanno lasciato la vita tra quelle fredde montagne, strappati alle loro famiglie e catapultati a forza in una realtà crudele, funesta.

Guardiamo la parte di ferrata che continua. Sembra un po’ rischioso muoversi su quella cengia senza sicurezza. Vedere quel cavo al quale so di non potermi affidare e quelle pietre che si muovono… Ci consultiamo e decidiamo per la ritirata. Peccato. Avrei voluto continuare e arrivare più in alto, a toccare la porta del secondo rifugio e magari salire su quella scaletta da brivido… per questa volta è andata così.
Torniamo al bivacco per una minestra calda e dopo aver sistemato tutte le nostre cose e aver dato una ripulita ci incamminiamo alla macchina. Non è andata come speravamo ma il paesaggio è sempre appagante. Data la scarsità di foto fatte fino a quel momento mi sbizzarisco catturando qua e là una natura selvaggia e meravigliosa. Una fonte utilizzata dai pastori (non so perché ma quell’immagine romantica e malinconica mi tocca il cuore)

un sentiero dai margini ben segnati con i sassi. La luce è già autunnale, dolce. E io mi perdo…

Quasi in fondo vengo attirata dal suono di vari campanelli, è un gregge di capre sul versante opposto, ghiaioso e in ombra. Vorrei sgattaiolare via dal sentiero e andare là da loro… sarò matta, forse in un’altra vita ero veramente una specie di Heidi ma non sapete il fascino che il suono di campane e campanacci esercita su di me… e se fossi stata una mucca?! O una capra!

Dal bivacco in poi non ho fatto altro che volgere lo sguardo verso la parete percorsa solo per metà. Volevo indovinare la posizione del ricovero, che da lì non si vede, dove siamo riusciti ad arrivare… guardare il punto dove si trova il cengione e capire dove poteva essere la scaletta.
Durante il viaggio in macchina riesco a frastornare ancora per tre ore i miei compagni di avventura con la musica dei Lou Dalfin che va avanti a oltranza. E mi tiene legata come sempre ai posti dai quali mi sto allontanando, ancora una volta. Per poco…
